Pomodoro
Vicolo dei Lavandai. Dialogo con Arnaldo Pomodoro, Con-fine 2012
Arnaldo Pomodoro ha una consuetudine antica con Milano. Vi giunge nel 1954 con il fratello Gio’ e apre in via Visconti di Modrone il primo studio, non lontano da quello di Lucio Fontana, grande coscienza dell’arte nuova.
Ma la “casa della vita” – che per lui, artista, s’incarna non nel luogo in cui abitare ma in quello dove nascono le opere – è all’inizio di via Vigevano, nel cuneo di vecchie abitazioni e laboratori artigianali che si affaccia sul Naviglio nei pressi della Darsena attraverso il Vicolo dei Lavandai, dove ancora è visibile, testimonianza sopravvivente e preziosa, un secolare lavatoio in pietra usato sino agli anni ‘50.

Arnaldo Pomodoro, foro Carlo Orsi
Pomodoro vi approda alla fine degli anni ’60, dopo un passaggio in due studi in un’altra parte della Milano storica, in via Orti, e poi in via Lamarmora.
Trasformato in uno straordinario monumento architettonico moderno da Vittorio Gregotti nel 1983, quello sulla Darsena è divenuto lo spazio in cui tutta la sua esistenza d’artista si è concentrata e da cui si è diramata nel mondo. […]
A.P. – La scelta è infatti stata questa, destinare tutti questi spazi a sede delle attività scientifiche ed espositive della Fondazione. Negli anni, aggiungendo ambiente ad ambiente, il mio studio e le funzioni ad esso collegate si sono espanse tra questi edifici, assumendo tra l’altro una fisionomia che vista dall’alto o in una mappa ricorda un po’ un labirinto, un mosaico irregolare di ambienti tutti bellissimi, tutti dotati d’una precisa storicità.
È stato visitando lo studio di Noguchi a New York che la soluzione definitiva mi si è chiarita. Ero già stato nel suo studio prima della sua morte, e non mi ero mai accorto che esso potesse interpretare così adeguatamente anche la destinazione museale che adesso ha: l’ho trovato così umano che mi ha veramente tolto qualsiasi dubbio e perplessità.
Da qui è nata la terza fase della vita della Fondazione, quella che stiamo affrontando e che la proietta nel futuro. Sapere che la Fondazione opererà nel luogo dove hai lavorato e dove si conservano le tue memorie, dove tracce si sono impresse indelebilmente e si avvertono persino gli odori della vita dell’arte, è la cosa più giusta.