Perilli
Perilli. Teatro dell’anima, catalogo, Galleria L’Incontro, Chiari, 6 ottobre – 25 novembre 2012
L’occasione di un ripercorrimento complessivo del lavoro di Achille Perilli consente di renderne immediatamente evidenti i tratti distintivi.

Perilli, Composizione, 1947
Personaggio di straordinaria verve intellettuale, ben consapevole sin dall’inizio che la pittura è questione fondata su radici e su possibili culturali ben più che su retoriche come quelle del talento tecnico e d’uno stile ridotto a comportamento imitativo, Perilli è, da subito, protagonista del recupero delle grandi fonti della tradizione nuova del secolo, di cui il ventennio autarchico aveva in larga parte privato il dibattito italiano.
Guarda al mondo di Abstraction-Création, rilegge Balla e Magnelli, Perilli, ma allo stesso tempo avverte che è nel versante dada-surrealista, ovvero quello d’una pratica d’arte che attua una radicale “remise en question” delle ragioni stesse del fare, dei suoi apparati tecnici e strumentali, dell’idea di immagine e di opera soprattutto, che si annida il massimo spessore problematico.
Da ciò, da tale approccio continuamente criticistico all’immagine, deriva quel suo non arroccarsi entro i codici ideologici della geometria statica, quel suo saggiare il tempo e il modo del fare come punto di collisione e contaminazione tra l’atto del tracciare e quello del segnare, tra scrittura e disegno, in particolare tra intenzione e dismisura, che ne contraddistingue la continuità negli anni, di ciclo operativo in ciclo operativo: mentre, va ricordato, plurime integrazioni egli va continuamente sperimentando con i mondi creativi contigui, dalla letteratura alla musica al teatro.

Perilli, Il positivo rovesciato, 1952
Il concetto di “nuova figurazione” che Perilli, ancora in pieno clima autre, formula sulle pagine della rivista “L’Esperienza Moderna”, molto deriva dall’impronta dada-surrealista e moltissimo dal concetto di formatività così come lo intende Klee, la cui lezione sul tracciare come fisiologia del segno e della forma è essenziale per gli sviluppi dell’artista romano, e d’una generazione tutta.
A tale concetto si lega quello, non meno cruciale, di spazio come luogo del possibile: non un dove metricamente o concettualmente dato, bensì inteso, sono parole di un celebre scritto di Restany proprio in “L’Esperienza Moderna”, 1957, come “l’ambito agonico per eccellenza, la zona privilegiata delle tensioni e delle risonanze, il luogo geometrico delle negazioni elementari, a un tempo forma e non-forma, senso e non-senso”.

Perilli, Lo sguardo oltre il mare, 1955
Negli anni maturi, Perilli distilla i valori essenziali di quell’antica presa di coscienza del fare pittura intendendo il segno come un corso strutturante di cui avverti la temporalità sintetica ma scrutinante, che perviene a una forma dalle ambigue valenze plastiche il cui continuo scacco visivo è garanzia che l’occhio sia costretto a una sorta di inarrestabile deriva interna, senza poterne ritenere una concezione unitaria e fissa.
Analogamente, la struttura decide pienamente il proprio stesso spazio, che è la totalità visiva: in altri termini, l’aspettativa dello spettatore cerca, tra struttura e rapporti cromatici, davanti e dietro, figura e sfondo, e anche da questo punto di vista si trova continuamente posta in scacco, essendo il luogo visivo un continuum senza gerarchie dichiarate e accolte.
Qui, come nei primi decenni di lavoro, Perilli agisce anteponendo alla logica dell’effetto un atteggiamento creativo pensoso e lucido: è pittore non di captazioni sensuali, non di effusioni, ma di pensieri pensati, continuamente riattivati nello spettatore attraverso l’esperienza dell’opera.
Perilli, Teatro dell'anima, 2011
Egli è, per eccellenza, peintre philosophe, per il quale solo conta la “cosa mentale” dell’arte. La pittura, per lui, è palcoscenico di pensieri, “luogo buono” in cui le ansie di certezza razionale (di cui la geometria è, per convenzione, depositaria) e le fastose derive irrazionali si fanno consapevolezza stessa del vivere, del pensarsi al mondo.
Il suo teatro d’anima è e si vuole, sono parole sue, “metodologia dell’irrazionale”, come una follia garbata che si affaccia sul crinale esatto in cui il senso e il non-senso, appunto, s’incontrano.