Parisi
Ico Parisi. Essere architetto come il gatto di casa, in G. Bosoni (a cura di), Made in Cassina, Skira, Milano 2008
“Pittore, plasticien, animatore di performances, designer e costruttore”: questa, sinteticamente, è la definizione che Alberto Sartoris dà di Ico Parisi, certo una delle figure più atipiche e fervide della vicenda italiana del secondo dopoguerra.
Sartoris aveva, insieme a Giuseppe Terragni, tenuto a battesimo Ico Parisi nello scorcio degli anni Trenta in seno al Gruppo di Como, cellula precoce d’una tensione alla modernità che colà si connotava come integrazione delle arti in senso anche altoartigianale. Era, davvero, bottega, in cui gli uomini del pensare e del creare e quelli del fare operassero solidalmente, in scambio fervido e criticamente delucidato.

Parisi, Poltrona a uovo 813, 1951
E Parisi vi aveva subito fatto mostra di vocazioni eccentriche allo specialismo, capace non solo di “ricercare espressioni variabili in una stessa unità concettuale” – sono ancora parole di Sartoris – ma anche di farsi, nei decisivi anni Cinquanta, epicentro formativamente critico di rapporti e contributi perfettamente omogenei: integrare al proprio progetto pitture di Mario Radice ma anche dipingere egli stesso astratto, collaborare con Vittorio Tavernari e Giuseppe Somaini ma anche amministrare in proprio il decoro tridimensionale; e fotografare, e inoltrarsi nel graphic design, e allestire esposizioni, e disegnare tessuti, e progettare arredi: fare case, è, per lui e per la moglie Luisa, che sino all’ultimo sarà la sua non meno geniale partner inventiva, tutto questo insieme.
Nel 1953 egli scrive, in risposta a un’inchiesta sulla nuova architettura coinvolgente autori come Sartoris, Michelucci, Quaroni, Albini, Figini e Pollini, pubblicata in “Numero”, gennaio-marzo: “Sono convinto che si formeranno delle unità creative, in cui architetto, pittore e scultore, alla maniera dei Maestri Comacini, daranno un nuovo volto all’architettura moderna. (…) La sintesi dell’architettura con le altre arti si può concepire soltanto nel convivere degli architetti con i pittori e gli scultori alla maniera dei Maestri Comacini”. Sta parlando, certo, del tema strepitoso che le Triennali milanesi tra il 1951 e il 1957 esplorano largamente, sino a fare dell’integrazione delle arti parola d’ordine e slogan; ma più specificamente enuncia il proprio credo più profondo, che l’unità creativa che rende possibile tutto ciò è l’integrazione delle artisticità diverse nella persona individua dell’architetto, nella cui stessa fisionomia tecnica ed espressiva le sapienze diverse si coniugano e omogeneizzano.

Parisi, Sedia 691, 1955
E’ questa la ragione per cui sin dall’immediato dopoguerra Parisi riprende il filo di una formazione interrotta bruscamente – la guerra è, per lui, la campagna di Russia – a partire da quel credo già definitivamente maturato. Mentre nel 1949/1950 offre i primi esempi della propria architettura integrata, come Casa Carcano a Maslianico, con interventi di Radice e di Fausto Melotti, e casa Notari a Fino Mornasco, ancora con Radice, presenta alle Fiere di Milano mobili concepiti per quelle stesse case, nate nei laboratori artigiani canturini con i quali instaura vere e proprie continuità produttive, da Ariberto Colombo a Arte Casa, dai Fratelli Rizzi e Spartaco Brugnoli. Sono di questo tempo la celebre sedia da tavolo imbottita dalla struttura in palissandro, i divani e poltrone presentati alla Fiera del 1949 di cui dà contezza, come quasi sempre accade alle prove di Parisi, “Domus” dell’amico e maître-à-penser Gio Ponti, ma soprattutto il tavolo scrittoio sempre in palissandro presentato da Fede Cheti a Milano nel 1948: la mostra è “Lo stile nell’arredamento moderno”, replicata quasi identica al “34 Salon des artistes décorateurs”, e Parisi vi prende parte insieme ad Albini, Buffa, Buzzi, Chiesa, Lacca, Minoletti, Mollino, Rava, Ulrich (e proprio Ulrich è autore di Arredatori Contemporanei, edito da Gorlich nel 1949, radiografia perfetta del tempo) a celebrare la rinascita del fare italiano e della sua eccellenza, quasi intuendo il clima di “Rinascimento lungo” di cui gli storici ci hanno in seguito dato certezza anche sul piano della continuità che chiamiamo made in Italy.
Alla mostra da Fede Cheti Parisi presenta anche una toilette-scrittoio in palissandro della quale Leonardo Borgese scrive che “ha la bellezza semplice e viva di un cavallino”, e il prototipo del mobile che, in seno alla sua produzione, contende la palma del più celebrato alla poltrona 813 progettata per Cassina. Si tratta del tavolo-mensola, del quale esistono varianti in noce lucido con piedini e attacchi in metallo argentato, in noce e ottone, e nell’allora prediletto palissandro ancora con ottone: progettato nel 1947, assai amato da Ponti, il tavolo-mensola sarà oggetto di cospicua produzione anche da parte di aziende americane come Altamira e Singer & Sons.
Questo scorcio di decennio indica con chiarezza i caratteri fondativi dell’invenzione di Parisi. Incontrattabile altissimo pregio dei materiali impiegati, predilezione per dominanti curvilinee impiegate come nervature d’eco organica (“come le membra del corpo umano”, ne scrive Radice in un articolo) e incastri diagonali, uso sapiente delle stondature, delle sezioni ovaleggianti e delle politure lucenti in seno a un livello esecutivo che si vuole perfetto, ricerca di una sensuosità primariamente tattile e di una qualità estetica trascendente il mero funzionale: quando, di lì a un trentennio, si cercherà di fare un bilancio di quel tempo e di quel clima, che va dal barocco lussureggiante di un Mollino al genio essenziale di un Albini e che vede in Parisi un interprete primario e un propulsore, si immaginerà di definirlo non casualmente come neo-liberty.
E’ con mobili alitanti il medesimo spirito che Parisi si affaccia alla Triennale del 1951, a cominciare da una possente e insieme leggera scrivania in noce, realizzata da Arte Casa, il cui motivo caratteristico sono i piedi sgorganti come una nervatura statica rilevata dai fianchi, a loro volta trattati a bassorilievo con motivi astratti biomorfi da Tavernari. Sono mobili “turbolenti”, “non lasciati in pace dalla fantasia” ne scrive Ponti in “Domus”, il quale esprime velate riserve sull’eccesso di estetismo.
La risposta di Parisi a tali appunti è pronta, e determinante. Nel volgere di un breve periodo, eccolo chiudere nel 1950 per Brugnoli un cassettone in wengee naturale e laccato bianco trattato con rilievi che paiono neoplastici, di perfetta geometria, e un anno dopo la poltrona 813 che segna, già al debutto, un vertice nella sua pluriennale collaborazione con Cassina.
Passata alla storia come “poltrona a uovo” per quel suo costruirsi su motivi solo curvilinei declinati a partire dal cerchio e per quel suo serrarsi intorno al corpo con una shape avvolgente, retta da quattro piedini metallici diagonali che ne accentuano la dynamis visiva, la poltrona 813 si accompagna a un divano d’affine concezione, e si imparenta strettamente con la coeva “poltrona a conca”, che mantiene il medesimo principio formale ma svelando il principio portante, il quale si fa dinamicissimo anello spaziale in legno multistrato curvato che regge la seduta e poggia su longilinee gambe metalliche.
E’, s’è accennato, lo scatto decisivo di Parisi, il quale nella raggiunta nudità strutturale della forma tipica di tutti i progetti per Cassina – che si legge tipica anche nella coeva sedia 691 e in realizzazioni successive come, ad esempio, la poltrona e sgabello 856, con scheletro a balestra in acciaio e legno, e la poltrona e divano 865 – non fa che distillare un uso sapiente delle tensioni curvilinee, delle diagonali, in nome di una presenza spaziale comunque fortemente estetizzante.
Della straordinarietà di queste intuizioni è testimone prezioso, ancora una volta, Ponti, che in alcune lettere a Parisi, come sempre figurate e di straordinaria verve tra ironica e poetica, ora conservate alla galleria Civica di Modena, ridisegna la “poltrona a uovo” scrivendo: “Miei cari la vostra poltrona a uovo è una meraviglia. Siete maestri a me non resta che ritirarmi e vivere nell’oblio a Civate”, e ancora: “Caro Parisi manda subito a Domus la foto della tua poltrona”.
Tutto ciò si svolge nella prima metà degli anni Cinquanta, attorno a quel 1954 che lo vede affermarsi alla X Triennale con il Padiglione soggiorno, un “Glaspavillion milanese” secondo la definizione di Fulvio Irace, una “struttura a membrana corrugata, autoportante, conclusa con una copertura a lastra continua con piegature radiali a stella, terminante con peduncoli che la distanziano dal terreno”, con contributi artistici di Somaini, Munari, Reggiani e Milani, secondo la descrizione dello stesso Parisi.
La pianta impostata sullo sviluppo spiraliforme dice di una naturalità organica nel concepire il corpo plastico che, riconoscibilissima nei mobili, senza farsi vessillifera di altre ideologie qui prende di fatto a decantare la clarté modernista del suo apparato rigorista di modalità formali, in nome di un radicalismo anarco-borghese, laico, illuminato, critico, cosmopolita senza provincialismi, sanamente sospettoso anche delle liturgie del professionalismo architettonico “alla milanese”: in una parola “un’altra faccia dell’architettura, certamente non quella del denaro, ma quella della piena disponibilità affettiva al mutamento”, come argutamente sintetizzerà Pierre Restany.
Non pensa la casa come forma, Parisi, men che meno come macchina funzionale. La pensa come tana dell’intelletto e di funzioni esistenziali: e i suoi arredi ne sono gli apparati di vita. Egli è, secondo le parole che indirizzerà nel 1984 a Bruno Zevi, “il personaggio dell’architetto degli anni ‘50-’60, uomo di mezza età più giovane che vecchio o comunque giovanile e dinamico: reduce di guerra o partigiano un po’ anarchico, ma con contenute accettazioni di comodità borghesi”, e questo edificio, che diverrà davvero casa quando di lì a tre anni Parisi coinvolgerà artisti come Fontana, Munari e Somaini nella progettazione della propria abitazione comasca, non può che ospitare mobili come i suoi, compiutamente assolventi il proprio destino funzionale ma insieme, e ineludibilmente, concepiti come intermezzi ritmici, accenti, organismi che contengono e sono contenuti.
Parisi amava spiegare con arguzia che l’architetto, progettando un luogo di vita, deve fingersi il gatto di casa e pensare ai suoi movimenti e al suo stare. Quel che è certo è che, se un gatto dovesse attribuire l’Oscar per una poltrona su cui appisolarsi, sceglierebbe la Cassina 813.