Paesaggio di paesaggi. Momenti di una geografia manuale, catalogo, Salone degli Specchi del Teatro Comunale, Santa Maria di Capua Vetere, 4 – 30 aprile 1980

“Tra tutti i piaceri che i differenti talenti della pittura procurano a quelli che li esercitano, quello di fare del Paesaggio mi sembra il più sensibile e il più comodo; perché nella grande varietà di cui è suscettibile, il Pittore ha maggiori occasioni che in tutti gli altri generi, di contentarsi nella scelta degli oggetti; … così la pittura, che è una specie di creazione, la è ancor più nei confronti del Paesaggio” (Roger de Piles, Cours de Peinture, 1708).

Dopo anni di lotta dichiarata contro la pit­tura, contro il colore, contro il poetico, in cui si è esercitata con estrema aggressività volontà rivoluzionaria (e per molti versi salutare) di cambiare ogni carta in tavola, pro­porre una mostra centrata su uno dei “gene­ri” più antichi e praticati dell’arte – e non solo occidentale – potrebbe apparire fuor di luogo. Eppure mi sembra che proprio que­sto tema, nell’attuale contesto di ricerca, possa costituire (fatte salve tutte le debite ed evi­denti sfumature) un catalizzatore in grado di far trasparire con sufficiente chiarezza i mille rivoli, sotterranei e individuali, attraverso cui la pittura è riuscita ad emergere nuovamente come polo ineliminabile, anzi portante, del dibattito artistico degli anni Settanta-Ottanta.

Agnes Denes, Senza titolo, 1973

Agnes Denes, Senza titolo, 1973

E’ una riaffermazione non certo casuale o improvvisa, ma che ha avuto, nelle stagioni trascorse, uno dei suoi ambiti privilegiati di crescita nella pratica della “ripetizione differente” – così l’ha ben definita Barilli ri­prendendo Deleuze – intesa come obiezione di coscienza dell’arte rispetto all’esperienza mondana tout court, che l’ha volta invece a ridefinire le proprie modalità di esistenza nel rapporto esclusivo (svariante da accenti no­stalgici e sopravvivenze analitiche) con la sto­ria del proprio mondo di immagini e quindi di generi, dalla “figura eroica” al “paesaggio”, appunto: in un borgesiano ricamare nuove variazioni, nuovi costrutti, su trite note, sperimentate da una pratica lun­ghissima. Di generi e quindi di tecniche, che necessariamente hanno dovuto farsi più di­sinvolte e accorte, talvolta di sofisticato com­piacimento, secondo un atteggiamento che rivendicasse finalmente al “faire de ta main” la priorità rispetto a qualsiasi forma di prolungamento della mano stessa nel mezzo tecno­logico (contro, cioè, ogni terrorismo mediale), ma che nel contempo neppure rifiutasse con gretto pregiudizio i modi e le forme espres­sive che la sperimentazione recente ha definitivamente acquisito per l’operatore.

Da questa pratica è scaturita gran parte della ricerca di oggi, che al d’après più o meno esplicito ha sostituito, con estrema consape­volezza, una responsabilità creativa radiante, aperta, e allo stesso tempo più immediata, individuale e originata da un approccio tutto interiore, in grado di concretizzare in chiave assolutamente contemporanea quella che già il Milizia definiva come difficile fusione tra la “poesia d’espressione” e la “poesia di stile”. Che è, in pratica, la volontà di riequi­librare le ragioni della bellezza con quella dell’intelligenza, in un solido solco mediano tra gli estremismi dell’estetismo decorativo e tranquillizzante e le durezze del concettua­lismo sfrenato.

Come operano, dunque, i nostri nuovi “pae­santi”? Anzitutto, secondo una stratificazione com­plessa e intersezioni apparentemente spurie, non razionalizzabili, di dati provenienti dal magazzino biografico, memoriale, culturale ed emotivo, che si tramuta in un flusso ener­getico nuovo, erompente, di creatività non fil­trata attraverso alcun interposto teorico. E’ un flusso, tuttavia, che non si effonde in modo incontrollato, aleatorio, viscerale, ma che si organizza in nuovi ritmi, in nuove unità formali compiute, semmai esili ma non pre­carie, semmai divertite ma non scioccamente consumabili: perché ben precisa è, in tutti questi artisti, la nozione di un metodico (a modo suo, sempre individuale e inestensibi­le) lavoro di scavo mentale e fabrile ­dentro l’immagine, a dipanarne le implica­zioni espressive più riposte, ad aggrumarne le valenze poetiche attraverso uno scaltrito meccanismo di addensamenti ed espansioni degli elementi visivi (che è presente anche là dove sembra prevalere una disincantata sou­plesse), oltre ogni superficiale meccanismo di riconoscibilità, oltre ogni limite di “genere”. (Perché in realtà altri “generi”, ben più con­dizionanti, si sono nel frattempo affermati surrettiziamente, ed è da questi ultimi che questi artisti si guardano davvero).

C’è, insomma, alla base di queste opere, la consapevolezza di voler dar vita a tessuti ico­nici comunque compiuti, caricati di quel sot­tile plusvalore che li rende, per dirla all’an­tica, “dilettevoli a se stessi e agli altri”: che è l’unica accezione di qualità accettabile, oggi come ieri, in arte.

Tutto questo pare confermare quasi (con tutti gli aggiornamenti del caso) la meditazione di Arcangeli che l’opera, la pittura, “è un me­dium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira”.