Mario Davico pittore di luce, catalogo, Galleria Bianconi, Artissima, Torino, 9 – 11 novembre 2012

Presentando nel 1958 la personale di Mario Davico alla Galleria dell’Ariete, Milano, Luigi Carluccio avverte che ormai, “nella sua pittura, così tenace e spietata, tutto è ordinato al fine ed alla qualità dell’emozione”. Ciò, va specificato, rappresenta nel torno d’anni tra fine ’50 e primi ’60 una scelta assai più eccentrica al dibattito di quanto oggi possa apparire.

Che le temperature affocate dell’art autre vadano stemperandosi in un’analitica della materia e del segno, o in forme di retorizzazione vieta; che, per altro verso, lo slogan “non fare il quadro” stia indicando non solo la messa in mora della confidenza disciplinare, ma investa lo statuto stesso della forma-pittura, è fatto assodatissimo.

Davico, Dialogo, 1960

Davico, Dialogo, 1960

Ciò che Davico non può accogliere nel suo rimuginio intenso e inflessibile è che, così facendo, altre eteronomie si vanno sostituendo alle antiche: che non si parli di mestiere ma di teoria, non più di bravura ma di identificabilità in seno ai sempre rinascenti compounds artistici, è cosa che non lo appassiona affatto.

Alle spinte divaganti dal pittorico contrappone, in solitudine intransigente, una sorta di concentrazione centripeta che verrebbe da dire, leopardianamente, matta e disperatissima, uno scavo radicale alla fonte prima dell’immagine di pittura.

La geometria come sostituto referenziale ha già, negli anni dei suoi ricercari precedenti, esaurito la propria spinta, rischia di farsi a sua volta maniera, e ideologia. D’altronde, l’orizzonte delle informazioni internazionali di cui Davico dispone gli mostra come la tradizione del surreale abbia germinato, oltreoceano e in certa pittura francese con cui ha, come tutto l’ambiente torinese, grande confidenza, verso la delucidazione di un’autonoma capacità di senso del campo di colore e di un segno irrelato e ai limiti della non intenzionalità.

Egli sa che la questione ora è anche quella di molto saggiare e molto decantare, che non un modo egli deve ora assettarsi ma una frequenza espressiva purificata, l’ambito in cui davvero le pulsioni dell’emozione si depositino come per autonoma forza, e grazia.

Davico, Senza titolo, 1962

Davico, Senza titolo, 1962

Ecco allora maturare un rapporto privilegiato con la carta, superficie confidente e complice nel tempo distillato dell’isolamento d’atelier. La carta che consente un ingaggio dolce e totalmente antidemiurgico. La carta che, soprattutto, può farsi “luogo buono” di questo ricercare ad alto tasso di concentrazione poetica. Il foglio come opera in se stesso: non preliminare, non alternativo, non forma minore e privata: la carta come il tutto essenziale di un esprimere altrimenti motivato e declinato.

Non è a quei tempi una scelta singolare, beninteso, ove si pensi alla predilezione che rende opere a pieno titolo i fogli di un Rothko o di un Novelli. Vale la diversità di rapporto intuita e posta in essere, e, per un certo verso, la considerazione che la tela stessa può semmai essere trattata come una superficie cartacea: la scelta esclusiva della tempera da parte dell’artista, da questo punto di vista, non lascia dubbi di sorta.

Per un autore come Davico, poi, che privilegia l’istituzione di un rapporto intimo e diretto con l’opera, il tendersi di un gioco reciproco di interrogazioni e seduzioni e sguardi tra sé e l’immagine, che egli intende riproducibile, nella fruizione successiva da parte dello spettatore, come ulteriore rapporto esclusivamente individuale (l’antimonumentalità del suo fare è pari solo al suo orrore per ogni forma declaratoria), conta anche la distanza breve, il vedere toccando come esperienza fisica piena, che non si sostanzia in un corpo ma in un’apparenza, una temperatura, una luce.

Che si tratti di tele o di fogli, la sequenza dei lavori che matura nello studio di Davico in quell’avvio di anni ’60 è davvero, per dirla con Emily Dickinson, una “condizione scalza”, un presentarsi dell’opera allo sguardo in una sorta di snudata essenzialità, in una bellezza – ché di questo, infine, si tratta – non catafratta da aggettivi ma che si offre orgogliosa della propria stessa spoglia qualità.

Quanto il farsi della tessitura cromatica, che conosce ardimenti di tono mai precedentemente saggiati, e il suo dialogare con andamenti grafici sottili di slontanato umore organico, siano capaci di farsi in se stessi immagine, è detto dalla loro consapevolezza di essere, soprattutto, luce, con tutto quanto ciò significa in termini anche di suggestivo trascorrimento metafisico.