Uncini
Uncini. Sculture, catalogo, gallerie Tega e Cavellini&Cilena, Milano, ottobre-novembre 1991
E’ noto, ormai, da riletture analisi documentazioni, quanto il clima fervido della situazione romana dei tardi Cinquanta, in cui Giuseppe Uncini si trovò ad operare fianco a fianco con Schifano, Festa, Angeli, Lo Savio, in seno alla prima cospicua eccezione all’informale retorizzato ed enfatico prevalente, debba al magistero doppio di Mannucci e Burri: figure carismatiche, oltreché problematicamente genetiche.
L’intendimento empatico delle materie, la logica formativa crescente da uno scrutinio struttivo capace di farsi fisiologia stessa del gesto, la riaffermazione della padronanza concettuale del fare nonostante l’intonazione impreventiva del processo, la docta ignorantia d’un rapporto con gli spessori della storia dell’arte a cominciare da una ripresa disincantata di “disegno, commensuratio et colorare” che è attenzione tutta avanguardistica, ancora, al punto d’identificazione e trascorrimento reciproco d’architettura pittura scultura in modi e con aggressività tutte nuove, tipiche d’una stagione in cui le solidarietà generazionali hanno un peso non solo strategico: è quell’indirizzo, raffermato dal Colla dei rilievi, dalle “impronte” arse e prestigiose di Scialoja, oltreché dal lavoro di compagni di via più solitari – i “muri” di Novelli, le lamiere di Lorenzetti, primariamente – a far da crogiolo ai nuovi brutali, folgoranti riduttivismi plastici.

Uncini, Cementarmato, 1959
C’è dell’altro, tuttavia, nella vocazione specifica di Uncini: com’è ovvio, d’altronde, per un artista che non viva di meri debiti climatici, e semmai di climi e opzioni sia artefice. Ciò appare ben chiaro in questa mostra, che programmaticamente si concentra su due momenti cruciali del corso lungo di Uncini, cronologicamente lontani ma retti da un’unica tensione ideativa ed espressiva. Sono, in tutto e per tutto, due serie, i Cementarmati con l’appendice dei Ferrocementi, tra fine Cinquanta e primi Sessanta, e i recentissimi Spazi di ferro. Tra le due stanno altre serie, non meno ricche e cospicue, a loro volta esemplari dell’operare per iterazione e varianti, per regola e deroghe, con accanimento intellettuale e insieme dolcezza affettiva, con un rigore che sa d’amore monastico non di affettazione ideologica, attorno a un postulato metodologico e problematico, tipico di Uncini. Tien conto rimemorare almeno le Ombre e le Dimore, per il valore emblematico dei titoli scelti, per l’orientamento deviante rispetto alle mere proposizioni metodologiche, in odore di minimalismo e oggettivismo inespressivo in voga nei decenni Sessanta e Settanta, ancorato, è il caso di sottolinearlo, a una ineludibile idea europea di trasparenza, leggerezza, complessità: e, come avrebbe asseverato Melotti, fantasia.
Certo, proprio i materiali di questa mostra rendono ben evidente la lucidità dell’approccio di Uncini alla valenza ambigua della scultura come oggetto proprio, fisicamente identificato e ripensato, e come forma altra, agente in modo assertivo e metamorfizzante lo spazio in modi complessi. Sottolineata in lui, come in pochi altri (penso alla breve folgorante stagione della prima maturità di Scarpitta, più che a certe estroverse vicende new dada), dalla riassunzione dello schema del bassorilievo, della plastica architettonica, che è insieme asserzione della storicità d’un fare che rimonta al Medioevo, al momento sorgivo del volgare moderno, e insieme all’apertura radiante delle avanguardie d’inizio secolo, non ancora esplorata nelle conseguenze ultime.
Sono, i Cementarmati primariamente oggetti plastici, che la natura ispida ed estranea dei materiali, inestetici e adespoti (né va dimenticata l’euforia, in quegli anni ancora ben avvertibile, che accompagnava la novità tecnica e tecnologica del cemento armato, con aedi e poeti come Nervi e Morandi, ma anche con ottimismi e retoriche progressive ora non immaginabili, che Uncini da subito esorcizza), impone di avvertire in una sorta di concretezza opaca, pesi e spessori, asperità e imperfezioni. Sono, dunque, eventi in cui all’elemento quantitativo si consente non solo libero corso, ma anche una responsabilità inusitata, che non gode neppure del potere di traslato, e di riestetizzazione, che erano stati tipici dei González, degli Smith. Sono, insieme, originari, nel senso che la loro primarietà non nasce da riduttivismi distillati, da decantazione sottile, bensì da una sorta di “grado uno” – in epoche d’azzeramenti e protominimalizzazioni come quelle, la differenza non è solo d’epidermide – che ha per scopo l’identificazione, la consapevolezza del fare, ma in atto, in uno stato di effettiva azione e contaminazione: “avec les mains sales” insomma, non per asettica simulazione teorica.

Uncini, Cementarmato, 1960
Insieme, tuttavia, questi luoghi architettonici indifferenti, vere e proprie bausteine, e monemi, dell’azione concreta, queste elementari concrezioni organizzate, sono forma formata, responsabile, eticamente avvertita: sono opere dell’arte, in tutto e per tutto, ad alta vocazione di senso, figlie di quel tutto italiano, albertiano e pierfrancescano, pensiero strutturante, chiaro e geometrico, che non è modalità ma schema stesso del mondo, e d’una sua idea probabile. Sono, insomma, sculture, che avvertono una luce, che riscattano il dramma del corpo in un métron, in un canto, in un tempo sospeso. Nella serie dei Ferrocementi,
infatti, è proprio una filigrana meno direttamente sensibilistica, e un rapporto differenziale di schema pittorico tra i materiali, frontale, pur senza rinunciare alla consistente oggettività, a prevalere sulla organicità introversa delle strutture precedenti: a dire, in via definitiva, che la partita di Uncini è di attenersi alla soglia imprescindibile d’alterità e specificità dell’operare artistico, al sicuro da tentazioni vitalistiche e di fenomenologia ambientale come quelle che tra Oldenburg e De Maria, Fluxus e Morris, Beuys e “This is Tomorrow”, stanno variamente maturando . Tutto ciò, nella stagione attuale di maturità, si ritrova pienamente, con la rilassatezza felice di una pratica che non necessita più di rinforzi polemici, con la consapevolezza di un raggiungimento non più in discussione: come la prosecuzione naturale, insomma, di quelle antiche scommesse, che la tenacia dolce ma inflessibile, la severità sorridente di Uncini, ha condotto fino all’odierna esperienza complessa, per molti versi capace di dipanare tutte insieme le molte trame problematiche dischiuse negli anni.
Elementare, originario era quel fare, e tale è rimasto, con una consapevolezza di lancinante lucidità. Ma da alfabetico, da esploratore di minimi snodi, esso si è fatto pianamente costruttivo, responsabile di un’idea tutta di spazio, e architettura della forma. Il ferro è struttura propria, ortodossa alle leggi statiche, e a un tempo grafia, tentazione demateriante, intensificazione articolata d’una luce e d’uno spazio che respirano un’astrazione silenziosa, ferma, alta, che vorrebbe essere tutta di mente. I piani vi si intersecano apponendo altri gangli statici, tensioni disorientate che l’increspatura lieve della superficie, come di cotto rinascimentale, tempera di luce fisica, e insieme impasta d’ombra, in una sorta di struggimento insieme metafisico, straniato. Lontana è la mitologia dei cast iron buildings, vicini sono il pensiero terso di Laurana, e l’ironia disperata di De Chirico.
Lo spazio, il luogo di queste architetture ulteriori, perde la proporzione antropomorfa e si fa estensione pura, atmosfera lucida e trasognata. Inestetica ancora, perché Uncini non crede nel potere di seduzione di forma e materia. Chiede alla forma, e alla dimora che da essa avviene, una captazione che rigetta il valore ordinario d’esperienza, e si fa avventura muta d’intelletto e affetti, cadenza poetica d’una geometria che, pudica e nobile, sa farsi sentimento. Chiede alla materia di dirsi, calvinisticamente, come funzione purificata del far essere, nuda di carattere, orgogliosa della sua nudità non suadente. Per questo gli Spazi di ferro ci dicono, oggi, d’un corso compiutamente esitato. Non figli sono degli antichi Cementarmati, né prosecuzioni prive di necessità. Ciò che li fa congeniti è proprio lo statuto incoercibile di necessità che li abita, e il nucleo di intensità trasparente che travalica, irradiante e fervidamente ambiguo, la loro corporeità ferma.