Raciti
Mario Raciti, catalogo, Spazio Annunciata, Milano, 22 novembre 2006 – 24 gennaio 2007
“Cominciai a guardare all’informale con la volontà poi di costruire una nuova immagine, emblematica, visionaria, alla ricerca dei substrati della pittura; raccontare non direttamente ma per dati traslati che sottendessero altro, immagini lontane”. Così Mario Raciti, a rimemorare le radici prime di un lavoro che, nato linguisticamente nell’orizzonte dell’astrazione lirica di ascendenza autre, si è svolto guardando assai più alle sostanze, allo scavo del senso, che al mero teatro delle modalità.

Raciti, Presenze-Assenze, 1976
E’ stato, quello di Raciti, un viaggio condotto sempre al di là della soglia del percepibile, guardando oltre il limite in cui il flusso delle apparenze ci rassicura dell’apparato del mondo, inoltrandosi nei luoghi in cui il senso stesso ha scaturigine, oscuro e ominoso.
Un viaggio fatto di intuizioni e schegge di una visionarietà sottile e lucida, mai abbandonata al puro stream degli affetti e invece accanita, impietosa nell’auscultarsi: non semplicemente effusiva, secondo la filigrana surreale (d’un surreale, beninteso, attitudinale più che visivo, fatto di simbolo, d’eccentricità onirica dal lògos e di tensione antropologica al primario) che certo è stata dagli inizi tra i nutrimenti dell’artista, e piuttosto dubitativa, slontanante, nutrita di umori intellettuali profondi, serrata su un mai dismesso redoublement mentale che tocca le frequenze radianti del mito.
Un viaggio, ha scritto Giuseppe Marchiori, in cui rinnovare continuamente il “momento, in cui tutte le facoltà dell’artista si associano e si concentrano, nella totalità del loro potere di rivelazione poetica”. Ove parola chiave è, appunto, l’accezione estrema di “rivelazione” che in Raciti agisce.

Raciti, Mistero, 2005
Da qui quel suo operare come accumulando, apparentemente in assenza di destino compositivo, i crampi grafici di un segnare prealfabetico e parimenti orfano di referenza, e le stesure intensive, di avvertita intensità, di un colore disagiato, come spossato, che di decantazione in decantazione approda a un bianco inameno, ribollente di climi, che Raciti pone deliberatamente al di fuori del dibattito sul dover essere della pittura, in una sorta di orgogliosa inattualità: il suo portare al costrutto, al processo, materiali della deriva del mondo e impulsi visionari, è piuttosto un modo mahleriano, operante sulla perdita e sulla speranza, innervato d’interne cadenze, di un elaborante trovarsi delle tonalità: il cui stesso interrogarsi è ragione necessaria e sufficiente dell’opera.
Senza l’orgoglio della sapienzialità, quella di Raciti è una ricerca delle radici prime: non formulazione del mito, ma del mito ricerca. E’, in altri termini, quella che Picasso indicava come “il sole nel ventre”, l’intuizione oscura e prelogica dell’esistenza, del generarsi e perdersi della forma e delle imperscrutabili tensioni che vi presiedono, intuite quasi per antica manìa, della capacità del segno di fuggire a se stesso verso il riverbero radiante d’un senso autenticamente sorgivo.
Questa interiore materia prima, per l’artista luogo dell’unica verità possibile prima d’ogni idealismo e d’ogni metafisica, si manifesta negli atti e nelle tracce straniate – ma non cieche, però – della pittura, una pittura che procede per moti taciti e avvertitamente convulsi, luogo unico e irrelato di questo avvenire.
Nel tempo ultimo, nella serie di opere recenti di cui qui si dà conto, Raciti compie un ulteriore passaggio di tale processo, una tappa ulteriore del suo viaggio.
Ancor più pieno vi è il senso di un colore che si fa tensione variante di qualità, di toni, di densità, in un cangiare per brividi, per smagliature di spazio; e più antropologicamente primo vi è il risalire dalla suggestione visiva d’innesco alla sua sintesi insieme grafica e concettuale, come per introversione espressiva.
Il suo è, ora, soprattutto un ragionare di sostanza spaziosa, sostanza/spazio come luogo di scorrimento tra l’innesco proiettivo primo della sensazione e lo spessore astratto di coscienza che la avverte: è spazio dunque non statuito, postulato, condizionale, ma avvertito fin dal grumo genetico primo del processo come tensione, e relazione; come dramma sospeso. Dunque, mistero.