Savelli
Viaggio di Savelli, in Angelo Savelli, Museo Pecci, Prato, 17 giugno – 4 settembre 1995, Charta, Milano, 1995
Di una “allure espressionista” scrive Berto Morucchio nel 1954, a proposito del tempo primo, e già cospicuo, della vicenda di Angelo Savelli. L’indicazione è, ovviamente, generica, e per molti versi imperfetta, come sovente accade in quell’immediato dopoguerra: nel quale non solo i corsi del dibattito artistico si dipanano fitti e fervidamente irregolari (sarà interessante, un giorno, verificare la consistenza semantica, nello scrivere di quei giorni, di termini come espressionismo, futurismo, astrattismo, surrealismo: e, nonostante la lezione di Venturi, anche impressionismo), ma lo stesso moto ondivago delle singole posizioni, e delle aggregazioni, fa sì che nessuna nuova attitudine critica e strategica si offra con elementi di definitiva stabilità. Tuttavia, pur con le dovute cautele, essa può rappresentare un buon punto di partenza per analizzare il corso ormai lunghissimo dell’opera di Savelli, nomade e impreventivo sempre, riconducibile solo per vaghi accenni climatici al wave on wave della cultura d’avanguardia italiana prima, internazionale poi.

Savelli, Senza titolo, 1962
Quando, nel corso degli anni Quaranta, Savelli si afferma come figura cospicua della Junge Generation romana, avendo per referente critico la più avvertita intellettualità del tempo, da Guido Piovene a Enrico Prampolini, da Toti Scialoja a Palma Bucarelli, da Virgilio Guzzi al mai sufficientemente rivalutato Marcello Venturoli, già denota, al di là delle numerose pertinenze ambientali ai toni del dibattito, una sorta di estraneità fondamentale. Il primo lustro del decennio è occupato da dipinti, come la Natura morta del 1941 della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che ne fanno un prosecutore non banale dell’espressivismo concitato, stilisticamente irritato e cromaticamente clangoroso, che ha per padri nobili e già autorevoli Mario Mafai e la precocemente carismatica Scuola Romana, da un canto, e per altro verso il volontarismo vangoghiano dei milanesi di Corrente, Birolli in testa: con vaghi, e a ben vedere ininfluenti, accenni tonali.
“Amo i colori vivi, sonori e carnosi, cupi e profondi”, scrive Savelli di quella sua stagione, in cerca di “fantasmi plastici”. E Scialoja: “Il segno di Savelli… incide e lacera il foglio con una drammatica violenza e una rapidità sgraziata quasi per volontà morale…”. Non si tratta infatti, per lui, che di una generica scelta di campo, in cui più ha luogo la tensione all’engagement, alla assunzione d’un partito eticamente determinato, che l’adesione a una condizione stilistica ed espressiva pienamente condivisa. Topiche, e cronisticamente eloquenti, sono le presenze di Savelli nel circuito delle gallerie che fanno notizia per la cultura nuova: nel 1942 è alla Spiga, a Milano, e da Cairola, Genova; nel 1945 espone per l’Art Club a Roma, l’anno dopo è da Cronache, a Bologna, nel cruciale 1947 allinea il Naviglio a Milano, e il Secolo e l’Obelisco a Roma…
Sono state ormai ampiamente e partitamente ricostruite le vicende che hanno portato, nell’Italia del 1947, alla decisiva ripresa d’interesse per l’astrazione, dopo le asistematiche premesse degli anni Trenta. La presenza, in Art Club, di figure di lungo corso storico come Prampolini e Severini, oltre che di giovani come Dorazio e Turcato, fa sì che la declinazione romana della nuova astrazione non solo possa contare su un cosmopolitismo entusiasta, di autorevole poggiatura francese soprattutto, ma anche su un’attenzione non banale per l’allora non scontato precedente futurista. Savelli alterna, in questo tempo, brusche schematizzazioni figurali a più meditate tarsie formali, in cui l’elemento curvilineo – da tempo sono noti i rimuginii dei giovani romani su precedenti come Balla e Magnelli – sia a un tempo modalità architettante e risonanza affettiva. Prova, l’artista, una sorta di disagio persistente. La sua indifferenza radicale al teoricismo, e insieme l’avvertimento sempre più lucido d’una sua soggettivissima vocazione a un’espressività svolta tutta sulle corde del lirico, d’una stupefatta auscultazione poetica dell’immagine, non gli consente di partecipare propositivamente al clima culturalmente barricadiero del tempo, alla strategia per fazioni comportante petizioni di principio e opere declaratorie, piuttosto che severe e rigorose ricerche.

Savelli, Paradise V, 1969
Il viaggio a Parigi, allora un obbligo del giovane d’avanguardia, lo porta nel 1948 non alla ricerca di conferme a una posizione preconfetta, e piuttosto alla consapevolezza che il vero provincialismo italiano non risiede tanto nel grado d’avanzamento stilistico della produzione pittorica, pur apprezzabile, quanto nelle forzose contestualizzazioni ideologiche cui essa, bon gré mal gré, viene comunque sottoposta. La sua sensazione di estraneità, in altri termini, si chiarisce: è estraneità primariamente contestuale, nei confronti d’un milieu che contrappone, con storicamente giustificabile ma comunque riduttivissima meccanicità, formalismo e presunzioni di realismo, senza avvedersi che è lo stesso fondamento della polemica a portare il vizio originario dell’eteronomia. Il soggiorno parigino consente a Savelli di assumere una definitivamente diversa cognizione della formatività. I flussi emotivi dei quali s’abitua all’auscultazione profonda, umilmente concentrata e con spoglia disponibilità, s’identificano nella movenza primaria della linea, nella tramatura di ritmi e scansioni forti, in cui la matrice kandinskijana si rielabora su una tutta introversa rilettura della dynamis futurista e della trasparenza matissiana. Al rientro in Italia, per un lungo periodo opererà su questa nuova spaziosità ansiosa, inquieta, ancora espressivamente assertiva, in cui la saturazione strutturale dell’immagine per apposizioni forti s’alterna a costrutti più pausati e meditativi.
Alle tre biennali veneziane cruciali per la polemica sul rinnovamento dell’arte italiana, quelle della massima tensione tra astrazione, realismo, astratto-concretismo, tra il 1950 e il 1954, Savelli è presente con opere che, pur respirando dell’atmofera culturale più avanzata, se ne distaccano profondamente, per vocazioni e modalità. Ciò che s’impone all’evidenza, oltre al vitalismo con curiosità organiche che sempre più fluidifica le sue trame lineari, è la riflessione profonda di Savelli sull’economia cromatica dell’immagine, che tende a polarizzarsi nella scansione binaria nero/bianco in supporto d’una nettamente dichiarata dominante. Egli tende a pensare l’immagine, sin d’allora, come caratterizzata da un unico tono cromatico, che determini di sé il complesso della composizione: sino a farsi, come accadrà anni dopo, colore/forma in sé.
Gli anni Cinquanta sono anche quelli della massima intensità di rapporti tra milieu romano e arte statunitense, segnati non solo da fitti scambi espositivi, ma da vere e proprie “migrazioni” da una sponda all’altra dell’Atlantico: si pensi ad Afro, a Twombly, a Scarpitta… Savelli decide di trasferirsi a New York nel 1954, chiudendo una vicenda italiana di cui si è straordinariamente nutrito, ma di cui ha anche misurato i limiti oggettivi. Il suo spazialismo radicale, il suo intendimento dell’immagine come sospensione meditativa, dell’opera come luogo interrogativo dell’infinito (l’infinito non l’eterno, o il perfetto, secondo la suggestione di Fontana), cerca un’altra e definitiva area di relazione e di riflessione. “I miei occhi hanno come una sottilissima punta; e vogliono penetrare, penetrare dentro. Vedere, sentire, amare”, si legge di Savelli in Pittori che scrivono, edito da Leonardo Sinisgalli nel 1954. Savelli frequenta, ora, un altro Artists’ Club, nella Downtown ove incrocia le forze migliori dell’Action-Painting. Il suo lavoro s’intride di quel clima, delle temperature emotive di quelle pitture, in una sorta di momentaneo soprassalto energetico. Verrebbe, con gioco di parole, da dire che Savelli passi dall’Age d’Or romana alla “Age of Anxiety” newyorkese, di audeniana memoria. Le spaziosità collidenti e crude, le coloriture nuovamente rialzate delle pitture esposte nel 1958 da Leo Castelli, ne farebbero un esponente qualitativo del versante meno drammaticamente gestuale della pittura d’azione, il più intriso di umori colti, quello che fa stringere a Savelli salde amicizie con Robert Motherwell, Theodoros Stamos, Jack Tworkow.
Egli tuttavia avverte che questa fase del suo lavoro non è che una sorta di assestamento, e che le nuove assertività formali, le estroversioni brucianti di queste pitture non rappresentano la sua via autentica. D’altronde, altre cose stanno nascendo nel suo studio. La sperimentazione di tecniche per lui nuove, dal collage – con inserzioni materiche, anche, in una sorta di tentazione oggettuale – alla serigrafia, e soprattutto lo studio approfondito di un altro versante della generazione grande americana, da Ad Reinhardt a Barnett Newman, per molti versi i più concettualmente vicini alla sua rimuginante formazione europea (né va dimenticato il peso, ideologico e poetico, del Mondrian statunitense, così come la rinascente attenzione critica e museale per vicende ormai storiche come il suprematismo), gli indicano che la sua via maestra è un’altra. Nascono le prime grafiche, i primi quadri bianchi, che accompagnano Savelli per tutto il secondo lustro del decennio. Sulla dominante cromatica chiara si basa la bellissima serie di serigrafie realizzate nel 1955-56 all’Artist Workshop di Chelsea: sino alla compiuta whiteness di White 5, e delle quattro variazioni di Cavalcade Stars. In pittura, sono quadri come Fire dance, 1957, a mediare una componente di matericità corposa e irritata, espressivamente eccitata, con la monocromia, e a schiudere una serie di opere in cui olio, sabbia, sughero, paiono esorcizzare la demateriazione che pur sarebbe implicita, per altri, in queste astrazioni espressive: che decidono di mantenere una forte componente di realtà – di una realtà propria dell’espressivo che echeggia la non banale lezione cubista su cui l’artista riflette – in questa operazione di prevalente piglio mentalistico: e saranno poi le corde, e la reificazione ambientale della linea nell’installazione Wall to Wall, 1975-76.

Savelli, Of the surface, 1970
Savelli comprende che il luogo della pittura non può che essere un clima tutto mentale fatto visione, per via di distillazioni esclusivamente qualitative; una trasparenza che sia in sé sublime, odorosa di metafisico, e insieme ancora impregnata di un lieve minimalismo sensibile; una dickinsoniana “condizione scalza” che non proclami verità pittoriche, ma con serena severità le cerchi senza sosta. E’ in questa raggiunta condizione mentale, prima che espressiva, che si inizia il lungo viaggio di Savelli nella monocromia. Una monocromia, beninteso, che ha poco a che spartire con gli azzeramenti retinici e fabrili che si diffondono nei primi anni Sessanta, e molto con le rare esperienze in cerca della sacralità ultima dell’immagine, sia pure per diversa modalità: Reinhardt e Newman, come Fontana e Klein. Nascono, nei primi anni Sessanta, le serie straordinarie di variazioni litografiche a rilievo bianco su bianco, che gli valgono una non banale fama tecnica, coronata dal premio alla Biennale veneziana del 1964. Se ne legge, va detto, soprattutto la novità, e la pertinenza climatica in epoca di “grado zero”: rari, invece, sono a quel tempo gli intendimenti della sua ben più cospicua determinazione alla metafisica dello spazio.
Savelli intensifica la propria esplorazione. Sceglie di rinunciare, ora, alla convenzione confidente dello spazio pittorico, e affrontare direttamente l’esperienza fisiologica dell’ambiente, del luogo, e del suo trascendimento possibile.
Nascono, in sequenza problematicamente serrata, le due versioni di Paradise, vere e proprie celle di meditazione, di vaga eco neoplastica ma soprattutto luoghi amniotici della pura introversione intellettuale e affettiva, e Illumine One, 1972, in cui la straniata condizione topica si fa rarefatta e sospesa esperienza di luce. Sono, questi luoghi, m’è altrove accaduto di scrivere, veri “luoghi di dentro”, come le cellette dell’Angelico a San Marco, come la stuoia di Chu-ta monaco cinese.
Scrive Louis I. Kahn a proposito di Illumine One: “Where the unmeasurable meets the measurable…The work of Savelli moves from silence to light / Stopping at light and asking of it the barest of presence / In it lies the essence of poetry, the essence of the poet…”. Apparizioni, cerca ora Savelli, non apparenze.
Nascono, nei primi anni Settanta, alcune delle sequenze operative più importanti di Savelli. Rope Series, con quell’oggettivarsi del segno in contraddittoria e fervida ambiguità tra pittorico e sculturale, in una sorta di “luogo medio” tra dramma generativo della linea e trascolorare della confidenza geometrica: sino al limite strepitoso di Dante’s Inferno, 1964-69, ossessione lievemente gelida amata da Newman, cui si deve il titolo. E le periclitanti geometrie incise su stesure lattee di indifferente pittura, aggallanti come per irritazione visiva dalla parete; le shapes di plexiglass fra trasparenza e bianco; e soprattutto Figure Point, sequenza di lavori in cui la stessa cognizione di misura, dimensione, superficie è in gioco, in una sorta di definitiva sottrazione di evidenza. E’ per Figure Point che Savelli scrive: “… Poi quando nulla d’esse fu dato di vedere / quella stessa energia prese a dividermi il corpo / finché ogni sua parte / si fece minima e minima e ancora più minima / Tanto da raggiungere la sua stessa invisibilità / Nondimeno, poiché ormai ero / né punto, né figura / che occupasse lo spazio / sentii che lo spazio ero diventato, io / io stesso ero diventato spazio…”
Una sorta di adimensionalità definitiva, tenta ormai Savelli, facendosi serenamente forte di una indifferenza tecnica alla specificità stessa della pittura, della scultura, della pratica artistica, della quale egli utilizza con soave disinteresse solo ciò che gli consenta di far avvenire le sue apparizioni. L’arte, in sé, non è mai argomento delle sue riflessioni, che trascendono deliberatamente e vertiginosamente ogni ragione di limitatezza disciplinare.
Gli anni Ottanta sono una stagione di definitiva libertà poetica di Savelli. Ambienti, tele sagomate, grafiche, tutto ormai concorre al suo viaggio silenzioso, che sempre più si nutre di dynamis mentale, e che si schiude a ogni frequenza del mistico, del magico, pur senza mai farsene vassallo, amplificando infinitamente la propria sorgiva condizione sentimentale.
Se in Paradise II era la piramide dialogante con la figura del triangolo a innescare il motivo metafisico (ed echi sapienziali sono continuamente presenti nell’operare di Savelli, sia che si richiami al Dante della Commedia sia che titoli Empedocles una sua scultura, 1973), in seguito è il motivo dell’albero a incaricarsi di trascendere a un avvertimento cosmico dell’idea naturale: come in The tree with 84 tree trunks, 1978, ripresa più volte nel corso degli anni Ottanta e affiancata nel 1990 dall’installazione alla Casa del Mantegna di Mantova, sul cui motivo Savelli lavora ancor oggi. Del 1987 è poi Inficosm, in cui è il motivo magico-mistico del quadrato a informare di sé un nowhere di sottile e respirante sospensione. Come, in altri anni, più d’una lettura “di pelle” aveva riportato il lavoro di Savelli a codici di lettura tipici del dibattito artistico, dicendo di astrazione geometrica a proposito delle stampe bianco su bianco oppure facendo riferimento a Ryman e alla Monochrome Malerei a proposito delle stesure indifferenti e delle tele libere degli anni Settanta, anche nel caso di queste operazioni ambientali la tentazione critica di apparentamento con le millanta declinazioni dell’ambientalismo è stata forte e persistente. Si è trattato e si tratta, in ogni caso, di sostanziali fraintendimenti. Ovvio è che Savelli, visto che, come scrisse Kahn, “must use words” come ogni poeta, ragioni su codici linguistici del proprio tempo, in agguerrita distillazione di modi. Ma ciò non è che la premessa. Il senso cruciale del suo percorso, invece, è la strepitosa e incontrattabile ricerca d’una poeticità sorgiva, d’una sapienza originaria e inattuale della natura, dello spazio, del tempo. Che si dà, lì, per chi abbia occhi sufficientemente spogli, e animo incorrotto.
Nota
Sulla stagione giovanile di Savelli rare sono le ricostruzioni: cfr. almeno G. Appella – F. D’Amico-M . Quesada, Roma 1934, cat. Galleria Civica, Modena, 1986; M. Fagiolo, Scuola Romana. Artisti tra le due guerre, cat. Palazzo Reale, Milano, 1988; F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, Politi, Milano 1988. Un’utile documentazione monografica è B. Morucchio, Savelli, De Luca, Roma 1954. Sul clima degli anni Quaranta cfr. G. Joppolo – A. Malochet – G. Di Milia, Forma 1. 1947-1987, cat. Museo Civico, Gibellina, 1986; G. Celant – A. Costantini, Roma-New York 1948-1964, cat. Rayburn Foundation, New York, 1993; D. Ashton, The New York School. A Cultural Reckoning, Penguin Books, Harmondsworth 1979. Pubblicazioni monografiche fondamentali sono L.I. Kahn, Silence and Light, cat. Everson Museum, Syracuse, New York, 1972; C. Ratcliff, Angelo Savelli, cat. Gimpel-Hanover e André Emmerich, Zurich, 1981; G. Appella, Savelli. Opera grafica 1932-1981, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1981; N. Rifkin, Angelo Savelli, cat. Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 1984; L. Sansone – F. Gualdoni, Angelo Savelli. L’etereo, cat. Casa del Mantegna, Mantova, 1990; P. Dragone, Savelli, cat. Niccoli, Parma, 1991 e Kodama Gallery, Tokyo, 1992. La citazione di Scialoja è da Savelli, in “Mercurio”, 10, Roma, 1945.