Il trucco di Michelangelo. Michelangiolismo e scultura moderna,  in “FMR”, 26, 2008

Scrive Auguste Rodin in Mon séjour à Rome, pubblicato nel 1912 in “Excelsior”: “Il mio ricordo più avvincente di Roma resta comunque il gruppo di Michelangelo con il Cristo, la Vergine e un angelo, che è stato ap­pena scoperto in una cappella nel piccolo pae­se di Palestrina e di cui ho visto nella capitale il calco. Il genio di Michelangelo appare sinte­tizzato in questo capolavoro più che in ogni al­tro. Lo si potrebbe far rotolare da una monta­gna senza riuscire a spezzarlo.

Rodin, Orfeo e Euridice, particolare, 1887-1893

Rodin, Orfeo e Euridice, particolare, 1887-1893

È esso stesso una montagna. Tutte le linee sono nella massa. Non v’è nien­te che superi i piani essenziali. È di una severità egizia, e tutto è contenuto in un quadrato. Il fatto che le gambe del Cristo siano troppo corte, dimostra con quale impeto lavorasse Michelangelo. La sua emozione lo induceva ad accentuare il dispositivo dei grandi piani a sca­pito dei dettagli. E poiché a volte gli mancava il marmo, era costretto a ridurre alcune parti rispetto all’insieme: questa è la causa di questo apparente difetto nel suo gruppo. Ma l’insie­me è sublime e non dimenticherò mai il braccio del Cristo che ricade morente e che somi­glia a una zampa di leone. Sono questi i principali ricordi di Roma. Quando tornai a Parigi, mi parve di entrare in una città dagli edifici privi di rilievi”.

Rodin esplicita in questo appunto la complessità del rapporto con Michelangelo, ben più intricato e sfumato del rapporto con il classico tout court. Anzi, si può per altro verso ben dire che non tanto il mito nascente di Rodin come “nuovo Michelangelo”, ma proprio la dialettica critica tra ciò che il Novecento pensa del grande francese e l’immagine costituita del grande toscano, abbia intonato molte delle più decisive riflessioni del secolo sulla possibilità della scultura. Rodin ama la tradizione, ama l’antico (“L’antico ci ordina non di copiarlo, né di interpretarlo, ma di operare come lui – il che non significa fare la stessa cosa”, egli scrive), ma come ambito problematico: esattamente come intendeva, a suo tempo, Michelangelo. E crede nella possibilità di una scultura non posta in scacco dal prevalere di paradigmi pittorici nell’arte nuova, e anzi esaltata in tutta la sua storica, sacrale specificità.

Bourdelle, Adamo, particolare, 1889

Bourdelle, Adamo, particolare, 1889

Rodin, e il Novecento tutto, prendono tuttavia a leggere Michelangelo non come il modello della perfezione, bensì come l’artista inquieto e rimuginante, distillando la mitologia romantica che lo riguarda in chiave di conflitto irrisolvibile tra essenza ed esistenza, tra certezza del cosmo e deriva incoercibile del senso; di frattura insanabile tra soggettivismo individuale e dipendenza da una legge esterna e oggettiva, che ora prende a farsi estranea. “È questa la tragicità delle figure di Michelangelo: il fatto che l’essere è travolto nel divenire, la forma nell’eterna dissoluzione della forma”, scrive Georg Simmel nel 1911 in Rodin mit einer Vorbemerkung über Meunier, proprio ragionando di Rodin. Ma ancora quello di Michelangelo è un pensarsi, ancorché dubitante, univoco. Con Rodin, il fuoco problematico si concentra proprio nell’indagare quello iato insanabile, a fare del divenire il punto stesso della perdita, della fine dell’unità classica.

Alcuni riferimenti, tra concettuali e retorici, vengono assunti dal modello michelangiolesco ma diversamente declinati, da parte non solo di Rodin ma anche di un paio di generazioni per le quali fondare una scultura moderna non è fatto d’ideologia e di stile, ma di ricerca di un credibile nuovo statuto di necessità. Il non finito come rapporto drammatico tra forma e informe, tra dinamica del formarsi e dominio demiurgico della padronanza fabrile; l’enfasi spaziale dei volumi nella loro primazia rispetto all’architettura grafica della forma; la capacità del frammento di inverare, comunque, una totalità visiva; la forzatura della correttezza anatomica in nome del senso intrinseco di vitalità come tensione espansiva della forma: non è solo la “zampa di leone” a far di Michelangelo un modello critico, ma, più, l’ambiguo fervidissimo convivere di potenza plastica nell’agonismo del levare, e di tensione espansiva della forma dall’interno, per pulsione autenticamente vitale. Che è quanto, sia detto anticipando uno dei passaggi ultimi della vicenda novecentesca, ossessiona anche un pittore come Francis Bacon, il Bacon che appende, postilla e macera nello studio riproduzioni di disegni michelangioleschi e che afferma: “Quello che intendo fare è ricollocare il soggetto nel sistema nervoso, renderlo con la stessa intensità con cui lo si incontra nella vita”.

Michelangelo, l’idea di Michelangelo, è bersaglio polemico delle avanguardie militanti in quanto icona stereotipata dell’accademismo ottocentesco, del monumentale retorico, di un classicismo stremato a luogo comune.  Ma non di chi, da quelle plaghe partito, ben conosca i limiti intrinseci, la vacuità fondamentale di tali stereotipi, e tenti di delucidare un anticlassicismo che del classico sia davvero alternativa alta. Rodin dunque, e anche il Constantin Brancusi ossessionato da massa forma e superficie nella luce, l’Henri Gaudier-Brzeska intransigente volumetrico che tenta posture – non pose – estreme, e  Henry Laurens, e Jacques Lipchitz, e Antoine Bourdelle, su su sino a Henry Moore, di Bacon sodale…

La nuova scultura italiana percorre, rispetto alle avanguardie internazionali, vie affatto differenti. In primo luogo perché la continuità con l’Ottocento vi si svolge per evoluzioni cautelate anziché per strappi, né figure di troppo fugace presenza come Medardo Rosso e Umberto Boccioni possono svolgervi un ruolo fondante. In secondo, perché il “ritorno all’ordine” vi si verifica senza che, di fatto, l’avanguardia abbia inferto alla cultura artistica vere e proprie cesure. Ancora, perché proprio le grandi scuole scultoree, la milanese di Lodovico Pogliaghi e di Enrico Butti su tutte, nel proprio orgoglio superdisciplinare mitizzano di Michelangelo anche il magistero tecnico, l’abilità fabrile, continuando ad avvertirlo come paradigma insuperabile e come incombente ombra paterna.

Martini, La sete, 1933-1936

Martini, La sete, 1933-1936

Tutto ciò, sino alla svolta decisiva di Arturo Martini. Egli affida addirittura a un testo d’ispida lucidità, Il trucco di Michelangelo,  una lettura finalmente non banale del grande predecessore, ponendolo a confronto problematico e concettuale con Donatello: esattamente ciò che, nel saggio su Rodin, fa anche Simmel, apprezzando però solo il Donatello dei rilievi e considerando non compiuta la sua apporopriazione della corporeità tridimensionale. Scrive Martini: “Ma io voglio andare in là, discorrendo della maggiore facilità di raggiungere il peso assoluto da parte di Michelangelo rispetto a Donatello. Ogni opera d’arte quando è raggiunta possiede un peso assoluto, tanto è vero che tutte le arti, per questa ragione, hanno una parente; codesta condizione di peso assoluto o pienezza si può riscontrare per solennità, per compostezza: una specie di peso specifico che, se anche non si può definire, si sente precisamente. […] Altro vantaggio di massima importanza per chi cava il superfluo dal blocco è quello di trovarsi dinanzi ad una maestà espressiva come può venire da una rupe o da una montagna: suggerimenti di compostezza, di solennità che formano i caratteri dell’opera classica – e questo può succedere anche a un romantico come Michelangelo – mentre un artista classico come Donatello, dalla materia molle e pronta allo svolazzo, si trova tentato, durante il lavoro, da soddisfazioni improvvise di carattere romantico. […] Insomma, siccome la grandezza è una tappa verso l’impersonalità e siccome l’uomo è sempre inferiore alla Natura, il masso dominando Michelangelo gli proibiva il completo innesto della sua personalità, mentre chi mette è vittima assoluta del principio e della fine di qualunque estro, di qualunque fatica e di qualunque stanchezza. […] Quando mi riesce qualcosa, si giudica che io abbia dei “trucchi”. Quello del levare dal blocco fu il “trucco” di Michelangelo. Donatello, forse con più genio, non lo scoprì”.

Donatello ancora perfettamente classico, non contenuto e stimolato dal processo della tecnica a levare; Michelangelo, già venato d’anticlassico per quel suo sanguigno aggredire il blocco, senza dominarlo. È, quello di Martini, il tentativo estremo di mantenere la tradizione scultorea agganciata al mito del grande toscano, al tendersi vitale della materia nella forma, al periclitare della forma sotto la spinta dell’esistenza. Da allora in poi, la ricerca plastica sceglie la via di demateriazioni diverse. E l’ombra Michelangelo, infine, trascolora.