Cassani
Percorso di Cassani, in Nino Cassani, catalogo, Villa Recalcati, Varese, 17 giugno – 15 luglio 2012
Nell’autunno 1960 Nino Cassani è protagonista, con Giacomo Benevelli, Floriano Bodini e Giancarlo Marchese, della rassegna “Giovane scultura milanese” curata da Giorgio Kaisserlian al Centro San Fedele.
L’occasione è cruciale, per il suo percorso e in genere per gli sviluppi di quella “scuola milanese” di scultura evolutasi lungo l’arco d’un secolo nelle aule allora prestigiose di Brera. Il San Fedele è, a quelle date, palcoscenico primario d’un dibattito vivissimo, in cui l’emergere delle generazioni nuove è coltivato e incentivato proprio dalla militanza attenta di Kaisserlian.

Cassani, Ritmi lunghi, 1963
Il clima prevalente è quello di una vague informale che s’è sovrapposta alla polemica – troppo sterile e ideologica per esser davvero fruttuosa – tra figurare e astrarre, e della quale subito si prospettano istanze di superamento in chiave d’una figurabilità e, meglio, d’una organicità nuove possibili. Cassani, con i tempi meditativi e le cautele di chi non consideri essenziale la tempestività dell’aggiornamento stilistico e modale, e piuttosto la solidità nel maturare in autonomia le proprie convinzioni plastiche, ha attraversato quegli anni con una lucida chiarezza problematica.
Sono state, dapprima, opere nate da un far figure scabro e potente, in cui protagonista fosse, senza remore, la pietra.
La pietra è e sarà, nei decenni, l’identificazione esclusiva della stessa idea di scultura, in Cassani. Il quale nasce a Viggiù, terra di quelli che la tradizione tramanda come picasass, presso i quali – scalpellini o grandi artisti non importa – ben vivo è ancora il retaggio della sapienza antica dell’artifex. Da Viggiù proviene, per stare al secolo, un Enrico Butti, maestro nella Brera d’inizio ‘900; da questi dintorni un maestro come Luigi Broggini e Bodini, sodale di generazione e di esperienze giovanili. (1)
“Egli è davvero un tardo erede della antica tradizione lombarda dei magistri cum machinis (o “comacini”) dei quali séguita la lezione del faticoso lavoro di scalpello”, ribadirà Emilio Picco in un testo del 1964. (2)

Cassani, Rotante, 1964
Più ancora che vocazione identitaria, tuttavia, la pietra è per Cassani scelta espressiva. E scelta anacronistica, di deliberata inattualità, nelle logiche e secondo gli indirizzi della ricerca contemporanea.
È la pietra che riporta a un immaginario arcaico, atavico della forma plastica; a una fisicità dell’opera che induca di per se stessa nello spettatore un valore di temporalità extrastorica, misurabile solo con il metro lungo delle civilizzazioni antiche.
Le Teste, una Figura seduta in odore d’arcaico mediterraneo segnano nel 1957 un passaggio essenziale. E vi si avverte, su tutti, il modello potente dell’Arturo Martini meno retorico, quello delle versioni de La sete: e per altri versi Fritz Wotruba, e quanto van tentando in quegli anni, per le vie loro, compagni di strada vicini e lontani come Lorenzo Guerrini e Giancarlo Sangregorio.
Il filtro di mediazione è, per Cassani, quello di Marino Marini, maestro in Brera, e in genere del ragionare d’un primitivo non ortopedico che la scultura italiana va saggiando per plurime vie almeno a partire dagli anni ’30.
Stante tale assetto d’inizio, è chiaro che il bagno autre dell’artista, nulla più che un transito, un farsi impregnare d’umori e questioni, avvenga in termini di concezione organica della forma, anzi d’una Strutturazione organica – così titola più d’un’opera in quella stagione di fine decennio – in cui l’autonomia e il nitore congegnato del corpo plastico possa darsi come equivalente effettivo della forma naturale.
Cassani intuisce che la via può esser quella di partire dalla forma sensibile non per ridurne gli assetti contingenti ma, al contrario, ritrovandone i ritmi e le movenze formali d’essenza, alla fine d’un processo fatto di auscultazioni dell’autonoma vocazione formativa del materiale.
Levare, in altri termini, è solo il modo con cui l’artista scava la pietra. Dal punto di vista del corpo plastico, agisce piuttosto l’evidente, fragrante, concettualmente compiuto processo di generazione della forma per via d’interne trasformazioni, sino a farsi presenza delucidata nello spazio.
Come già nel tempo precedente, in Cassani prevalgono in questo momento alcuni aspetti ineludibili. La tendenza alla verticalità o all’orizzontalità dominanti, il sospetto verso l’enfasi della massa, un senso accentuato della forma-limite, che si offre allo spazio per via di profili scanditi, assettati in curve appena voluttuose e in spigoli vivi, a cadenzare superfici su cui la luce si frange e dilata, in cerca d’ombre profonde.
“La carica emozionale che passa in queste forme piene di Cassani è schiettamente vitalistica”, nota Kaisserlian in quel decisivo 1960 (3), per dire di lì a poco “di quell’insieme di piani liberi che avanzano verso di noi, di quegli spigoli netti che tagliano dell’aria una struttura, di quell’intersecarsi di forme che entrano le une nelle altre, creando uno spazio interno teso e vibratile, ove tutto pare obbedire ad un’ansia di espansione dinamica”. (4)

Cassani, Struttura rotante, 1984
In alternativa alla verticalità, e con un umore che parimenti riporta alla filigrana d’architettonico, nelle opere titolate Strutturazione organica di un rilievo egli ragiona su una prevalente frontalità possibile dell’opera, sul codice visivo del rilievo come tradizione da scardinare in nome di una visività altrettanto essenziale, e ugualmente motivata solo da intime necessarie ragioni. Sarà, questa intuizione di una possibile frontalità prevalente della visione, un motivo su cui nel tempo l’artista molto opererà.
Ma è, s’è detto, un transito, questo delle Trasformazioni. Ciò che Cassani conquista all’aprirsi del decennio nuovo è una consapevolezza ancor più definitiva dell’autonomia dell’opera scultorea, del suo sapersi immagine in se stessa: non perché finzione, ma perché identificato corpo visibile.
L’artista riflette, ora, più sulla pietra stessa che sul suo destino formale. La sua ragion d’essere è da un canto l’associazione ancestrale con lo stare, il farsi menhir e colonna, così come il sapersi materia innata dell’architettura, implicante valori di struttura e articolazione con ratio. D’altro canto essa ha una sorta di primarietà anche simbolica, è pienezza e peso, ruvidezza e forza, verità e facoltà d’artificio, a patto che l’artificio non sia simulazione, ma accoglimento della sua natura profonda. Perché la pietra sta nello spazio in una sorta di congenita continuità/discontinuità, portatrice di una presenza che è insieme naturalezza e ars.
Le prime prove della serie Pietra viva dicono di Struttura verticale e di Ritmi ascensionali. Dicono, in altri termini, non di un arredamento estetico del luogo, ma di un radicamento indispensabile in una dimora che è, ha osservato con pertinenza perfetta Stefano Crespi, il vrai lieu poetico: “possiamo pensare per l’atto originario di queste sculture alla nozione di vero luogo. Non è un grembo di natura illusivo, allusivo, mimetico; ma non è nemmeno lo spazio intemporale di un concetto, una rappresentazione concettuale del mondo entro cui possa essere dimenticata la finitezza, la dimensione della temporalità che è quell’avvicendarsi del giorno e della notte, della volontà e dell’abbandono”. (5)
L’architettarsi della forma ascende, offrendo spigoli taglienti e assertivi al vuoto. Ma nel corpo si schiudono cavità, luoghi d’addensamento d’ombre e transiti di luce, i quali nella loro imperfetta regolarità fanno da metrica struttiva alla forma plastica. Ancor più chiaramente di prima Cassani assevera l’irregolarità scabra delle superfici, come in un sospetto definitivo per la politezza, per il pittoricismo, per la sensuosità fittizia della materia.
La sua pietra è la materia dell’originario, di un senza tempo che è tutto il tempo, perché le sue forme tengono della grotta e del grattacielo, sono silenziose e introverse come le perdas fittas preistoriche e digrignanti come ingranaggi meccanici espansi aggressivamente nello spazio.
Cassani ascolta la pietra, in un processo di immedesimazione che è insieme agonismo ed erotismo. Ne vede una logica d’interna articolazione formale che è ormai corpo appropriato, capace di pronunciarsi sia nel comportamento verticale sia nell’organizzazione scandita del rilievo frontale.

Cassani, Rotante composito 1987
Scriverà a questo proposito Miklos Varga che per lui “vivere la pietra è come sentire le pulsazioni ‘organiche’ del primordio attraverso il respiro della natura. E il respiro è ritmico come l’azione manuale che sbozza dal blocco di pietra immagini del sentire universale. L’azione è fisica, d’accordo, ma la partecipazione è interiore, meglio spirituale”. (6)
In questa fase egli riprende le riflessioni intorno alle dinamiche espansive della forma già intuite a cavallo di decennio, quando la cadenza d’eco biomorfa consentiva a motivi curvilinei di collidere fastosamente con gli spigoli retti fendenti lo spazio.
Già nel 1964, nella personale milanese alla Pagani, fanno la loro comparsa pubblica opere denominate Struttura circolare e Rotante. Si tratta di forme svolte in una sorta di sovrapposizione planare di sagome circolari, o di ampie frazioni circolari, a visione prevalentemente – ma, è essenziale, tutt’altro che esclusivamente – bifrontale. Ognuno di questi piani, d’altissimo rilievo sul sottostante, è aperto da cavità a propria volta circolari, oppure ancora irregolarmente ovoidali, sino a far risultare un vero e proprio traforo attraverso cui la luce incidente fa leggere una sorta di possente filigrana, che verrebbe da dire d’umore romanico. I segni incisi sulle superfici in vista assumono spesso esplicitamente andamenti radiali, inducendo una tensione centrifuga che ribadisce l’eccentricità delle sovrapposizioni.
Si tratta di una svolta importante nella ricerca di Cassani. Essa è concettualmente omogenea a quella, annunciata da opere come Ritmi lunghi, 1963, in cui lo stesso procedimento articola una griglia sovrapposta di consistenti piani rettangolari, e in cui i segni che s’incidono sulle superfici hanno andamenti che provocano una suggestione amplificata di espansione orizzontale.
Non di forma geometrica nella sua purezza immateriale, ragiona Cassani. Egli pensa per cose che hanno forme, presenze fisicamente date, materie costituite secondo necessità: cose plastiche naturalmente, cose che hanno comunque a che fare esclusivamente con la vie des formes.

Cassani, Sequenza ritmica, 1998
Da subito s’aggiungono, alle shapes circolari, brevi porzioni di cerchio disposte a raggiera, dalla sapiente inclinazione diagonale, perché l’aspetto dinamico di spinta centrifuga non sia più un effetto ma un realtà struttiva implicata nella forma.
Se davvero, come qualcuno ebbe a dire, il Michelangelo architetto concepisce certe sue fabbriche come ingranaggi che aggrediscono lo spazio, un figlio della civiltà delle macchine come Cassani non poteva non riflettere su quanto la scultura possa incidere nel luogo come machina plastica dotata d’una qualità dinamica esplicitata, che vi induce una qualità allarmante e allarmata in collisione con la luce.
L’approccio di Cassani alle tensioni formali aperte presupposta dalla serie Rotante lo spinge a riflettere su una possibilità di organizzazione formale ulteriore. Se la scultura può essere congegno geometrico oggettivo, e il suo darsi in se stessa un apparato strutturato dotato di senso non derivato, la via che può conferire all’opera un valore di presenza modificante nello spazio d’esperienza dello spettatore può essere quello cui egli perviene, nel 1968, con Le macchine.
Andamenti rettilinei e curve, tensioni dinamiche e appoggi bilanciati, sensazione di plenitudine fisica forte e straniamento fantastico della figura mentale sottesa, possono ritrovarsi tutti in queste sue, letteralmente, macchine visive. Quanto abbia contato, nella maturazione dei Rotanti, un modello storico come quello di Delaunay e del futurismo, e quanto invece la distillazione del sapere antico della forma utilitaria tramandato dalle mani degli artefici della pietra, non è facile distinguere. Altrettanto, ora, quanto queste costruzioni debbano al macchinismo variamente reinventato dall’avanguardia storica, e quanto al retaggio che scende per i rami dai meccanismi medievali, in realtà poco importa.
Ciò che conta è che Cassani concepisce e congegna nel lavoro ostico della pietra questa sua declinazione arcaizzante delle “macchine celibi”, che s’incuneano nello spazio come corpi estranei ma dotati d’una sottile, congenita familiarità.
Secondo Marco Valsecchi, che accompagna la prima esposizione delle nuove opere da Pagani, 1968, Cassani esplora “le presenze della nuova situazione macchinistica”, dunque “i volani, le pulegge, gli ingranaggi, le trasmissioni. Una macchina che è già quasi un automa, e con i suoi motivi di bellezza: colonne, pistoni, massicci volumi e viti minuziose, trafori, piani a ventaglio, proiezioni improvvise di tubi da sembrare un’arma d’offesa e altre volte, per via dei congegni complicati, preziose oreficerie”. (7)
Il motivo del cerchio dinamico e della ritmica plastica che lo alimenta è, dei nuovi costrutti, elemento essenziale: ed è, di fatto, lo schema formale che più si attaglia all’idea di scultura che Cassani va coltivando.
Da questa fine del decennio ’60 l’artista si dispone a dipanare, in sequenze operative diverse, l’universo dei possibili che le premesse sin qui verificate prospettano. È il tempo della maturità, è il tempo del trovare, da cui altri ricercari possano muovere.
Saggia anche il plasticare e il bronzo che ne consegue, l’artista, accentuando la purezza delle tensioni lineari che se ne possono trarre, e una diversa irritata qualità superficiale. Ma la pietra è, e non altrimenti potrebbe essere, la materia per lui vocazionale, appunto la sua stessa identità d’artista.
Le moltiplicazioni di sagome circolari e di porzioni di cerchio, i ventagli radianti che solcano la luce, quei centri visivi che spostano progressivamente le simmetrie e i contrappesi sino a indurre una sensazione di desiderio d’equilibrio in luogo dell’avvertimento del pondus. Quel macerarsi delle superfici nell’incidere vivo dello scalpello, a porre in scacco la carezza dell’occhio, in un dramma che è dramma di luce. Quei ritmi fatti di diagonali disarmoniche, secondo l’accezione kandinkijana, e dunque, a loro volta, drammatiche. Tutto ciò entra stabilmente in gioco nelle nuove opere.
Da quella stagione in poi, dalla potenza corrusca di opere come Lacerazioni, 1970, all’irrompere di diagonali in Presenza viva, 1990, dai disassetti sottili della Presenza verticale degli anni ’90 al ripensamento del generarsi della forma dalla materia in Movimento in evoluzione, 2006, sempre Cassani si aggira nel territorio problematico e operativo che è, per eccellenza, il suo.
La confidenza della pietra è definitiva, qui, complice, con punte evidenti di sensualità accolta e coltivata. “Più che macchine sono geologie ancora articolate su radiazioni di rotanti e ruote; ma tirano esplicitamente a ritrovare il grumo e il massiccio della pietra”, osserva ancora Valsecchi nel 1978. (8)
Il “massiccio della pietra” è, di fatto, la sua intimità. E l’anima pulsante ne è il ritmo, il corrispondersi sempre leggermente e sapientemente dissonante degli elementi plastici. Perfetta, ancora, è la lettura di Crespi: “Qui le sculture entrano in un ritmo esatto. Apparentemente i temi sono le trasformazioni, i rotanti, le strutture, le presenze verticali. Di fatto è sempre la materia vivente della pietra, la semplice innocenza in un punto qualunque del mondo, che discendono al cuore di un’idea, di un archetipo, o risalgono alla cifra di una forma”. (9)
Si caricano, le stagioni della maturità di Cassani, di umori che ora si fanno più apertamente simbolici, forse. Ma esse vivono di un sapersi scultore che ha la forza atavica del rapporto profondo, in scambio fervido di caratteri, con la materia, di un dirsi pieno in una sensazione d’appropriatezza definitiva: interrogativa, certo, ma non più problematica.
La pietra ancestrale, quella su cui si sono incise le prime figure dell’uomo, è davvero per Cassani, e per chi ne assapori l’opera, davvero dimora, davvero il vrai lieu. Perché anche per lui, come per Yves Bonnefoy poeta, non è più il vero luogo a convertire lo sguardo, è lo sguardo che converte i luoghi del mondo in veri luoghi. (10)
Note. 1. La vicenda è ricostruita complessivamente in F. Gualdoni, Scultura a Varese dal verismo a oggi, catalogo della mostra, Castello di Masnago, Varese, 1994. 2. E. Picco, Cassani, catalogo della mostra, Galleria Pagani del Grattacielo, Milano, 1964. 3. G. Kaisserlian, Giovane scultura milanese, catalogo della mostra, Centro Culturale San Fedele, Milano, 1960. 4. G. Kaisserlian, Nino Cassani, catalogo della mostra, Galleria Pagani del Grattacielo, Milano, 1961. 5. S. Crespi, La pietra, la luce, in Nino Cassani. Sculture, catalogo della mostra, Villa Tanzi, Inveruno, 1995. 6. M.N. Varga, Nino Cassani, catalogo della mostra, Galleria Corsini, Intra, 1975. Di Varga cfr. inoltre l’importante monografia Nino Cassani, Milano, Carlo Emilio Bestetti editore, 1974. 7. M. Valsecchi, Nino Cassani, catalogo della mostra, Galleria Pagani del Grattacielo, Milano, 1968. 8. M. Valsecchi, Nino Cassani, catalogo della mostra, Galleria d’arte di Ada Zunino, Milano, 1978. 9. S. Crespi, La pietra, la luce, cit. 10. G. Gasarian, Yves Bonnefoy. La poésie, la présence, Seyssel, Éditions du Champ Vallon, 1986.