Un probabile umore dell’idea. Yves Klein & …
Un probabile umore dell’idea. Yves Klein & Castellani Dadamaino Lo Savio Manzoni Morellet Uecker, catalogo, galleria Niccoli, Parma, 1 aprile – 10 maggio 1989
“La sua pittura sale di grado in grado, dal colore alla luce, dalla luce allo spazio, e dallo spazio ad un probabile umore dell’idea” (l). Così, 1959, Emilio Villa incrocia il proprio scrivere rabdomantico con il lavoro nitido e intransigente di Francesco Lo Savio. Intuisce molto, di quello spazio-luce, di quell’inemotivo recidere l’espressivo, l’emblema, il simbolo, da una modalità di pratica d’arte che si vuole critica e processo, forma strutturalmente formata per evidenza linguistica, irrelato pensiero di sé. E’ un’intuizione, come spesso in Villa, ben più trasversale e proliferante della mera occasione generatrice: è, in filigrana, penetrazione nelle ragioni profonde di una vicenda tutta, di un clima, d’una energia corrente tra i portatori dell’ultima possibile avanguardia.
Le figure, e i fatti, sono oggi ormai ben noti. La paternità di Lucio Fontana, anzitutto, santone d’una whiteness continuamente contaminata tra pittorico e mentale, smisurata scommessa con l’infinito e maestria insieme, padronanza, e talento, grazia.
Più ancora, il vicino modello lacerato di Yves Klein, le monochrome, anartista duchampiano fascinato da Fontana, che corre non la vita dentro l’arte ma l’arte come vita stessa, ribaltando la “parossistica quasi truculenta conclusione di un esagitato romanticismo” (Castellani) che è dei tempi nel gesto finalmente ultimo, in tutto concreto, libero della libertà del possibile, indeterminato; agonico, nel collasso del sublime. Personaggio della leggenda del moderno, né testimone né esemplare; e solo: d’una solitudine che è riappropriazione esclusiva di soggettività, e scommessa insieme con il nonsenso del mondo, non separazione ma radiazione, quantum lucidamente deviato a conflagrare negli atti, epifanie d’un pensiero disperso (energeticamente dissipato), a far di ogni domanda la domanda estrema: “saut dans le vide”, appunto.

Klein, Petit bleu I.K.B., 1957
Attorno a Klein, i milanesi cosmopoliti di Azimut, Castellani e Manzoni in testa: i tedeschi di Zero; i nordici di Nul; i francesi di Motus; i “cani sciolti” romani Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini… (2). E le mostre. “Monochrome Malerei” a Leverkusen, 1960; le uscite collettive olandesi da Orez a Amsterdam, Delta a Rotterdam, A a Arnhem, su su fino alla grande “Ekspositie Nul” allo Stedelijk di Amsterdam, 1962; e l’importante sezione del XII premio Lissone, con milanesi e romani e la precoce presenza d’un Paolini già avanti nell’esplorare la misura analitica, di rarefatta mentalizzazione, del pensare/fare e dell’immagine come doublure (3).
L’ordine e l’intreccio dei problemi, delle intenzioni, delle vocazioni, è però assai più fertile di quanto non dicano le schematizzazioni, ormai usuali, che di quei disincanti sensoriali ed emotivi ragionano in termini di grado zero, e dematerializzazione, nella polarità tra nuovi scientismi e nuovi dadaismi che figlierà in Nouvelle Tendance, e pop, e minimalismi, e protopoverismi. Nel refolo bruciante fra 1958 e 1963, l’anno dei lutti, è come se la ragione stessa dell’avanguardia storica, pervenuta al grido lancinante e non corrisposto d’un umanesimo ancora fideistico, ma insieme all’impaniamento coatto nel consumo snob, nel rituale delle storicizzazioni obbligate, avvertisse l’ultimatività del frangente, cominciasse un impietoso à rebours di se stessa, delle proprie fondazioni e certezze, in una impietosa e – incredibilmente – prima autocoscienza. Che si chiede finalmente non come, ma perché, in una concatenazione d’interrogativi che tutto assume e a cui tutto converge. L’assoluto, di nuovo, è in gioco, come ai principi del secolo.

Morellet, Grillage, 1973
La “nuova concezione artistica” (4), capace d’alternarsi a quella ancora ossedente dei chierici della nuova arte di regime, così come agli “atti impuri” di “alcuni strani tipi d’avanguardia” (Agnetti) (5), ha tensioni definitivamente palingenetiche, ansie d’una utopia non delegittimabile dai siparietti mondani del moderno. E’ radicale, nel sottrarre alle modalità, alle tecniche dell’evento, ogni postulazione qualitativa in favore d’un assoluto che sia pensabile puro; forma in quanto concretezza necessaria, distillato differenziale in cui avvenga la crisi genetica del pensiero. E’ vitale, perché il consistere stesso dell’artista e del suo agire nel reale si attua nell’interpretazione energetica, parossisticamente etica, del vuoto in quanto negativo, e assenza: e nel processo, nell’apologia ridondante del metodo, riscatta la materia insensata a sostanza: l’immateriale, blu o fuoco, di Klein, si fa concetto visibile, azione concreta, esperito ubi consistam del dubbio primo, dello scacco al mondo. E’, ancora, evolutiva, ovvero non aprioristicamente svalutativa dei corsi pregressi dell’arte. Come ogni autentico clima avanguardistico, s’ingegna ulteriore nella polemica ma più ancora nell’assunzione di paternità. Ragiona di concretismo storico, ma aggirando il rigorismo ecclesiale di Ulm, carezzando piuttosto le trascendenze metafisiche di Mondrian nell’incrocio con il risk and game duchampiano e surrealista, con la dismisura esistenziale e l’impressione corporea sul vuoto di Pollock.
La “luce pura ed assoluta” di cui dice Manzoni, “una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire) “ (6), è asserzione e intenzione anche ben diversa dal “what you see” di Stella e degli statunitensi, intriso, questo, d’oggettualità incapace di riscattarsi in cosmogonia. E’ stato fisiologico del concetto che s’informa al minimo della mediazione mondana, per catafratta reticenza, come innescando correnti e riverberi ideali a catena senza consumarsi, senza perdersi nella contingenza, proprio sottraendosi all’enunciato di sé. E’ condizione di silenzio, così concentrata da dirsi al di là del teatro delle cose, dei modi: assoluto possibile attinto dall’avventura estrema della mente, sola.
Note
1. E. Villa, Francesco Lo Savio, in “Appia Antica”, l, Roma, 28 luglio 1959.
2. Cfr. la ricostruzione di M. Meneguzzo, Azimuth e Azimut, Milano 1984. Inoltre G. Celant, Manzoni, Milano 1975 e F. Gualdoni, Dadamaino, Leonberg 1984. Un panorama di tutto il periodo in L. Vergine, L’ultima avanguardia, Milano 1983.
3. Al XII premio Lissone, nella sezione “informativo-sperimentale” figurano i gruppi T e N, Manzoni, Castellani, Dadamaino, Schifano, Lo Savio, Paolini, tra gli altri. In “Nul”, Amsterdam 1962, gli italiani Castellani, Manzoni, Dadamaino, Lo Savio, Fontana, Dorazio, e inoltre Schonhooven, Mack, Uecker, Haacke, Peeters, Arman, Armando, Mavignier, Aubertin e altri.
4. “La nuova concezione artistica” è il titolo di una mostra a Azimuth, 1960, con Breier, Castellani, Holweck, Klein, Mack, Manzoni, Mavignier.
5. V. Agnetti, I: non commettere atti impuri, in “Azimuth”, 1, Milano, 1959.
6. P. Manzoni, Libera dimensione, in “Azimuth”, 2, Milano, 1960.