De Alexandris
De Alexandris. Pratica del colore, catalogo, Galleria Peccolo, Livorno, 9 giugno – 7 luglio 2012
Pittura è stata, per Sandro De Alexandris, primariamente interrogazione.
Era così alla metà degli anni ’60, quando l’artista scelse di farsi eccentrico alle convenzioni ormai sdrucite d’un pittorico che molto voleva esprimere e poco riflettere, facendo dell’opera stessa un enunciato criticamente delucidato intorno alla pittura, al dipingere, al quadro.

De Alexandris, Soglia XXXII, 2011
“Non fare il quadro” significava molte cose, in quegli anni. Era non cercare un modo diverso di far pittura, ma mettere complessivamente in mora molti degli aspetti su cui si fondava il codice; la maestria dell’artefice, certo, con tutto l’apparato di strumenti e armamentari tecnici e retoriche annesse; la ragione convenzionale dell’opera, non più intesa come finestra aperta su una visione discontinua al luogo dello spettatore e piuttosto presenza fisica oggettivamente data e modificante lo spazio ordinario esperibile; soprattutto, l’assenza di una distanza concettualmente vagliata tra l’artista e il flusso degli intenti e degli atti di pittura.
L’autore che, con antica manìa, s’immerge nel corso a un tempo operativo e inventivo sino a forme d’immedesimazione variamente irrazionali, lascia luogo in quella stagione, di cui De Alexandris è artefice e protagonista, a una figura inflessibilmente consapevole che concezione, progettazione, strategia metodologica, verifica, operazione, esito, sono un unico processo non gerarchizzabile, e l’oggetto di tale processo è il perché della pittura stessa, la sua salvezza possibile entro un pensiero scrutinante della visione.
Prevaleva allora, certo, un rigorismo che poteva sembrare straniamento deliberato, che poteva anche esser letto come indifferenza al pittorico stesso. Forse per taluni artisti, d’altronde, è davvero stato così.
Non certo per De Alexandris, il quale piuttosto ragionava e ragiona d’amore, e con amore, della pittura. Della pittura, dell’opera, e non dei suoi molteplici travestimenti e travisamenti retorici. Della pittura, ovvero della sua ragione concettuale ultima, un vedere e far vedere che, ripulito d’ogni scoria il viaggio dello sguardo dall’occhio all’intelletto all’animo, possa ancora far dire senza virgolette di cosa mentale, di pienezza d’esperienza.

De Alexandris, Piccolo esilio VII, 2010
L’artista ha agito, dapprima, sulla verifica degli atti formativi diretti e sull’interna fisiologia della forma/quadro, costeggiando un grado nei pressi dello zero fatto di concretezza della superficie, di segni che fossero davvero segnati, d’uno spazio che fosse quello spazio, con quella struttura, con quella misura e qualità dell’apparire.
Ha, a un certo inderogabile punto, affrontato la questione decisiva dell’idea del pittorico, il colore. Il colore è corpo e materia, in pittura. È captazione sensibile diretta, pienezza visiva, autonomo innesco emotivo, simbolo anche: molte cose, e la storia di molte cose, così come la stessa vicenda dell’arte tutta le ha edificate in patrimonio della coscienza. È faccenda di luce, anche.
Sapeva da subito, De Alexandris, che le stagioni della Monochrome Malerei avevano aperto tante strade quante ne avevano chiuse. La verifica ulteriore, esauritesi quelle spinte programmatiche e polemiche, ritrovato il fare pittura possibile alla fine della notomia del pittorico, è stata per lui una ridefinizione purificata dell’immagine di pittura, e del suo colore.
Non sono nati ragionamenti sul colore, ma ragionamenti del colore.
Saggiato sino all’ultimo il tasso di oggettività del corpo pittorico, De Alexandris ne ha infine ulteriormente compresa l’intima estraneità al mondo: che origina non da un guardar fuori, ma da un guardar dentro. Un farsi spazio, non un dire spazio. Un sostanziarsi, pienamente, in luogo.
Ecco che la superficie dell’immagine, luogo perfetto d’incontro tra il qui dello sguardo e l’alterità continua del suo oggetto, può concepirsi come ambito d’un vedere impredicato.
Tracce grafiche elementari, minimamente struttive, stabiliscono il campo nel quale il colore si dispiega come cadenza di una bellezza senza carne, come fantasma sensuale animato da uno splendore esente da grazie, come intonazione insieme intellettuale ed affettiva priva d’altre responsabilità che il proprio risuonare.
Il colore, un tono in dominante ma nascente ma intrighi sottili e colpeggi avvertiti, brevi, intensivi, in una sorta d’interna respirazione, non solo è condotto vicino alla soglia della demateriazione, dell’inconsistenza fisica, non solo si deposita per cellularità lievi, a sottrarre ogni sospetto di tegumento d’un altro spazio: esso si dice densità e spazio in sé, e tempo del fare pittura che quello spazio determina e qualifica.
De Alexandris ingaggia una sorta di partita complessa con il colore, verificandone all’ultimo le implicazioni di sensibilità per sottrarre ogni suggestione naturale; portandolo a una sorta di disagio dolce nel tono, nella saturazione, nella luminosità, nella consistenza, affinché altro non nomini di sé che se stesso: un carattere.
Clima visivo e non altro è, certo, ma clima d’animo, a ridar fiato e intensità ai gestes blancs, agli atti del disincanto antico che si ritrovano, oggi, fondazione d’un pittorico possibile.
Vasari scriveva al tempo suo della “pratica dei colori” come di conoscenza fabrile. Oggi De Alexandris fa sua la pratica del colore come verifica continua, ancora interrogazione, al punto in cui il flusso mentale di fa cosa, ma laicamente, con un rigore che non ha da render conto, ignaro di mistiche e liturgie e sicumere intellettuali. E con un piacere evocante quella limpida “gioia della riflessione” che Mauro Reggiani distillava, in altri tempi e per altre astrazioni, nella pittura.
E c’è, su tutto, questo dichiararsi dell’immagine in sostanza continuamente indagata e continuamente, infine, trovata, dicibile.
Conferma che la misura poetica è intima al fare stesso, ove ci si ponga in ascolto d’essa, con umiltà, con intensità.