Arte italiana. Esperienze degli anni ’60/’80, saggio introduttivo, Umberto Allemandi, Torino 1992

E’ con la breve maturità di Piero Manzoni e le contemporanee fitte presenze di Yves Klein in Italia che, alla fine degli anni cinquanta, la cultura d’avanguardia italiana trova, in modo non derivativo rispetto alle situazioni internazionali di riferimento, Francia e Stati Uniti in testa, corsi nuovi di radicale vitalità.

La lunga, e per molti versi oziosa, disputa tra realismo e astrazione geometrica e lirica, da un lato, e le varie ricche declinazioni dell’art autre, dall’altro, hanno nel corso degli anni cinquanta comunque sprovincializzato in modo definitivo il dibattito artistico italiano, e posto le premesse per alcune svettanti, cospicue maturità, che proprio nel decennio successivo offrono esiti in grado di costituire una griglia di riferimenti di primissimo ordine.

Afro, Mattia Moreni, Toti Scialoja, Emilio Vedova, Leoncillo, Vasco Bendini, Emilio Scanavino, sul fronte chiuso dalla definizione d’informale. Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, Piero Dorazio, Carla Accardi, Giulio Turcato, Tancredi, Mario Nigro, su quello più strettamente astratto. Pinot Gallizio, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, a incarnare un clima di varianti riprese dada. Cy Twombly e Gastone Novelli, che dal movente dada-surrealista maturano ipotesi di segno/spazio, di deriva stilistica e formale, di folgorante novità.

E, su tutti, il carisma dominante di Alberto Burri e Lucio Fontana, diversamente formalizzanti – ­classica è la vocazione di Burri, barocca, di cangiante apertura concettuale quella di Fontana – e diversamente sperimentali nell’esplorare lo spessore delle materie povere, culturalmente adespote, e con un senso dell’esperienza estraneo alla pura padronanza stilistica, metamorficamente estroverso; a convocare nello spazio ordinario d’esistenza un processo d’invenzione e trasfigurazione formale ad alto tasso di energia intellettuale, di poeticità intrisa già di criticismo. Sono magisteri, tutti, di differente fondamento e valore, la gran parte dei quali, secondo il carattere originario e tipicizzante riconosciuto ormai universalmente all’arte italiana assettati in un senso alto e sapientemente distillato dello stile, della compiutezza della forma formata, d’una qualità estetica congenita all’esito del processo espressivo, che ne fa delle opzioni non discontinue rispetto all’idea stessa di tradizione, di proiezione storica di un’arte che si rigenera non disconoscendo il proprio nucleo primario, genetico di senso. Più complessa è la posizione di Fontana, il cui intendimento d’una classicità possibile non è meno terso, ma assai più disposto a contaminarsi con le occasioni del nuovo: sia sul piano epidermico, modale, dello stile, delle tecniche, dei processi attuativi dell’idea, sia su quello, ben più rivelatore, del pensiero del mondo, delle dismisure schiuse non dagli eccessi emotivi dell’art autre, ma dalle suggestioni sconfinate della scienza, della tecnica, della filosofia: nuova è la nozione stessa di oggettività, e soggettività, che la cultura umana va scoprendo, e per questo nuova deve essere la testimonianza, la scommessa, del ripensamento della natura e delle pratiche dell’arte. Con Fontana, dunque, il valore stesso di avanguardia artistica viene sottoposto a una rifondazione estranea all’ormai codificato meccanismo wave on wave.

Colombo, Strutturazione fluida, 1960

Colombo, Strutturazione fluida, 1960

Cadute le utopie di funzionalità storica, così come quelle simmetriche d’eversività, d’alterità sociale, è sul piano di altri codici, d’una forma artistica come connaturata al concetto stesso della realtà e non più alle sue ipotesi rappresentative, trascrittive, che il viaggio del senso, estremo, vertiginoso, di lucida analiticità e insieme d’avventurosa ipoteticità, si deve compiere. Cose diverse, bisogna dire, semplificherà Manzoni, anziché dire diversamente 1e cose di sempre. Psiche soggettiva e universo, sovrapposti e identificati come topoi del segreto del mondo, sono il luogo della nuova demiurgia, dell’ultima possibile laica scommessa faustiana. Senza eroismi, senza retorica, senza pathos, senza letterature, senza testimonialità esemplari: nell’inemotività lancinante di un fare che si conosce, e si interroga, nel suo stesso avvenire, nel suo stesso convocare senso alla forma. “What you see” non è, per Fontana e per la più avanzata cultura europea, “what you see”: è l’universum cieco schiuso dai buchi, il “saut dans le vide” di Klein, il luogo sospensivo in cui il linguaggio non specchia un concetto, ma scatena un dubbio, una domanda, una distanza.

Attorno alla sua esperienza crescono, dunque, i fondatori della tradizione novissima; meglio, come titolerà una mostra patrocinata proprio da Fontana, della nuova concezione artistica. Sono, dapprima, Manzoni e Enrico Castellani, poi i compagni di via che daranno vita a gruppi variamente articolati, come Dadamaino, Getulio Alviani, Agostino Bonalumi, Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco, e Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi, negli epicentri di Milano e Padova. Con loro, sono altri giovani come François Morellet e Günther Uecker, Heinz Mack e Otto Piene, Hank Peeters e Jan Schoonhoven… dalle milanesi gallerie Azimut, Pater, Danese, alle numerose precoci occasioni internazionali, al progressista Stedelijk di Amsterdam come al mitizzante Louvre, le indicazioni di arte programmata e nouvelle tendance divengono codici normativamente forti.

Varisco, Schema luminoso variabile, 1963

Varisco, Schema luminoso variabile, 1963

Mentre Manzoni, che scompare prematuramente nel 1963, accelerando le proprie pratiche in senso duchampianamente anartistico, reinterpreta la lezione di Fontana in senso totalmente mentalistico, e già pienamente concettuale, nella minimalizzazione sensoriale dell’immagine, nei cortocircuiti significativi, negli straniamenti cosa-nome, nelle tautologie… secondo un corso che nell’immediato trova poche rispondenze (penso agli esordi analiticamente riduttivistici di Dadamaino, o Giulio Paolini, o Luciano Fabro, al corso ancora sotterraneo di dissolvimento poetico dei codici di Vincenzo Agnetti, trascorrente tra pratiche di scrittura e di visione), è nel senso di una visività netta e impatetica, eutrofizzata da fascinazioni tecniche e scientistiche fino alla soglia del ribaltamento paradossale, che primariamente si riformula questo avanguardismo possibile. Luce, movimento, percezione, come momenti fisiologicamente oggettivi del vedere e far vedere; ma più ancora, congruenza teorica e ideologica della sistematica del processo, antisoggettiva e antiretorica proprio perché indifferentemente estensibile e replicabile. Nello stesso tempo, però, in questo azzeramento anonimo dell’espressivo, padronanza assoluta del corso formativo, scevro di alee e varianti che non siano concettualmente implicite nella modalità progettuale e tecnica dell’operazione. Così, reagendo in modo polare, quasi punto per punto, al “pletorismo magmatico simbolico” (Villa) del modello della pittura d’azione ciò che si indica come arte programmata in realtà coglie un segno di discontinuità ben più fondativo: un’arte che rifletta su se stessa, sul suo stesso farsi, all’interno degli standard più nitidamente e sistematicamente certificati di conoscenza del mondo attraverso l’apparire, coglie, al di là degli aspetti contingentemente polemici e di scandalo mondano (pur ben presenti nel compiuto sottrarsi ai meccanismi del gusto, dell’aspettativa estetica ordinaria), il cuore della pensabilità stessa del reale. E’, kleinianamente, un realismo, ma attuato in modo organicamente riflessivo, dimostrabile, dotato di quell’interna congruenza razionale che l’art concret aveva da decenni vagheggiato. Non è after philosophy, ma il suo esatto opposto, come anni dopo, fuori dalle dirette occasioni polemiche – si ripensi alla disputa, non oziosa, tra Morellet e LeWitt – ben si osserverà. La filosofia stessa del conoscere, tra sensi e ragione, e il progetto totalizzante della scienza e dei suoi apparati tecnologici, ne sono soggetto e oggetto. In questa apologetica scientistica si annida, tuttavia, un elemento sottile di dissoluzione; quello, forse, che, congiunto alla lucidità analitica, ha salvaguardato le figure migliori di quest’area d’esperienza dai bamboleggiamenti neoaccademici, dalle trite retorizzazioni del percettivismo e, soprattutto, da un ottimismo tecnocratico rivelatosi insensato. La cristallizzazione del teorico e della processualità è stata, per iterazioni e iperdeterminazioni, contaminata di venature ludiche, dotate di radicale spirito autocritico, e spinta fino al limite estremo della dissoluzione. Penso, ad esempio, alle Bariestesie e alle Topoestesie di Colombo, a quell’ingegneria dello spazio e della visione così sotterraneamente perversa da corrodere all’interno la mitologia del metodo, della progettualità forte, proprio attuandone con letterale tenacia le normative.

Calzolari, Senza titolo, 1981

Calzolari, Senza titolo, 1981

Come l’indifferente sharp focus della vicenda pop, montante in modo speculare, anche qui lo scarto si crea tra l’ideologica dichiarazione d’oggettività, d’estraneità psicologica dall’immagine assunta o creata, e la constatazione concatenata di ambiguità scatenantisi ben più in profondo, nello spessore cangiante del senso e del significato: a confermare, in quest’altra concertata fantasmagoria del nulla, l’antica profezia di Sklovskij sul metodo, così autonomo e intransigente da andarsene un giorno per i fatti suoi. Non, allora, la fondazione di un utopisticamente definitivo stato di necessità, d’utilità con ricadute mondane orientabili, è in gioco con le opzioni dell’arte programmata, nonostante le molte letture ideologicamente meccaniche che negli anni sessanta se ne danno. E’, semmai, deliberatamente o per deduzione irrevocabile, la dimostrazione ferrea di perdita della verità, di dissolvimento di quell’alterità codificata in oggetto, sulla quale si possa edificare conoscenza certa, comunicabile, del mondo. Nella loro perfezione algida, così abbigliata di logos, queste opere paiono, a quasi trent’anni di distanza, splendide architetture d’una lingua come tutte insensata, echeggiante il beckettiano “bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono”.

Da un ceppo non dissimile di orientamenti problematici maturano, in un ambito contiguo a quello della sistematica programmata, percorsi che ugualmente scaturiscono da una riappropriazione energetistica, di forte tensione mentale, della costruttività, d’un pensiero autoriflessivo e progettante che si conosca negli atti concreti della pratica e nello scambio emotivamente neutro ma criticamente lucido con le materie, con le quantità fisiche dell’esperienza. Assunzione di materiali inerti e opachi, dunque, non burrianamente riscattabili in qualità estetiche, e insieme presidio analitico dei processi formativi, poggianti su nozioni indifferentemente ordinarie di corporeità e spazialità, e su un progetto di evidenza dell’immagine in cui la padronanza stilistica dell’antico costruttivismo si ridia in una anesteticità razionalmente scrutinata e diretta. Non a caso, fondando nel 1962 il Gruppo Uno, emulo a Roma del milanese Gruppo T e del padovano Gruppo N, Giuseppe Uncini e Nicola Carrino – che ne sono gli animatori insieme a Gastone Biggi, Nato Frascà, Achille Pace e Pasquale Santoro – non fanno che decantare quanto già lo stesso Uncini, con lo straordinario compagno di strada Francesco Lo Savio, dalla vita breve come Manzoni, aveva postulato nei tardi anni cinquanta in rapporto con artisti di ben diversa vocazione, Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano. L’esperimento della monocromia, intesa non come azzeramento di whiteness e anzi come cieca e opaca stratificazione, che porterà Schifano al suo viaggio nevrotico nelle schegge figurate dei fantasmi del mondo e che vede già Jannis Kounellis impegnato nella divaricazione tra evidenza e significazione delle forme, è per Uncini, autore dei pionieristici Cementi armati, il punto d’abbrivo d’un ragionamento sulla geometria come interno punto di risonanza pensabile della forma/spazio, incerta invece di sé e del proprio destino in quanto evento concreto. Su frequenze affini agisce Carrino, attratto dall’ambiguità indotta nello spazio fisico, d’esperienza, proprio dall’articolazione variabile di moduli strutturalmente forti e di chiarita presenza. Diversi negli esiti, ma non nel fondarsi sul controllo della forma architettante, sono Gianfranco Pardi, la cui partita spaziale si svolge con più espliciti – e venati d’ironia dolce ­– richiami alle avanguardie russe, e Mauro Staccioli, inventore d’eroiche partite di straniamento dell’orizzonte, dell’ordine normale del luogo naturale e architettonico. L’accoglimento indifferente dei comportamenti, delle interne fisiologie dei materiali “bassi” – il cemento come il metallo o il legno – ­in una sorta di brutalismo razionalizzato che tenta spaziosità ai limiti della neometafisica, è l’elemento che sotterraneamente congiunge queste pratiche a quelle, contemporaneamente precisantisi, da cui scaturirà l’area d’esperienza poi codificata nelle cronache come arte povera. Il materiale, l’oggetto, la parola, la forma, l’icona; le loro implicite o esplicite relazioni designative, o significative, i reciproci scambi e intensificazioni. Ancora, scienza tecnica tecnologia, pensiero codice linguaggio; e retoriche, letterature; e una certezza continuamente sottratta del corpo/tempo, il bisogno di mito, di remitizzazioni razionali; e l’avvertimento, ancora, di sé, nello stacco tra l’acribia fantasticante del proprio pensiero e la distanza tentata dei propri gesti, dei brani eccitati, esorcizzati, della propria totale sensorialità.

Zorio, Per purificare le parole, 1983

Zorio, Per purificare le parole, 1983

Il côté vitalistico, la compromissione della “nuova soggettività” – così la indica Piero Gilardi – con le figure del mondo e del pensiero, è l’elemento ulteriore che, lungamente decantato rispetto alle automitologie romantiche della pittura d’azione, rientra in gioco con queste pratiche: pratiche – va subito specificato –assolutamente disomogenee sul piano modale, nel loro ritrarsi da statuti stilistici ed estetici preventivi, e agenti invece puntualmente sul nodo cruciale del valore dell’arte, tra capacità autosignificative e disciplinari e relatività mondane. Già Paolini e, per altri versi, Agnetti, Fabro e Franco Vaccari, avevano indicato la possibilità di scegliere la teoretica stessa dell’arte, le sue stesse definizioni di campo, come materiale problematico su cui agire forzando concettualmente i codici. Parallelamente, figure come Pino Pascali, Eliseo Mattiacci, Michelangelo Pistoletto e Kounellis, avevano assunto il patrimonio delle iconografie esplose e dei comportamenti materiali come estremo motif d’un vedere/far vedere dilatato, in cui continuo fosse il cortocircuito fra atti operativi e periclitante oggettivazione semantica della forma, a sua volta convocante ed emanante strati diversi di determinazione comunicativa e iperdeterminazione emotiva, fino alle soglie ambigue d’una muta possibilità simbolica. Nell’un caso e nell’altro, è il valore stesso d’artisticità possibile, e la nozione implicita di lavoro e metodo, di certificazione concettuale e di discontinuità/continuità rispetto all’ordinario d’esistenza, la “cosa diversa” su cui, manzonianamente, operare. E le forme, anziché tendere al massimo d’omologia, serrate in clausole metodologiche ineludibili d’un dover essere, com’era per l’arte programmata, possono dispensarsi dal rispondere a una ragione allotria e crescere per picchi di specificazione individuale, come luoghi d’esperienza ogni volta unici, totali nel loro avvenire al mondo. E’, ancora, pensiero forte, perché l’opera matura in quanto processo di pensiero visualizzato – così titolava una delle mostre più esemplari di fine anni sessanta – in cui lo scrutinio ineludibile avviene sulle motivazioni, sulla singola e impreventiva catena delle scelte, degli atti, in sé energeticamente aperti, di conclamata arbitrarietà, fino all’esibizione spettacolare.

In questo ambito variegato, molteplici sono le classificazioni, le interne differenziazioni formulate dalla critica. Se artisti come Mario Merz e Giuseppe Penone scelgono di mettere in gioco complessi livelli antropologici, di primarietà della forma, in scambio fitto con l’idea naturale di crescita, di organizzazione plastica e spaziale, lo fanno a partire da un approccio simpatetico con i materiali, in cui energia attiva dei gesti ed energia emotiva trovino reciproche impreventive risonanze.

Altra è l’identità energetica, in potenza e in atto e in metafora, coinvolta da Giovanni Anselmo e Gilberto Zorio: è, nelle postulazioni elementari di spazio di Anselmo, d’opaca potenza, come nelle machinae sensoriali fantasticanti di Zorio, una misura concreta del tempo convocata nelle mutazioni profonde, e nelle metamorfosi espressive, dei materiali, che riverbera psicologicamente fino a perdersi, eccitandosi in pensiero visionario. Kounellis e Claudio Parmiggiani implicano deliberatamente spessori di codificazione colta di oggetti e forme, nel sedimentarsi complesso delle stereotipizzazioni mondane così come nell’innesco privatissimo di mitologie individuali, d’autobiografismo nevroticamente spettacolarizzato: dato, questo, esorcizzato del pari dalla levità settecentesca dell’analitica di Paolini, che opera sul punto di mediatezza assoluta, nello specchiamento della doublure, di spazi e figure, e dalla lucidità rigoristica di Fabro, dalla sua acribia astraente alle ragioni prime del modo, dell’avvenimento. Ancora, tutta fantasticante e umoralmente contaminata è la corporeità forte, letterariamente eccitata  come in Parmiggiani – delle pratiche di Pier Paolo Calzolari. All’opposto, del tutto fantasmatico è l’approccio di Alighiero Boetti, iterativo e dolcemente dissolutore di pure evidenze iconografiche, a tentare il punto in cui il consolidamento dei codici nominativi e visivi provoca la scomparsa irrevocabile del senso. Per Vaccari, infine, come per Isgrò, è l’ostentazione della autofondazione stessa dei codici, assediante le facoltà dell’immaginario soggettivo, a indicare l’area di una soggettività seconda, d’un inconscio agente per figure retoriche e factoids in cerca d’altre autenticità possibili, di disincantata latitanza.

E’, in tutti, la rivendicazione della singolarità irripetibile della propria opzione artistica, l’identificazione con la propria attitudine totalmente interrogativa, che non fa del vitalismo un propellente dell’attività intellettuale, ma che avoca a un livello profondo e unitario d’esperienza – il concetto stesso di esperienza vi è rifondato – la caduta della distinzione storica, della polarità già fertile, tra vita e arte.

E’, di fatto, il “saut dans le vide” di Klein, la combustione avanguardistica di Manzoni: che giunge, infine, non a declinare nuove ulteriori avanguardie, ma a riscattare la definitiva smobilitazione storica della pratica nell’indicazione di altre, radianti, artisticità possibili.