La cartolina nell’arte
Introduzione a Enrico Sturani, La cartolina nell’arte. Fatta a pezzi, stravolta, esaltata, Barbieri 2011
In effetti era naturale, in qualche modo predestinato, che artisti e creatori assortiti mettessero mano, sin dalla sua nascita, alla cartolina.
Ed era parimenti predestinato che Enrico Sturani, che di cartoline sa tutto – e non è un modo di dire: tutto, qui, significa proprio tutto – a tale vicenda dedicasse questo secondo volume della sua impresa monumentale di mise au point dell’identità storica, estetica, concettuale della cartolina medesima.

Pechstein, Uomo che scrive una cartolina, 1913
La quale, si sa, ha una caratteristica unica. È prodotto tipico di low culture, ma ha una capacità di diffusione e d’impatto che pochi altri “oggetti e manufatti comunicativi” – così va di moda chiamarli oggi – possono vantare: il che, nel secolo delle avanguardie erette a minoranza spesso antagonista alla cultura ufficiale, ne fa uno strumento prezioso di promozione affine ai manifesti (nel senso duplice di affiches e di proclami programmatici), alle riviste e agli antenati tutti dei mass-media.
E poi è una struttura d’immagine ad alto gradiente convenzionale che, di fatto, eredita forma e spazio e per certi versi aspettativa di visione dal quadro stesso, come già in L’arte alla prova della cartolina, prima tappa del suo “voyage au bout de la carte-postale”, o forse “au but”, Sturani aveva ampiamente mostrato.
Ancora, la cartolina coniuga in modo perfetto, miracolosamente perfetto, facoltà di sperimentazione teoricamente illimitate e bassi costi di realizzazione, in un’umiltà e sobrietà di mezzi che hanno fatto sì, tra l’altro, che nelle storie variegate del ‘900 il progetto macromonumentale di impacchettare scogliere e palazzi antichi di Christo venga dichiarato erede di una cartolina della Gioconda con giusto un interventino manuale, nuda e assoluta idea duchampiana.

Kelly, Collage su cartolina, 1964
Ed è da considerare, ancora, che per un artista una cartolina è “anche” una cartolina, cioè un topos codificato di comunicazione in termini di forma, struttura, spazi, iconografia, circolazione secondo regole burocratiche e leggi postali, eccetera: ovvero una macchina significativa da adottare in modo variamente appropriato per farne scaturire piccole decisive differenze o fuochi artificiali di senso, per assumere schegge non banali della creatività diffusa e anonima che della storia della cartolina sono state e sono nervi e sangue oppure per diventare Ray Johnson e On Kawara, geniacci concettuali.
Proprio la versatilità delle cartoline e la loro facoltà di essere “fatte a pezzi, stravolte, magnificate”, come recita il titolo di questa nuova prova sturaniana, rende lo spettro delle vicende che le hanno riguardate teoricamente illimite, in ogni caso variegatissimo.
Sistematizzare e accademizzare, l’autore sa bene, ucciderebbe l’oggetto del proprio amore e dello studio. Egli preferisce dunque procedere secondo un discorso che sia narrazione avveduta ed esperta (ovvero ben consapevole e padrona di ciò che va dicendo: il che non è, al giorno d’oggi, sempre scontato), ma tra vita vissuta, dalle cartoline stesse e dall’autore, e ragionamento talora felicemente alineare.
Di Sturani mi colpì, nel 1981, l’invenzione espositiva di “Nuove cartoline” a Roma. Mi colpì, soprattutto, la sequenza ossessiva delle serie di cartoline commerciali dedicate alla Gioconda e all’Angelus, ovvero a due stereotipi dell’artistico per eccellenza, ognuna delle quali era insieme uguale alle altre e da ognuna altra diversa: ove entravano in gioco ragionamenti alti sulla riproducibilità benjaminiana e sul mito della fedeltà tecnica dell’immagine, ma soprattutto una sorta di delirio sottile che svelava la zona grigia, fervida, in cui pratica artistica e collezionismo si fondono in una sorta di identità terza, nutrita dalle altre e le altre specchiante: quasi un’intuizione precoce di una componente essenziale delle neoavanguardie contemporanee.
Anche questo libro, dunque, trova il suo carattere più appetitoso nell’identità fastosamente ambigua dell’autore. Che è collezionista maniacale e creatore in proprio, studioso lucido e divoratore compulsivo di immagini, “unus ex curiosis” (Prob.2.8) perché “curiositas nil recusat” (Aur.10.1) come recita l’Historia Augusta e insieme nitidamente cosciente che ogni sistemazione, catalogazione, ordinamento, è quasi sempre un modo per uccidere la conoscenza ma può essere altrimenti, più proficuamente, luogo in cui far fiorire nuova creazione, nuovo senso.
Dunque nel racconto di Sturani può stare tutto, le torte in foggia di cartolina e Picabia che dipinge con acribia devastante d’après cartolineschi, Michel Butor che le ricombina e trasfigura in oggetti dalle fogge imprevedute ma le utilizza poi regolarmente per la spedizione e Bruno Caruso che invia allo stesso Sturani una cartolina sostituendo al nome, nell’indirizzo, il suo ritratto: la consegna da parte del postino diventò, ricorda l’autore, una sorta di happening poliziesco-condominiale.
E ci sono pure i falsari. Come accade ogniqualvolta il binomio fatidico arte/collezionismo si produca, all’eccesso di fessi collezionanti non può non corrispondere una attività volenterosa di messa a disposizione di ciò che i fessi, ignari, bramano sopra ogni altra cosa, il falso. Che è, in un territorio come questo in cui tutto può derivare da tutto e da tutto deviare, una sorta di spezia non così aspra com’è in altri ambiti.
Ci sono, beninteso, i casi aulici e consacrati dalla storia dell’arte “seria”, i futuristi e i dada su tutti, e poi Dieter Roth e Rebecca Horn, Jiri Kolar e Christian Boltanski, eccetera.
Ma questo non è un who’s who, è una storia vivente raccontata da uno che l’ha vissuta, in parte direttamente e in parte cercando, annusando, trovando, capendo, confrontando. Guardando, soprattutto.
Da storico dell’arte ormai annoiato dalla letteratura professionale che mi tocca ingurgitare sempre più di malavoglia, leggo queste pagine di Sturani soprattutto ritrovandovi un piacere antico e ormai sconosciuto ai più. Quello di guardare, guardare davvero, e capire. Di avere un rapporto diretto, intellettuale solo perché compiutamente fisico, con l’oggetto: che è la scelta, il way of life di Sturani, e che prescinde da ogni possibile proiezione accademico/istituzionale.
E mi ritrovo a pensare che, giusto a proposito di Gioconda e dintorni, si dice sempre che il danno maggiore all’aura dell’opera d’arte provenga dalla sua infinita riproduzione meccanica, la quale banalizza, poppizza, kitschizza. Personalmente, ho sempre trovato che la forma di kitsch più tremenda, e parimenti deleteria, sia la catena montuosa di vaccate intellettualistiche che troppo spesso lo studioso, aggrappato come un naufrago dell’intelligenza ai birignao della propria disciplina, riesce a concepire in luogo di un sano, diretto, eventualmente anche emozionato rapporto con l’opera. Quando l’arte si fa mero pretesto per la professione istituzionale dell’arte, il danno può essere micidiale. Leggere certe schede in cataloghi ponderosi ammazza l’arte più di mille baffi messi a un ritratto famoso, giuro.
Ecco, una delle mie poche certezze felici è che Enrico Sturani non è, e mai potrà diventare, un accademico della cartolina. Sinché se ne rimarrà nel suo antro cartolinesco dalle parti del Colosseo, a giocare ai mille giochi del suo ingegno multiforme da coboldo felice e a concepire libri come questo, il rischio che mi diventi “docente di storia ed estetica degli oggetti culturali e comunicativi” o di qualche altra baggianata del genere non si profilerà neppure all’orizzonte.
Per fortuna.