Alessio Tasca, catalogo, Museo Internazionale Design Ceramico, Cerro di Laveno Mombello, 22 giugno – 25 agosto 2002

Occorre risalire agli anni Cinquanta-Sessanta, e agli orizzonti meno banali del dibattito artistico nostrano, per ritrovare le radici più fervide del lavoro di Alessio Tasca.

Valgano due date: il 1953 di “Moderne Italienische Keramik”, curata da Adriano Totti in Germania, grande censimento della cultura ceramica italiana già sub specie sculpturae, e il 1966 della prima “Eurodomus” a Genova, in cui Gio Ponti tiene a battesimo il Centro Italiano Produzione d’Arte di Tasca, Sabadin, Caruso, Bucci, Bonfanti, Marconato, Fabbrini e altri, ovvero un raggruppamento orgoglioso di artisti la cui creazione è calata in tecniche di sorgente artigianale.

Tasca, Sfera, 1976

Tasca, Sfera, 1976

Si sa molto, ormai, di quella temperie formidabile in cui al progetto grande di integrazione e sintesi delle arti, che segnò un intero ciclo editoriale della rivista “Domus”, ma soprattutto tre edizioni memorabili della Triennale milanese tra il 1951 e il 1957, si intersecava omogeneo il progetto – mai intellettualistico mai volontaristico, beninteso – di recuperare e riproporre l’identità di una “fattura italiana” nella quale il retaggio della grande tradizione artigianale e le ragioni del produrre moderno trovassero finalmente motivi di complicità.

Artigiano, certo Tasca nasce, figlio di quella Nove in cui dir pratica d’arte è dir ceramica, e nella quale il confine tra oggetto d’uso e oggetto d’arte è da secoli una docile e ambigua convenzione retorica. Sarà forse il caso, forse il destino, ma nel 1979 egli prenderà poi a operare a Rivarotta nella fornace seicentesca che fu, s’è scoperto, dei Marinoni-Moretto: a suggerire, per fascinazione almeno, come un pensiero, un fare, attraverso fortune non intermetta d’esser se stesso, d’avere necessità e vita.

Nel centro veneto, nutrito di scambi intensi con il milieu, allora d’eccellenza come mai più, di Venezia, Tasca matura il passo di un fare che introietta i protocolli fabrili, l’armamentario tecnico, sino ad avvertirlo come una sorta di serena innatezza.

In altri termini, egli vive laicamente il rapporto altrimenti stregonesco con la terra, col fuoco, con l’alchimia dei colori, e soprattutto si tiene ben lontano dall’erigere la sapienza tecnica a identità esclusiva, con hybris che si creda di per sé sostanza artistica. Non “sacro artefice” si avverte il Tasca dei primi Cinquanta: forse, anche, perché tanto arguto da vedere il danno incalcolabile che tale artistocratismo da compound disciplinare produce, nonché tra i ceramisti bassanesi, tra gli orafi vicentini, e tra i vetrai muranesi. Per converso, gli è allo stesso modo evidente che la modernità delle sprezzature avanguardistiche non può non passare, per far valore, attraverso una factura che sia davvero, all’antica, “pensare con le mani”: respirare la stessa aria respirata da Martini, da Viani, da Vedova, ripensare alla lezione carismatica di Fontana (figura che ogni ceramista avverte naturalmente consanguinea) e per altri versi a quella di Melotti, non ad altro può indurre.

Tasca, Terragno, 1997

Tasca, Terragno, 1997

Nei primi anni Cinquanta, Tasca è ceramista maturo, dal punto di vista del bagaglio tecnico. Potrebbe far bottega, e chiuso lì. Ma proprio i germi di quell’aria in cui frullano i pensieri di Martini e di Fontana fanno maturare in lui altre ambizioni. Già le maiolicature  e le invetriature lucenti dell’avvio dei Cinquanta, pur nella loro fragrante acerbità, dicono d’ambizioni plastiche precise: essere ceramista, ma per far scultura; così come i piatti incisi presentati alla Triennale del 1951, auspice Ponti, dicono che ambizione non meno intrigante sia tentare di far scultura in forma ceramica, vezzeggiando con il grande maître à penser sogni d’una effettiva rinascenza di quelle che un’accademia troppo frettolosa ha ridotto ad “arti minori”.

Questo si chiede il dibattito più avvertito, che su quelle pagine di “Domus”, e in quelle esposizioni, va vedendo nascere una idea raziocinante di gusto moderno a fianco del design, in virtù di contaminazioni problematiche e disciplinari in cui la parità tra progettista e artigiano, tra artista e artefice, si inoltra in consonanze intellettuali effettive: e delle definizioni, degli ambiti, degli statuti, poco importi.

Avviato nelle certezze dell’esperienza, Tasca prende ad avvertire tuttavia che occorre forzare più d’un protocollo del “buon ceramista”, ove ambisca effettivamente a farsi creatore credibile non solo a se stesso, ma anche al mondo. Distaccarsi dalla produzione, sul piano operativo, si fa necessario, per esorcizzare i troppi preconcetti ancora circolanti tra arte pura e applicata. Soprattutto, forzare anche sul piano tecnico il repertorio delle facoltà, prendendo a concepire la tecnologia, l’industria tanto avversata da ogni emulo orgoglioso di Arts and Crafts, come il serbatoio di suggestioni e innovazioni fertili, purché assunte a una identità fabrile sicura di sé e non a un complesso di inferiorità. Ancora, affondare con determinazione maggiore il dialogo con le forme e gli esiti della pittura e della scultura più innovative, uscendo dall’insenatura confidente della cultura di nicchia per affrontare correnti e procelle della cultura artistica tutta.

Tasca, Gavega, 1992

Tasca, Gavega, 1992

Il 1961 vede Tasca ceramista “di ricerca”, come allora usava dire, quanto meno perché abbandona il figurare stilizzato degli anni precedenti e perché fonda il proprio atelier, in cui alla scultura si affianca, al più, la piccola serie. E’, credo, proprio il riflettere sulla nozione, sul valore concettuale di piccola serie, ovvero sul punto di continuità/discontinuità tra oggetto serializzabile e opera d’arte, che produce la crisi di crescita definitiva di Tasca.

Il dibattito è, in quei primi anni Sessanta, assai acceso e naturalmente contaminato, come mostra ogni repertorio di design, e come parimenti ricordano esperienze artistiche che vanno dal manifesto parigino di Le mouvement, 1955, alla mostra milanese Opere d’arte animate e moltiplicate, Milano 1960, da Danese (officina formidabile di design, nata, val la pena ricordare, come atelier di ristretta produzione ceramica dall’incontro tra Bruno Danese e Franco Meneguzzo), al Manifesto del multiplo, 1967; per non dire dei percorsi creativi e professionali di autori come Ettore Sottsass jr., Joe Colombo, Enzo Mari, Giovanni Anceschi, eccetera.

Piccola serie può essere, qualcuno immagina, una sorta di plusvalore artistico, carezza della mano compresa, immesso in una produzione che tiene del progettuale e dell’industriale, ma non se ne fa serva. Altri, più radicalmente, annettendo speranza di qualità solo al momento ideativo, accelerano sull’algida qualità formale della linea bauhausiana-ulmiana, e sposano il mito delle tecnologie “buone”, la serie grande come matrix di quello che allora andava di moda indicare come “design democratico”.

Ma Tasca è nato a Nove; tutte queste cose le sa, le comprende, le apprezza, ci ragiona sopra. Ma è di Nove. Scultore è, sa di design, ma quando si nasce con la crea nel sangue – e ben l’ha ricordato Luigi Meneghello – la faccenda è diversa. Si fa curioso delle tecniche, e ragiona di purezze e qualità formali, ma a partire da una sorta si fisiologia interna del formarsi nascente dalla tattilità  corporale che ogni ceramista apprende con il mestiere, e che innerva di sé ogni altra riflessione.

Tasca, Crepaldo, 1992

Tasca, Crepaldo, 1992

Il 1967 è l’anno della “scoperta” della trafila, strumento industriale della produzione in serie che, Tasca intuisce, può essere piegato alle esigenze dello scultore. Sconta i residui narrativi che gli vengono delle ascendenze martiniane prime, e parimenti la nozione solida di decorazione discesa per i rami pontiani. Lavora, ora, sulla forma, sulle sue strutturalmente elementari purezze, su quelle sue fisiologie che paiono slontanarsi nella mediazione della macchina ma riaffiorano, lì, persistenti, nell’aggrumarsi breve della materia, in quella sua oscura mai vinta potenza. Lo strumento gli offre una sorta di geometria preventiva, la quale si fa innesco per ritrovare una corporeità decantata dell’opera. Certo, i verdi e i rossi sovratono, le maiolicature e gli smalti lucenti anche per riverbero, non han più luogo, ora. E’ la materia a farsi colore di se stessa (“Non più colore quindi ma materia che ha un colore che diciamo dopo. Non più volume, ma materia che ha un volume”, verrebbe da ridire con Leoncillo), oppure a velarsi d’una introversa smaltatura biancastra impregnata, materia a sua volta, di manganese.

La terra, matière-couleur al di là delle varianti che Tasca saggerà nel corso degli anni, maiolica o grès non importa, vien come costretta dal procedimento a rinunciare alle proprie plenitudini impreventive, a misurarsi con la cosa tutta mentale della shape geometrica.

Arcovaso e Cornovaso, 1967, presentati alla Triennale milanese del 1968, essenziali per quel loro evolvere dalla sezione rettangolare, sono lavori emblematici dell’avvio di questo percorso. Ancora, se ne avverte la condizione d’esercizio tra intellettuale e operativo; un riverbero come di dimostratività, anche. Tuttavia, tale mise en abîme delle talentosità del mestiere comporta che Tasca ripensi la processualità tutta del farsi della forma, e la congeneità, anche, di pensiero formale e tecnica nell’accezione più compiuta: a questo proposito, Nico Stringa spende un riferimento assai opportuno all’estetica della formatività di Pareyson; anche Banfi, giova ricordare, per altro verso pone la tecnica come identità stessa del farsi concreto ed essenziale dell’arte, fino a dire essa stessa stile: argomenti, tutti, dei quali il dibattito artistico, al quale le antenne di Tasca erano ben orientate, dibatteva in modo vivo e profondo, in the matter.

In ogni caso, queste forme sono forme del possibile, e insieme forme necessarie. Dotate d’un lògos con fidejussione geometrica, esse rappresentano non tanto un pensiero della funzione che si fa forma, quanto un pensiero in se stesso della forma nella materia, al quale avviene di essere anche, come per conseguenza naturale, funzionalmente plausibile.

Negli anni, l’artista trae da queste premesse, in virtù di rimuginii operativi feroci, una sequenza di conseguenze espressive di grande spessore. La facoltatività della funzione, che giunge alla perdita totale, è a ben vedere la più ovvia, ma in sé non particolarmente significativa. La formulazione di corpi plastici che si collochino non al crocevia antagonistico tra scultura e oggetto, e semmai saggino una sorta di via ulteriore, in cui le due concezioni non confliggano, è assai più importante: soprattutto ricordando che quel passaggio Sessanta – Settanta viveva, nel dibattito scultoreo, tangenze come la vicenda dei multipli e divaricazioni non meno diametrali, arte povera in testa.

Le sculture che, compreso espressivamente ed articolato il potenziale operativo della trafila, nascono negli anni Settanta (penso soprattutto alle Gabbie, alle Sfere) si fanno forti proprio della loro natura plastica ambigua. Sono corpi di terra; allo stesso tempo forme ordinate/disordinate dal sommarsi e secarsi di figure e movimenti geometrici; ancora, trame di linee che da struttive si fanno linee/forza, con il coraggio, anche, della sprezzatura, del farsi sindoni di gesto brusco in contraddizione; infine, sono recuperi sottili, fatti ragione formale, dell’amata cadenza in partitura decorativa, modulo e ad libitum, iterazione e variante, regolarità e deroga. Se ne osservi, inoltre, un’altra non occasionale e assai ben sviluppata ragione qualitativa, alla quale Tasca dedica con ogni evidenza la massima attenzione. E’, di queste opere, un formarsi che per certi versi si fa indifferente al compimento raggiunto: della forma è snidato, esibito lo scheletro, il sistema nervoso, e ininfluente il tegumento “a finire”, in un continuo andirivieni concettuale tra dentro e fuori: è, se si consenta l’azzardo linguistico, non una corrosione di forma formata, e neppure un non finito: è un “per non finire”, meglio, un processo che non prevede fine.

Tasca si avvede tuttavia – siamo allo scorcio del decennio Settanta – che sono proprio le urgenze del gesto che rimbecca (e derogando rinforza) il sospetto di perfezione, alla lunga le più sacrificate. Anche perché le sue shapes movimentate, aperte, avvertono talora un rapporto disagiato con l’orizzonte, troppo indifferenti forse all’appoggio, al sorgivo essere comunque figura/albero/colonna/casa della scultura. Due opere di metà decennio, Nembalissa e Piombise, 1986, dicono dei risultati di questa ulteriore stagione riflessiva. L’effetto modulare, cellulare della trafila si semplifica, arretra strutturalmente a dato di fondazione. L’opera, peraltro, dichiara un più aperto scorrimento tra dentro e fuori, schiudendo una cavità (più volte il motivo della cavità si esplicita, spinto sino a fare della struttura una sorta di pelle struttiva, come in Gavega, 1992) dalle plurime suggestioni simboliche.

Protagonista, ora, non è tanto la sagoma del solido di riferimento, quanto una sorta di crescenza verticale della forma, dal meno evidente animus geometrico e dalle più brulicanti movenze fisiologiche. Essa è capace, in virtù del tasso assai più accentuato di implicazione corporea, di diventare vaso degli accidenti imprevisti, e lucidamente impadroneggiabili, che Tasca provoca.

Mantenendo inalterata la mediazione – puramente modale, ma in grado di slontanare inappellabilmente le voglie di gesto urgente, come per filtro oggettivamente razionalizzante – della trafila, l’autore imprime ai corsi di crescenza della forma brusche sterzate, vere e proprie fortuità formative: dalle quali discende, come per catena generativa che nel proprio stesso philum prevede l’alea e la discontinuità, la sostanza stessa, espressiva e plastica, dell’opera.

Con queste opere Tasca si avvia a una fervida, ultima maturità. Essa, nel corso del decennio Novanta e sino a oggi, non si appaga delle memorie di un corso pur ricco e di ormai riconosciuta qualità, magari giocando la carta di un à rebours che pure gli verrebbe riconosciuto in buon diritto. Lo schema della struttura verticale, della crescenza dal suolo, non può non portare al centro della sua ancora non esausta riflessione il motivo – antropologico prima che formale – della casa, della ragione architettonica.

La serie dei Mesi tridentini in d’après, l’occasione della messa in scena dell’Orto di Marco Paolini, nella seconda metà decennio, azzardano addirittura, sulla scorta di rare ma intense occasioni passate di rapporto con l’architettura, una sorta di esplicito recupero dell’antica integrazione delle arti, tra memorie d’antico e echi di gioventù. Non è questo, tuttavia, il filone primario di esperienza. Esso si reperisce, piuttosto, nella sequenza non casualmente sincrona di sculture come Teonghio e Reoso, 1997, su su sino ad Acreide e Selinunte, 2001. Di nuovo la partita è tra uno stare e un ergersi, tra un fuori e un dentro in cui tensioni emotivamente e plasticamente centripete collidono con forze disordinanti, squilibranti, che minano il crescere della struttura nel suo stesso farsi, sino a schiudere contraddizioni concettualmente vistose.

Rimonta sottile, in questa stagione ultima, una voglia tutta romanica – non so come altrimenti indicare, seppure con tutte le cautele – di far struttura cum figuris, come riprendendo una delle ragioni più profonde del far scultura in ceramica. Se un vaso può essere immagine in sé e motivo antropomorfo, se un’ansa può farsi braccio, e un serpente ansa, e un collo farsi collo, i mattoni originari da cui Tasca ha preso le mosse non possono che farsi casa.

Il resto, Alessio lo sta ancora scoprendo.