Ricci
Su alcune immagini di Nino Ricci, in Presentazione. L’acqua domestica di Eugenio De Signoribus con dieci acquetinte di Nino Ricci, Cento Amici del Libro 2007, Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 18 marzo 2008
“L’acqua che in casa scorre” accomuna Eugenio De Signoribus e Nino Ricci in questa prova, con la quale i Cento Amici del Libro rinnovano, come ogni anno ormai da gran tempo, una delle tradizioni più alte e felicemente tenaci dell’arte italiana, il libro cum figuris.

Ricci, pagina per L'acqua domestica, particolare
Li accomuna perché l’estro visivo di Ricci si dipana da decenni in un’appartatezza cautelata, sottratta alle ecolalie e ai solo verbali “procomberò sol io” del dibattito novecentesco, ma radicata in un sentimento nitido dell’identità, così come la parola poetica di De Signoribus è impastata della terra e della luce dei suoi luoghi, della sua parlata antica: e oggi che “nessuno di noi ha più una lingua madre”, come vuole il Chuck Palahniuk di Invisible Monsters, 1999, ciò rappresenta un valore non da poco.
Li accomuna perché la certezza serena dell’identità, quel loro modo di essere “modernamente antichi e anticamente moderni” alla stregua dell’arte grande cinquecentesca ma nella consapevolezza piena dell’oggi, fa sì che il luogo d’incontro naturale, fisiologico verrebbe da dire, del loro operare sia la pagina: l’idea di pagina, prima ancora che la superficie sensuosa e confidente ove i loro segni, solidali, si depositano: l’idea di pagina, cioè il luogo del kanon più distillato e mentale che esista, lo spazio capiente e disposto a farsi forma ma già pensabile e pensato secondo l’“ordinem disciplinae” di Tommaso (che dice delle partes del libro ma pensa, inevitabilmente, alla pagina come dimora formata della parola), secondo una geometria interna che la storia tutta del libro ha reso geometria dell’animo prima che dell’occhio.
Dunque, in questi fogli il dirsi per verba di De Signoribus e quello di Ricci in signo non possono non incontrarsi solidali, perché congeneri, guizzi e pause d’una fluenza in prima istanza affettiva, ma nati per farsi, all’unisono, architettura della pagina: perché, sia consentita un’altra citazione, “nessuna arte è più vicina all’architettura della tipografia”, come insegnava Henri Focillon.

De Signoribus - Ricci, L'acqua domestica, 2007
Per Ricci, va specificato, non si tratta di uno dei modi possibili di pensarsi artista, ma del modo per eccellenza. Non solo perché egli, negli anni, ha incrociato la propria ricerca con uomini del libro come Vanni Scheiwiller, Giuseppe Appella, Piergiorgio Spallacci, eredi rari d’un mondo che sa che l’idea migliore e meno discontinua d’Italia potrebbe inscriversi tutta nella vicenda che da Manuzio e Griffo giunge al tempo moderno dei Mardersteig. Non solo perché ha praticato felici correspondances (anch’egli, come Odilon Redon, potrebbe dire: “Io non ho mai usato l’imperfetta parola ‘illustrazione’. Il termine giusto non è stato ancora coniato”, preferendole la suggestione baudelairiana) con autori come Bartolo Cattafi e Wislawa Szymborska, Cesare Brandi e Leonardo Sinisgalli. C’è altro, c’è di più.
Ricci nell’arte del libro è nato, accogliendo quella sorta di imprinting aristocratico e indelebile che l’allora autorevolissima Scuola del Libro urbinate conferiva ai propri giovani adepti. Che non era, beninteso, una mera sapienza artigianale, non un semplice fare, ma ben altro: respirava, ancora, il sapore della bottega rinascimentale, si sapeva e si pensava nel foglio, nel tempo lungo meticoloso e silente del rapporto ravvicinato con l’immagine che, lì, nasce, dalle tue mani per i tuoi occhi.
E’ stata, poi, l’Accademia romana, quella di maestri come Peppino Piccolo, Sante Monachesi, Toti Scialoja, Mario Rivosecchi, in una stagione in cui le strade del poeta e quelle del pittore conducevano negli stessi luoghi, generavano gli stessi pensieri: in Scialoja, addirittura, si facevano insieme scrittura e immagine, e in un irregolare geniale collega come Gastone Novelli, amico di poeti più che d’altri artisti, ispiravano riflessioni come La pagina come oggetto, 1956.
Da lì, da quel percorso formativo, in quegli anni Cinquanta in cui l’arte a stampa e l’arte della stampa non erano ancora state smantellate culturalmente dall’ideologia perversa e tecnocratica del moltiplicare che negava il ben più nobile savoir faire, Ricci ha maturato un suo tutto particolare percorso, eticamente morandiano e problematicamente kleiano: in entrambi i maestri di riferimento, Morandi e Klee, riconoscendo primariamente quel clima intellettuale di rapporto lucidamente analitico e sensualmente erotico con il foglio, di tempo concentrato del lavoro da camera, di attitudine al ricercare consapevole che il capolavoro non è grandezza, men che meno magniloquenza, e piuttosto lavorio delucidante un pensiero che, risonando nitido, si fa immagine perfettamente commisurata.
Ricci nasce, come Klee, che proprio in quei secondi anni Cinquanta la cultura italiana va infine scoprendo, “astratto con qualche ricordo”. Dunque non si appassiona alle retoriche del gesto largo e della materia grondante.
Egli cerca piuttosto di penetrare, nel seriarsi dolce delle esperienze grafiche, delle materie rese leggere e imponderabili come aliti della mente, magari fatte meno sensuose da una sorta di castità intellettuale cui attenersi pur senza rigore, il valore dell’autonomo formarsi dell’immagine allo spazio, quel suo insieme biologico e raziocinante trovare struttura e luogo: il punto, soprattutto, in cui la forma sia necessaria prima di farsi descrittiva, in cui si sappia prima di dirsi; il momento in cui il grumo genetico e la meraviglia dell’apparire, già certi di se stessi, non siano ancora afflitti dal trascolorare nelle epifanie mondane.
Molto riflette Ricci in quel tempo, e su molto. Esplora vie più esplicitamente poetiche, passi lirici più dichiarati e cantabili, dal Fautrier che le carte macera con agonismo cieco ma terso, al Licini capace della “mai veduta, perenne, strepitosa, frenetica, scintillante nostra dolcissima irrealtà”. Allo stesso tempo, intuisce con straordinaria precocità che la lezione di Klee può rileggersi, schiarita e resa linguaggio praticabile, nel rapporto tra il figurare lucido e pensoso di Morandi e la coeva astrazione geometrica, quella per cui, licinianamente ancora, “la geometria può diventare sentimento”: dico, ad esempio, un Magnelli, un Reggiani, un Melotti.
Ecco, dunque, il suo percorso prendere le vie d’una geometria non arrogante non teoricistica, intrisa d’umori di simbolo secondo un retaggio che risale ai Kupka e ai Ciurlionis; una geometria fatta cadenza verrebbe da dire araldica degli spazi, talora, per le simmetrie e le equivalenze, per le inversioni e i rimandi di shapes e di tono luminoso; una geometria, soprattutto, colata nella luce, un bagno bianco e nitido in cui le tarsie si fanno comunque corpo, in bilico tra concretezza e, per dire con Emilio Villa, “probabile umore dell’idea”.
Eliso l’accidentale del vedere, inteso compiutamente l’astrarre come un ragionare naturale per forme essenziali, Ricci può ora in piena maturità accostare e costeggiare la lezione in cui più si riconosce questo lavoro. E’ quella del Morandi “astratto” degli anni ultimi, il Morandi che non delegittima la realtà, anzi la affronta con scrutinio ancor più acuminato, e in perfetta assenza d’implicazioni sentimentali, che del reale assapora la perdita in quanto alterità al soggetto, ma per ritrovarlo come raggiunta plenitudine sensoriale dell’eventum pittorico. E’ pittura di valori, quella, in cui le cose sussistono per il “valore originario della loro esistenza”, e null’altro. E’, e sarà negli anni estremi di Morandi, la prova del suo famoso aforisma che “nulla è più astratto del mondo visibile”; e l’avventura, singolarissima, d’una ricerca d’assoluto, d’un reale tutto pensabile tutto esperibile oltre l’innesco dei sensi, che costituisce la controversa e geniale ipotesi morandiana di sublime.
Da subito consapevole come nessuno della grandezza dell’ultimo Morandi, Ricci ritrova nel segno sensibile, verrebbe da dire sismografico, dell’andamento di punta e della grafite che traccia, la dimensione di questo mondo in cui gli oggetti non più esistono, ma le forme continuano ad avere e pretendere spazio, comportamenti, situazioni, un tempo e una vita.
Il colore che vela e palpita in luce, demateriato; il segno che declinandosi e tramandosi costituisce forme dotate d’identità e carattere. La pagina, ancora, in Ricci impone la propria primazia ad ogni altro luogo del dipingere, è spazio intermedio tra concretezza corporea e pura fantasia intellettuale: è, soprattutto, il luogo in cui le forme del mondo, libere dal mondo stesso, possono conoscersi nell’identità loro essenziale, nel carattere che le fa essere comunque sostanze visive.
Nasce da quel momento quel processo architettante la forma cui, d’allora in poi, Ricci si mantiene fedele. Le sue shapes, corpi dotati d’una verticalità, d’un non newtoniano pondus, nate dall’incrociarsi sottile di motivi biomorfi e struttivi, sanno di se stesse la verticalità, prima di tutto. Sono individui plastici che chiedono e trovano uno spazio, uno stare, rispetto all’umore essenziale d’orizzonte. Hanno volume e una sorta di filigrana giottesca di spaziosità. Hanno, soprattutto, rapporti tra individui ciascuno dotato d’un suo carattere, d’una sua condizione d’esistenza.
Nel corso immaginativo e di ricerca nuovo, Ricci opera con concentrazione monacale sui sistemi e sulle condizioni visive di ognuno di essi e sul loro aggregarsi e disgregarsi infinitamente possibile, sul darsi nello spazio e nella luce – dunque in un tempo – e rispetto alle attese ordinarie di verticalità e orizzontalità che l’occhio mette ogni volta in campo.
Sino a questo libro, in cui la condizione di pagina non è neutrale, e anzi a un livello altissimo di percezione di codice. Qui la Shape of Things to Come – mi piace evocare il titolo dell’antico, 1933, racconto di H.G. Wells, per pura suggestione – su cui Ricci rimugina si fa più esplicitamente architettante, è quasi un voler diventare delle forme i cui comportamenti spaziosi agiscono da commento critico allo spazio stabilito e regolato della parola. Mi piace evocare, al di là d’ogni contenuto, quel titolo, perché un’altra suggestione queste immagini ricciane richiamano inevitabilmente, anche se senza alcun credibile rapporto: sono i trepidi ma saldi disegni michelangioleschi dei blocchi di marmo che egli inviava ai suoi referenti apuani in vista del lavoro da svolgere. Erano sagome elementari, ma già erano voglia e possibilità di forma, già erano spazio, luogo, dimora, identità.
Anche le antieroiche e antiretoriche variazioni di Ricci sul tema dello stare, lievi come pensieri fatti carta, sono forme che desiderano, che chiedono, che affermano. Anche per questa via, a ben vedere, nulla è più astratto del mondo visibile.