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Piero Manzoni: An Artist’s Life. Written by Flaminio Gualdoni, Translated by Peter Benson Miller and Marguerite Shore, Gagosian / Rizzoli 2019.
Piero Manzoni was one of the most radically inventive artists of the twentieth century whose work continues to challenge the definitions of artistic sovereignty and virtuosity to this day. Immediately upon his death in 1963 at the age of thirty, Piero Manzoni’s reputation as a provocateur and wild child preceded him, with his most subversive work, Artist’s Shit, 1961, elevating him to cult status. But what actually came before, and lay behind those thirty grams of pure artistic output? Flaminio Gualdoni sets out to explore exactly that in this biography that traces the guiding themes of Manzoni’s works, lending order to a jumble of hitherto fragmented materials and setting aside any apocryphal hypotheses.
Posto che, volendo parafrasare il vecchio cancelliere Metternich, per troppi oggi l’Europa non è che un’espressione geografica, concependo il progetto Storia dell’arte europea si è inteso invece ricostruire, almeno nelle sue linee maggiori, il contributo che le arti visive hanno dato alla sua identità fondamentale: contributo che è stato decisivo, e per molti secoli ha agito come il vero alimento della cultura occidentale tutta.
Nella definizione del campo, dal momento che il filo del ragionamento riguardava la cultura artistica, non è stato controverso far coincidere il territorio dell’Europa delle immagini con quello che la geografia ci ha consegnato, compreso nei poli dell’Atlantico e degli Urali, dell’Artico e del Mediterraneo.
Dal punto di vista cronologico, i termini sono stati individuati nelle due stagioni per molti versi cruciali della vicenda. All’inizio è il tempo in cui l’ellenismo romano rende paradigma l’arte precedente della Grecia classica nei suoi termini canonici: antropomorfismo, concezione organica e misurabile dell’immagine a prescindere dai suoi statuti percettivi, rappresentazione come resa plastica del processo di pensiero che interroga la ragione d’esistenza del visibile, narratività. Questa è, nei versi del poeta Edgar Allan Poe, “the glory that was Greece”, che “the grandeur that was Rome”, l’estensione del suo dominio, rende koiné che i secoli s’impegneranno variamente a ricostituire dopo l’esaurirsi dell’impero.
[…] Il termine finale è stato individuato nel momento del ‘900 in cui, dopo la fine della seconda guerra mondiale, lo spostamento dell’asse storico agli Stati Uniti, che sono non solo potenza politica ma anche protagonisti d’una rielaborazione consapevole e ulteriore della cultura europea, sottrae all’Europa l’orgoglio della centralità proprio nel momento in cui, dopo la lunga prima metà del “secolo breve”, paiono essere trascolorati gli stessi statuti di necessità della pratica dell’arte. Essa non si specchia più, ormai, nell’apparato di meccanismi identitari – la religione, la nazionalità, la tradizione, la società, l’ideologia – che ne provocavano la produzione e la fruizione, ma vuole se stessa come mondo in tutto autonomo, e come tale si pensa e si rappresenta.
… Flaminio Gualdoni ci accompagna in un excursus brioso, colto e traboccante di aneddoti lascivi e personaggi indimenticabili. Come Lady Hamilton, avvenente giovane dal passato tumultuoso che, sposa del suo pigmalione, diventa esperta nell’impersonare figure dell’iconografia classica: le sue attitudes, lente pantomime silenziose elogiate da Goethe, eternate da Tischbein e ammirate da aristocratici, artisti e scrittori, codificano il genere in un orizzonte situato tra rispettabilità dell’arte, bon ton del gusto borghese e marketing sessuale.
“Scaccabarozzi è abitato dalla curiosità, nutrito dall’intuizione, spinto da una vitalità vorace e solare: ma non ne fa maschere di un pur possibile recitarsi “en peintre”. Tutto deve tornare alla sua solitudine riflessiva, delucidare la propria necessità, senza facoltatività possibili”.
“Generoso, proliferante, mai opportunista, sovranamente indifferente all’amministrazione della propria opera e della propria immagine: fare era sempre e comunque per Claudio Costa l’unica cosa che contasse; mettersi in gioco ogni volta, senza clausole di salvaguardia, là dove l’occasione o la circostanza consentisse l’azione”.
Una reliquia, per farsi oggetto di culto, non è affatto importante che sia vera. Conta la convinzione del suo potere miracoloso: un’opera d’arte, per dire con Werner Muensterberger, “provenga essa da un ritrovamento, da un dono, da un acquisto o addirittura da un furto, porta in sé il marchio d’una promessa e di una compensazione magica”.
L’opera di Manzoni continua a interessarci, intrigarci, irritarci, perché si regge su un’ambiguità insanabile, tra mistico e corporeo, tra alto e basso, tra vitalità e morte. Tra oro e merda.

Piero Manzoni, Vita d’artista, 2013
Manzoni attua una sorta di sottrazione fondamentale: annullare il Manzoni “privato” e calarsi totalmente, senza remore e deroghe, nell’opera. Non esiste per lui, in altri termini, una figura pubblica da recitare mondanamente e un’altra, diversa, che abiti il suo vivere ordinario.
Manzoni vive arte, pensa arte, pratica arte, sempre, a ogni ora dei suoi giorni e delle sue notti. Tutto il resto non gli importa, o è minimamente interessante. A ben vedere, la sua solitudine irrevocabile è il frutto necessario di una dimensione di radicale estraneità mondana che, egli sa bene, è l’unica possibile per farsi – e farsi riconoscere, prima o poi – figura compiutamente artistica: per “essere Manzoni”, infine.
- Storia generale del Nudo, 2012
All’origine il corpo non è nudo, semplicemente è.
La nudità è un fatto di consapevolezza, di coscienza. È uno stato dell’animo e dello sguardo. “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (…) Poi il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì” (Genesi).
La nudità appare come una rivelazione. Lo sguardo distingue il simile, comprende l’identità tra sé e l’altro, e riconoscendolo lo vede nudo. “Lo sguardo, così, produce la nudità così come costruisce il pubblico” (Pascal Lainé).
È da questo momento che essa assume una sorta di duplicità insanabile: da un lato è pienezza sensoriale e mentale, dall’altro si avverte non come uno stato ma come una mancanza, una figura della perdita. Contemporaneamente, la nudità attrae proprio per il meccanismo dello specchiamento delle identità, il fattore primo della bellezza.
La nascita e la storia di un mondo è anche quella delle sue parole. Ne erano ben consapevoli i glossatori alessandrini che, primi in Occidente, hanno concepito il progetto di una visione sistematica del sapere, quella da cui nasce l’idea stessa di enciclopedia. E’ accaduto così, da subito, anche per l’ambito cospicuo delle arti, che non si chiamavano ancora arti belle ma già, Atene insegnava, di se stesse erano consapevoli. Agiva, allora, un concetto di sapere enciclopedico – ispiratore tra l’altro del Plinio della Naturalis historia, fonte primaria di conoscenze anche per le arti – in cui il fattore di circolarità, kyklos, sottintendeva la dinamica e lo scambio, la vitalità e la contaminazione delle conoscenze nel tempo e nello spazio assai più che l’onnicomprensività. Ovvero, non era un fissare normativamente, un chiudere, un discriminare, ma il ragionare criticamente, il tracciare un percorso che sintetizzava e schiariva una vicenda, delucidandone le implicazioni tra passato e futuro possibile…
Dal Futurismo alla Pop Art, dal Concettuale all’Iperrealismo, cinquecento pagine e quattrocento illustrazioni a colori per conoscere o riscoprire il mondo affascinante e complesso dell’arte contemporanea. Un libro sull’arte del Novecento, un secolo importante che è stato il tempo non solo delle avanguardie, delle fucine artistiche, dei movimenti, delle teorie, ma anche quello dei media, dei musei, della storia dell’arte.
L’idea è quella di raccontare, più che spiegare, e rendere evidenti, più che teoricamente definite, le vicende dell’arte del XX secolo. Raccontare, cioè porre il lettore in condizione di conoscere, nelle linee essenziali ma senza schematismi, i fatti salienti, tanto concettuali quanto storici, che hanno reso cruciali le vicende dell’arte del Novecento. Dando giusto peso ai genii ma anche al milieu variegato da cui essi sono scaturiti, lumeggiando connessioni fondamentali – nel tempo dell’integrazione delle arti – con la cultura letteraria, musicale, teatrale, cinematografica, eccetera; ponendo attenzione doverosa al sistema espositivo, critico, mercantile, mediatico entro cui i fatti si sono svolti e i personaggi hanno agito, ma anche non svalutando la singolarità irripetibile di individue, radianti personalità.
“Si può definire libro un insieme concluso di fogli che fanno da supporto a un testo manoscritto o stampato, oppure un insieme di fogli legati insieme, oppure un oggetto dotato di caratteristiche di pregio tali da farne un’opera artistica. Taluni ne sottolineano il carattere di riproduzione multipla del testo, dunque di divulgazione; altri ancora la trasportabilità.
Nel primo caso l’accento è sulla parola, nel secondo sul materiale, nel terzo sulla qualità estetica primariamente visiva e tattile del libro. Negli altri si dice di funzione d’uso e, letteralmente, di scambio.
Ma il libro è sempre libro. È affare di storici e sociologi, religiosi e laici, economisti e filologi, collezionisti e commercianti, scrittori e artigiani, pittori e piromani. È genio distillato e mercatura brutale. Talvolta viene abbandonato sul sedile di un treno, talaltra scambiato, molto spesso rubato – o non restituito, forma meravigliosa di furto senza peccato e senza colpevolezza – oppure al contrario conservato così gelosamente che l’idea stessa di possesso sostituisce lo sguardo. È dono elevato a potenza, anche, perché dono di sé e d’altri. Ogni volta le sue fattezze, pur restando identiche, mutano.
Qualche volta – non sempre – il libro è anche del lettore”.

Arte classica, Skira, Milano 2007
La storia dell’arte classica è trattata non come mera questione archeologica, ma incrociandola con le evoluzioni del mito stesso del classico dal Rinascimento al Novecento: è attraverso il mito del classico che si sono sedimentate molte cognizioni, è la storia culturale recente ad aver restituito al mondo greco e romano una identità storica. La trattazione mette parallelamente in luce i fondamenti di pensiero che, nel trascorrere delle epoche, conferiscono all’opera artistica una ragion d’essere e uno scopo pratico e concettuale – in continuo mutamento. Lo stratificarsi, dal neolitico ai primi secoli della nostra era, di esperienze artistiche diverse, tra rotture e continuità, è letto nella prospettiva lunga della vicenda dell’arte occidentale, della quale l’arte classica è il fondamento la cui eredità opera in modo determinante sin dal sorgere dell’arte cristiana.
Dopo averne delineato la trama tra cronaca e storia, Flaminio Gualdoni affronta il nodo dell’arte moderna e contemporanea: la vicenda dell’Avanguardia, il mostro, la prodigiosa macchina da guerra che ha occupato e occupa l’orizzonte della vita artistica ormai da un secolo. E lo fa senza badare a spese, anche riguardo alla propria identità di critico. Lavora con precisione e senza impazienza, come un buon meccanico, come amava lavorare l’amato Duchamp, il maestro che di smontaggi e rimontaggi senza dubbio se ne intendeva.
Innanzi tutto, un chiarimento: alla solita domanda – Arte o non arte? – secondo l’autore non si deve rispondere “perché è la domanda a esser fuori luogo”. Ci viene presentata, illustrata e – dettaglio non trascurabile – venduta come tale; e il prestigio, la patina e il prezzo sono uguali, se non superiori, a quelli delle opere dell’arte ormai altra, quella antica, del passato che ha preceduto l’avvento dell’arte d’avanguardia. Qui sta il punto e questo è il trucco: “L’avanguardia è nata, si è ramificata in avanguardia, poi è cresciuta in mito e slogan man mano che ne impallidivano le ragioni autentiche. Sino a diventare puro apparato di nominazione, premessa a ogni forma dell’arte che, semplicemente, ambisca a dirsi ancora d’arte. E’ giunto, infine, il punto in cui il mondo dell’arte non si è più diviso in avanguardia e retroguardia (una volta li chiamavano “passatisti”) ma tout court in avanguardia e limbo delle cose che non vengono considerate neppure arte”.
Di questa avventura, Gualdoni ci dà un breve ma convincente resoconto: dalla nascita come minoranza refusée e antiaccademica, tra Manet Cézanne e Zola; al costituirsi come gruppo di promozione presso il mondo snob, l’aristocrazia eccentrica, la nuova aristocrazia della haute-couture (il pubblico d’atelier), tra Apollinaire Picasso e Cocteau; sino allo strutturarsi in apparato di produzione per il mondo chic, la piccola borghesia intellettuale, la nuova borghesia del prêt-à-porter (il pubblico dei media, i borghesi che hanno paura di sembrare borghesi), tra Warhol Beuys e il Critico che non c’è. E siamo alla cronaca, dove l’apparato dell’Avanguardia – ormai con la A maiuscola – la prodigiosa macchina da guerra controlla e regola ormai tutto il ciclo della produzione: peccato che i manufatti siano “perfettamente nella norma, perfettamente prevedibili, perfettamente inutili: ma di una inutilità che non suona rifiuto e antagonismo, piuttosto vale quella del merchandising dell’ultima fiera di settore”. Dall’odierna soi-disant ricerca d’avanguardia – patrocinata, sponsorizzata, enfatizzata – Gualdoni smonta le vicende e le strutture, smaschera le false coscienze di santoni e sciamani di quella che Gianni Emilio Simonetti, citato, ha potuto efficacemente definire uno “strumento di circonvenzione, se non addirittura di intimidazione, del guasto e dell’esperienza individuale”. E lo fa con impietosa ironia, compilando ricette d’avanguardia, forse ad uso e consumo dell’Assessore, e un vademecum per l’aspirante Artista d’avanguardia.
Il lettore riconoscerà a Gualdoni la lucidità dell’analista di talento che si riflette nel teso dipanarsi dell’argomentazione e che giunge sino alla impietosa indicazione dei paradossi della critica; e in queste indicazioni cogliamo l’insofferenza dell’autore per lo status del critico come controfigura di un artista campione di shadow-boxing, a sua volta elegante e stucchevole controfigura (il creativo) dell’artista antagonista (il creatore). Chi ha ancora l’animo di combattere con l’Angelo?
T.G.
Flaminio Gualdoni, critico felicemente eccentrico e attivo, consegna al lettore un libro unico e prezioso. Unico perché manca nel panorama editoriale della critica d’arte italiana, zavorrato per altro di un’ipertrofica produzione soi-disant militante, una cronaca di questi ultimi e confusi anni; prezioso perché dotato a complemento di apparati cronologici davvero utili all’amatore – ma lo studioso saprà approfittarne – come allo studente. Non è poco; ed è inusuale per una cultura, la nostra, che raramente sa produrre divulgazione intelligente. L’autore non ama le dichiarazioni di metodo, come avverte nella sua ironica e graffiante premessa: il lettore gliene sarà senz’altro grato. In effetti, non siamo obbligati alla contemplazione un po’ rassegnata, un po’ scocciata, delle meticolose scatolette metodologiche dentro cui i critici – ma anche gli artisti stessi, ormai – confezionano i loro prodotti; e che sempre più spesso costituiscono l’unico prodotto. Siamo invece coinvolti nella cronaca, sobria ma vibrante, di una vicenda difficile, a volte drammatica, come quella della ricerca di una nuova figurazione.
Gualdoni sa organizzare come pochi le entrate e le uscite dei personaggi – attor giovani o caratteristi che siano: ci sono tutti – e di ognuno sa cogliere le predilezioni formali e cromatiche, disvelare i valori spesso alterati nel “gran gioco” mondano della promozione e del commercio. Ci sono tutti, si diceva; ma l’autore non è un ineffabile chroniqueur, saldamente avvinto allo scranno accademico e ai luoghi comuni della sua giovinezza. C’è una idea storiografica forte, in Gualdoni, centrata sull’asse magnetico Licini-Fontana-Manzoni, ma che non si trasforma in un paradigma assoluto e indubitato di valore. Valga per tutti, come elemento spia di dubbio e finanche di nostalgia, la citazione di una frase di Arcangeli: “L’arte, l’ ‘opera’, quel pezzo di tela o di tavola, quella superficie piana e convenzionalmente rettangola è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira. E’ un’azione indiretta, ma è ancora a disposizione dell’artista per cambiare il mondo”.
S’intende come Gualdoni, nel riproporre le parole di Arcangeli, si interroghi sui motivi della brusca cesura che, a partire proprio dalla esperienza di Fontana, ha separato in due tronconi la storia delle forme e della figurazione. Esperienza che egli lucidamente registra nel successivo corrompersi e svilirsi in comportamenti “artistici” – velleitari rispetto agli enunciati palingenetici subito riciclati in dollari dal sistema – che hanno finito col mettere in crisi, e a volte in ridicolo, la figura dell’artista e del suo mentore critico, ormai ridotti a mansueti decoratore e regista del quotidiano spettacolo del fashion-system. E’ una scelta – redditizia ma, alla lettera, povera – non un destino, diciamo noi.
Nella sua conclusione, Gualdoni lascia intendere come tutti i materiali per una diversa storia siano sul tavolo di ogni artista e di ogni critico, a patto di averlo ancora un tavolo da lavoro. L’impressione è che nello studio minimal del critico contemporaneo manchi. Ma il nostro – lo si è detto – è uno studioso eccentrico, felicemente eccentrico: forse, con uno dei suoi gesti sicuri e sbrigativi, da massaia d’antan, sta già sgombrando il suo.
T.G.
Attraverso la presentazione di singole figure di artisti messi “in fila” dalla A alla Z, il volume intende tracciare un percorso dell’arte italiana nel trentennio che va dal 1930 al 1960. Ognuno dei saggi che compongono la raccolta, e che sono stati autonomamente pubblicati a partire dal 1982, è dedicato al profilo di un artista.
La scelta dei personaggi inseriti nell’opera non è avvenuta secondo criteri di organicità ed esaustività, ma in base a una selezione operata dall’autore che, per sua stessa ammissione, non è immune da predilezioni e idiosincrasie. Ampio spazio viene quindi dedicato, per esempio, agli anni cinquanta, al clima romano tra le due guerre o a personalità come Licini e Fontana, mentre figure anche importanti del panorama artistico italiano, come Carrà e Sironi, sono state volutamente tralasciate.