Gastini (parte seconda)
Marco Gastini. Disegno, commensuratio, et colorare, in Marco Gastini. Opere 1958 – 1983, catalogo, Galleria Civica, Modena, 26 marzo – 30 aprile 1983, Panini, Modena 1983 (seconda parte)
Preannunciate dall’intervento eseguito alla mostra “Objekte, Projekte, Pläne” alla galleria Verna di Zurigo, nel 1971, nelle personali del 1972 nascono opere intitolate Disegno 7+7 (galleria Flori, Firenze: dove viene realizzato anche quell’unicum che è Lavoro), 18×18/3 rossi + 1 (Salone Annunciata, Milano), 46 (Les Halles, Bruges) e altre. Si tratta, in senso proprio, di disegni su muro. Il termine disegno appare con molta frequenza nei titoli di quegli anni, fino al Wall Drawing replicato nel 1978 a Monaco di Baviera, alla galleria Walter Storms, sulla base di un progetto del 1971.

Gastini, 11-24, 1979
Sono partiture grafiche organizzate in griglia ortogonale, oppure in sequenza di linee parallele, sulle quali avviene una disseminazione di segni – tracciati brevi, di consistenza più corposa – secondo modalità analoghe a quelle delle macchie di piombo. L’ancoraggio tra intervento e supporto vi è come ulteriormente rappreso, eccita sulla membrana superficiale più sottili e pulsanti scarti di piano; l’“ideazione concreta” di Gastini trova un più naturale bilanciamento fra il senso del fare, tracciando, e l’analisi della complessa campionatura spaziale messa in luce. In taluni casi una lastra di plexiglas poggiata al muro ospita altri segni, induce un’ancor maggiore variabilità di lettura di relazione tra piani e piani, tra segni e segni.
Perché l’artista inserisce quella griglia, di memoria geometrica, sulla parete? Per inciderne la neutralità con una primaria articolazione di piani, per far emergere un ulteriore termine di profondità, di tensione spaziale, certo. Ma contemporaneamente, per saggiare più compiutamente la facoltà di porre-contraddire un ordine percettivo e strutturale dell’immagine, un codice progettuale. La trama grafica si suppone data secondo modalità di determinazione metrica: come se lo spazio potesse effettivamente assumer fisionomia stabile in virtù di questo schema, e rigenerarsi per successive concatenazioni logiche. In realtà, Gastini ne interpreta la possibilità, non l’evidenza, i connotati di transitorietà, non di staticità: come un sovrappiù di convenzione di cui mostrare lo sfinimento in sé, e la potenzialità di farsi vibrante ritmo interno dell’immagine, vettore energetico – ancora – di uno spazio altro.
Così le linee, così i punti, che in un notevole lavoro parietale Senza titolo, eseguito nel gennaio 1973 alla galleria Primo Piano di Roma, si assumono in toto il compito di presenze in grado di autodeterminare un’intensa corrente spaziale. Una prefigurazione, questa, degli eventi di cui il lavoro di Gastini sarà in seguito lucido protagonista. Contemporanee a queste esperienze sono altre, in cui l’artista sonda ‘in negativo’ lo spessore problematico messo in gioco dalle macchie su plexiglas (e da quell’isolata cera su plexiglas del 1970). Questa volta le lastrine, sole o in sequenza, vengono pensate come giustapposte al muro, a breve distanza, e graffite anche nella loro faccia posteriore (quella, cioè, vicina al muro) in modo che una chiazza stopposa, opaca, ne turbi il nitore superficiale e la profondità, l’estensione nella luce.

Gastini, Le tensioni esistono, vengono generate e si rigenerano in pittura, 1981-1982
Il suo apparire è quello di un grumo di materia/non materia nel punto proprio di scorrimento tra fisicità e virtualità. Immagine tra le più condensate e complesse, per qualità di spazio, nel panorama di ricerca di Gastini, eppure tra le più rarefatte e vicine a un ipotetico grado zero, alla primarietà genetica. Insieme, nel Progetto per parete esposto nel 1972 al Salone Annunciata, si fa strada un’ulteriore formulazione, una fine variante di quanto sin qui saggiato. È una sorta di porzione d’intonaco, di pelle di muro, applicata su un plexiglas, appeso a sua volta presso il muro, su cui avviene un minimo intervento parietale con una serie di segmenti retti e segni brevi. Ne nasce un cortocircuito scalare, un sapiente intrico di piani e dimensioni, capostipite di lavori analogamente impostati che si susseguono per qualche anno. Questo frammentare in via d’ambiguità l’ordine della visione, questo tentare circolarmente il senso dello spazio come instabilità, discontinuità, trama di tensioni e sedimentazioni d’azione pone – lo si è già accennato – fuor di luogo la questione della natura del supporto. Per effetto naturale, Gastini torna alla tela.
“… A quel punto sono stato portato alla tela intelaiata anche perché mi veniva bene accogliere certe regole che sono determinate dalla dimensione e dalla preparazione anche della tela, che venivano fuori da ciò che facevo. Ho trattato la tela come un pezzo di muro: se osservi, la preparazione va fino a un certo punto, i bordi sono lasciati liberi, quindi non diventano cornice, non chiudono un oggetto: c’è una continuità come può essere il muro e c’è la discontinuità. È una porzione di spazio che io ho dentro il mio studio, e che posso considerare a sé, muovere, penetrare…” (20). Negli anni tra il 1973 e il 1975 realizza vere e proprie sequenze di quadri, dipinti con colori acrilici, il cui punto d’abbrivio è da ricercare nel parietale Senza titolo del 1973, e che fanno da protagoniste delle numerose mostre di quel periodo. Il procedimento che Gastini vi attua è un’esplicita conseguenza dei recenti reticoli. Sulla superficie data – molto vasta, comunque una visione totale – organizza una trama regolare di punti uniformemente distribuiti. In seguito sovrappone un’altra griglia di punti percettivamente disorientati rispetto ai primi, di diversa e maggior consistenza grafica, la cui estensione ha confini incerti, discontinui: quantitativamente ridotta come in Acrilico n. 11 (1973), oppure proporzionata come nella triade Acrilico M1, M2, M3 del 1974. Altrimenti, nella sequenza iniziata nel 1974, non di punti ma di ordinati segmenti retti si tratta, sui quali scattano segmenti più lunghi e forti, di diverso sviluppo e dagli andamenti anche reciprocamente divaricati. È chiaro che, in questo momento, Gastini attribuisce importanza capitale alla qualità percettiva dell’immagine, tanto da ricorrere a ben calibrati effetti d’ambiguità. Le tensioni relative che si producono nel e dal quadro – più rigide quelle ottenute con i punti, più prolungate, espanse, articolate quelle attivate dalle linee – muovono un vedere fortemente sollecitato nella sua stessa capacità ma nella massima economia di segnali, senza interferenze fuorvianti. L’intensità che l’artista cerca potrebbe definirsi una complessità evidente, una discontinuità programmata sì, ma in modo che la sua proiezione inneschi un’autonoma moltiplicazione di scorrimenti di senso.

Gastini, Nefertiti, 1982
Il modello geometrico, ancora una volta, ha gran parte in queste esperienze. “… Sarà bene capirci, però. Per me la geometria esiste fino a quando prendo le misure tra un punto e l’altro e si ferma lì… non è un linguaggio, un fatto in se stesso. È un mezzo per fare un’altra cosa…” (21). Null’altro, dunque, che un métron interno all’immagine, funzionale certo, ma solo possibile, dotato di nessun’altra necessità. Mi è già capitato altrove di osservare come questo atteggiamento, di assunzione/contraddizione di tale convenzione visiva, richiami alla memoria le prese di posizione di Barnett Newman a proposito del “grip of geometry”. Con una precisazione di fondo, però. In genere, nell’area che anche da Newman ha preso le mosse e che è stata indicata come astrazione lirica, il passo è quello dell’iperdeterminazione espressiva dell’immagine, di una prioritaria (e talora splendida) ragione poetica. In Gastini – e in Griffa, il suo corrispettivo più vicino per gli anni di cui si ragiona – è invece in gioco un atteggiamento di neutralità emotiva, o meglio di partecipazione e distacco insieme che si determina e si esaurisce negli atti della pittura. Come di chi presti braccia e sensi alla pittura, che scelga di vivere fino in fondo questa complicità, vi riversi intero il proprio sentire, ma ben sapendo che dell’immagine non si può fare ciò che essa non vuole – e non può – essere. Di chi, insomma non presuma di trasferire un’esperienza in un’altra; e si cali invece in questa esperienza al grado massimo di rischio, di contraddizione.
Così, sicuramente, Gastini intende quando, nel 1976, parla di “… una continua emozione di fronte al progetto…” (22). D’altronde, va osservato che proprio le ultime stagioni del suo lavoro hanno compensato il grado di evidenza raggiunto grazie alla distillazione estrema dello stacco tra avvertimento e azione, alla messa in ombra di certe frequenze più direttamente fisiche e corporali. L’artista sente di dover mantenere questo stesso grado di intensità, di concentrazione, di lentezza anche del gesto, ma rimettendo in circolo tutte le valenze del fare, anche le più sottili e inafferrabili. A partire dal 1975 si dedica all’esecuzione di carte e tele in cui i due livelli grafici fin qui praticati assumono una fisionomia nuova. La tramatura superficiale si configura come una serie di trattini orizzontali, eseguiti a mano libera, la cui iterazione offre una gamma continua di irregolarità e varianze. Sopra si dispongono altri tracciati in caduta verticale, il cui ritmo e i cui andamenti seguono flussi di avvertimento totalmente liberi, fratti, divaganti. Nel già citato scritto del 1976 l’artista riflette: “… Negli ultimi lavori la concentrazione è sempre maggiore e l’azione è più costretta: e a mano a mano che scrivo un segno, lo spazio di tempo dell’azione è talmente lento che mi dà la possibilità di pensare al segno che sto tracciando e nello stesso tempo concentrarmi su tutte le cose collaterali che ci investono di continuo, attimo per attimo, e che assumono una importanza determinante nell’incidenza del tracciato…”. Sono opere come AYZ, con cui si presenta alla Biennale veneziana del 1976. Benché si tratti di realizzazioni di grande formato, va osservato che vi si verifica un preciso restringimento del campo d’immagine: la carta o la tela non presume più una totalità d’estensione, comincia a pensarsi invece come parcella di una totalità possibile e in qualche modo implicita. Altri sintomi spingono a questa considerazione. Il fatto, ad esempio, che Gastini si circoscriva a un uso preferenziale del disegno, la cui natura analitica e sintetica (23) consente l’equazione foglio/parete, il trascorrere senza soluzioni dalla spazialità progettuale (ove il progetto s’intenda, naturalmente, come enunciazione problematica di possibilità, e non preconfezione a freddo di figure visive) a quella concreta, indica che egli intende farsi carico di un processo in cui si dia conto anche delle pieghe più riposte del fare, di pulsazioni in atto e in potenza, omogenee benché diversamente apparenti.
Inoltre, la constatazione che da qualche tempo – nei segmenti retti, ma specialmente in quelli tracciati a mano libera – la disposizione è a tentare il confine della superficie data, suggerendo un’ulteriore espansione e uno scarto dialogico tra questa e quella d’appoggio, fa supporre che l’opera tende a configurarsi come pausa di una transitorietà, che l’immagine si dichiara senza veli come sedimento momentaneo di una mutanza continua, spazio totalmente instabile, corpo puntuale d’energia. Che la questione impellente, ora, sia quella di una convocazione e di una attivazione simultanea della spazialità introversa e di quella estroversa alla superficie, in virtù delle tensioni che i segni vi generano, appare evidente dai lavori successivi, da 9 carte, esposto alla E Tre di Roma nel 1977, a Project (44 Units), da John Weber a New York nello stesso anno, a I primi 119 cm di parete in una collettiva alla Tartaruga di Roma e nel 1978 da Banco a Brescia: qualificazioni di spazio dotate di un intrinseco grado d’intensità, ma anche vettori di infiniti altri spazi possibili.
La venuta a maturazione di queste riflessioni, che sono anche un approfondito à rebours in tutta la ricerca fin qui svolta, si registra nella personale allo studio Grossetti del 1978 (24). A cominciare dal titolo complessivo, che è Segni e (altri) spazi. La dimensione parietale, che Gastini non frequenta ormai da qualche anno (eccezion fatta per la mostra alla Cirrus Gallery di Los Angeles, nel 1975, dove un lavoro a segmenti retti è tradotto direttamente sul muro), è richiamata in gioco, ma in maniera affatto nuova. In Paesaggio sono sei carte disegnate e dimezzate che, allineandosi ai due bordi verticali del muro, espandono la loro presenza sotto forma di filamenti grafici, a istituire un’equivalenza/alterità tra foglio e parete, tra progetto e lavoro. Scrive Gastini: “… è lo spazio di questi supporti e del muro in questione che mi interessa – lo spazio racchiuso dai lati – le storie che ci sono già all’interno, originalmente, che incidono; la pittura esiste già nello spazio di un muro…” (25). Pittura presenta contemporaneamente una ricca articolazione materiale. Le carte perlacee incollate sulla tela (non intelaiata, questa volta, a sovrapporre un’altra pellicola allo spazio convenzionale del muro), l’elemento in ferro, il filamento in piombo e antimonio che traversa come una corrente l’intera immagine, conducono la concatenazione di sconfinamenti e scambi spaziali verso ulteriori poli di tensione: tra le diverse quantità visive tradotte in concreto, tra le estensioni differenti delle movenze di pittura e di segno.
Queste due opere sono per molti versi emblematiche della stagione cui l’artista va aprendosi. Venute meno le più caduche implicanze rigoristiche della fase precedente, egli ritrova la frenesia febbrile che ne aveva contraddistinto gli anni 1967-1972, quell’ansia di porre sul tappeto la totale sostanza problematica della propria ricerca, senza rinunce, senza cautele. Il segno disegnato, breve o prolungato, esile o sostanzioso, e quello dipinto nel bianco perlaceo che gli è tipico (“l’azione non ha colore …”, dichiara Gastini in un’intervista (26)), e quello che prende corpo nei filamenti di piombo e antimonio; lo spazio del foglio di carta e dei suoi frammenti, e della tela senza telaio, dai confini già suggestivamente virtuali, e del muro, nella loro gamma infinita di sovrapposizioni e scarti di piano ai limiti dell’impalpabile; agli innesti materiali, dei filamenti ma anche delle barre di ferro, e poi (da Paesaggio II, presentato da John Weber nel 1979) dei frammenti di croste di gesso, e di ciocchi e radici lignee (11/24 senza titolo, allo studio G7 di Bologna, 1979), e di pergamene e membrane (da Presenza sempre esistita del 1979 alle installazioni al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, da Storms a Villingen a da Verna a Zurigo, tutte del 1980): tutto concorre circolarmente a una pratica che, anziché per riduzione, si attui per via di apposizione dei segnali, di ricerca continua del massimo grado di complessità dell’immagine.
Senza ridondanze però, con l’attenzione a non incorrere negli artifici dell’esercizio scaltrito della maniera. A Gastini importa far scaturire una sorta di “stato di grazia” del dipingere, una dimensione di prestigio e di eleganza visiva che sia a un tempo frutto di secchezza, di decantazione, di intensità senza attributi. L’evidenza che egli cerca non è d’impatto, di pura presenza, ma lievita man mano che la lettura entra in consonanza con la frequenza pendolare dell’immagine, con quel pulsare continuo di espansioni e condensazioni che ne è la sostanza stessa. E che si genera negli andamenti fratti della concentrazione e della disseminazione, della densità e della fluidità, del sedimento e dell’irradiazione, della tensione per rarefazione e del peso per accumulazione: “come di un respiro che preme nei polmoni”, recita, riprendendo un’espressione dell’artista, il titolo del già citato libro di Trini, in cui si legge tra l’altro: “… Gastini ha concepito e concepisce la totalità del processo dell’arte al pari di un organismo vivente la cui vita è data – non dalle proprietà di una qualche ‘sostanza vivente’ – ma dalla somma delle azioni reciproche in atto fra i singoli processi degli elementi che organizzano l’insieme…” (27).
Il punto di massima felicità di questa immersione nelle fluttuazioni mutanti della pittura si verifica in … l’ala della pittura, presentata al Karmeliter-Klosters di Francoforte nel maggio 1981 e nella personale alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel febbraio 1982. La misura è inusitatamente vasta, e dialoga primariamente con la sostanza minuta, squisitamente rappresa degli accadimenti pittorici, la cui dinamica interna è quella di un’onda lunga montante con potente pienezza. Candide e lucenti, intonate con sapienza da minime presenze di colore, le pennellate si depositano per gesti brevi, increspano la superficie della tela con una tramatura sempre più fitta, senza turgori, di rifrazioni e addensamenti. La distanza fra i due estremi di scala è polare. Ancora una volta, il ragionar facendo di Gastini è sollecitato a organizzare una qualità percettiva non ordinaria. Annotando gli studi preparatori egli scrive: “… non si può vedere solo una parte, è come una febbre: si vede tutto e solo una piccola parte contemporaneamente – è come una vertigine: l’immersione è questo…” (28).
Immersione, cioè assorbimento della lettura in consonanza con la molteplicità – senza soluzioni – di figure spaziali interagenti che danno corpo all’immagine: la quale è una totalità che continuamente fa affiorare e trascolorare la varietà complessa degli elementi additivi che la costituiscono, in assenza di cerniere strutturali stabili.
“… Inizio e fine sono fuori…”, avverte Gastini. Gli andamenti dei segni neri disegnati, sulla parete intorno alla tela, ne intensificano i vettori di espansione, ne suggeriscono e amplificano il limite di virtualità dimensionale. I filamenti di stagno, concrezioni di gesto sopra la pittura, conducono la modulazione superficiale al punto di risonanza, fungendo insieme da parametri d’avvertimento della gamma di incroci di piano che, ancora una volta, conferisce orizzonte e profondità all’immagine. Le pergamene, raccolte come inquiete presenze plastiche nel punto probabile di convergenza e fuga delle radiazioni energetiche della pittura, sono, come scrive Castagnoli nella bella disamina dell’opera, “… forme in grado di plasmare lo spazio e di condensarlo al proprio interno: diverse dalla pittura, come può esserlo un fatto di natura plastica – il riferimento alla scultura vi è esplicito e diretto –, in forza di questa differenza apertamente dichiarata asseriscono l’estraneità della pittura alla dimensione spaziale dell’ambiente, nella quale invece esse si proiettano e in tal modo ne circoscrivono l’appartenenza ai confini assegnati alla superficie…” (29). Con questa vera e propria summa di anni di lavoro nel corpo della pittura, Gastini si schiude la vita di una maturità espressiva piena, solare, senza complessi di sorta. Il gesto è ormai presente a se stesso come concreto generatore di tensione, lo spazio dell’immagine vive l’ebbrezza di essere infiniti spazi insieme, concrezione puntuale di eccitati scambi dinamici.
A ridosso de …l’ala della pittura nascono altre opere, come Il peso della pelle, presentata nella personale al Salone Villa Romana di Firenze, nell’ottobre 1981, Blu oltremare e Irradiante grezzo. In Il peso della pelle figura nuovamente un ciocco di legno con inserti di stagno pergamena e colore, com’era accaduto in 11/24 senza titolo. Il nucleo plastico, però, qui misura la propria assertività con una tela intelaiata poggiata al muro, la cui espansione superficiale è dunque costretta, più fisicamente circoscritta che altrove. La pittura che la anima è fatta di pennellate bianche irregolarmente orientate e distribuite, ora sovrapposte ora sottoposte a fluidi tracciati a carboncino. Ancora filamenti di stagno e inserti di colore blu ne intensificano le movenze, in una sorta di brulichio febbrile. Blu oltremare, per molti versi pittoricamente affine, presenta i filamenti di stagno disposti a innescare l’eccedenza centrifuga dalla soglia della tela, e la novità importante di una banda laterale blu ben marcata, a istituire anche un differenziale coloristico inusitatamente forte. In Irradiante grezzo, esposta nel marzo 1982 alla Galleria d’arte moderna di Bologna in “Registrazione di frequenze”, pure animata da gesti pittorici espressi in felice discontinuità, è il rettangolo del supporto che assume una consistenza sensibile e coloristica più marcata grazie all’adozione della tela grezza. Tali lavori indicano i sondaggi di Gastini verso un’ulteriore transizione.
… l’ala della pittura ha avuto, per lui, una funzione catartica. Il controllo concentratissimo del fare e le implicanze analitiche ormai sono automatismi, nel suo processo. Inoltre – e in conseguenza – l’atteggiamento di nitida neutralità emotiva fin qui tenuto ha perso in parte ragion d’essere. Le tensioni della pittura sono anche le emozioni della pittura, i suoi umori: “… mano a mano che la pittura si dipinge si raggruma, si innervosisce e si tende e inspessisce come un cielo che mosso da mille venti cambia di umore…” (30). Gastini avverte la possibilità di connaturare il proprio vitalismo di fondo a questa prospettiva che si schiude e a un tempo richiama uno dei nodi del suo lavoro degli esordi. L’uso “colorico” dei materiali (31) di per sé non basta, in tal senso, e il sempre più frequente affioramento di tracce colorate negli ultimi lavori ne è un sintomo eloquente. Le emozioni della pittura sono nel colore, nella sua gamma senza fine di intensità e varianze possibili. S’è detto il colore, e non i colori: ché l’unica qualità di rapporti che Gastini annette al darsi della pittura non è fatta di timbri e toni ma – ormai è chiaro – di correnti dinamiche, di pulsazioni dell’azione-pittura.
È il blu, dapprima, con frequenze da cupe a elettriche, a farsi strada nelle opere che nascono. Come Le tensioni esistono…, esposta allo studio G7 nel febbraio 1982 e in giugno alla Biennale di Venezia, e poi la variante dello stesso titolo presentata poco dopo da John Weber.
L’immersione nella pittura vi è ormai totale, senza remore. Nonostante l’irregolarità e l’estroflessione dei bordi della tela, il flusso degli accadimenti pittorici prende un corso introverso, tenta una vertigine del vedere di segno diverso. La superficie è invasa da stesure a gesti brevi e aggressivi, che intersecano il sottile variare d’intensità del blu con sovrapposizioni molteplici, come vibrazioni nervose. I segni neri, a carboncino, lunghi e filamentosi ma altrettanto secchi e urgenti, ora planano su questa pelle e ora ne intaccano, incidendola, la già sovreccitata tensione. In luogo dei filamenti di stagno, il cui squillo risuonerebbe con troppa grazia, sono ora carrube a varcare il confine della reificazione del segno, a porsi come elementi altri che individuano la superficie e la richiamano a se stessa. Il feeling di Gastini, che prima intesseva precise tramature spaziali, ora emulsiona lo svariare dei piani, lo rende profondità magmatica animata da aggallamenti e assorbimenti senza sosta.
Non che, intendiamoci, egli abbia consegnato alle viscere il dominio del proprio braccio. Semmai, il suo sondare instancabile nuove campionature di spazio si è arricchito della verifica dei comportamenti del colore, dei suoi stati d’intensità: del resto, se è vero che ogni materia, per Bachelard, possiede un’intimità, non può non essere vero che un’intimità spetta altrettanto alla sostanza primaria della pittura, il colore. Che in Gastini torni a farsi ben presente, in questo momento, la duplice equazione colore-materia e materia-memoria (laddove la memoria sia quella stessa della pittura, del suo sedimento storico) che era nel codice genetico dei lombi informali da cui è nato il suo lavoro, è fuor di dubbio. Ma ciò avviene dopo anni di severa pratica e di consapevolezze inalienabili, che è a dire a un punto di felice non-ritorno. Non si spiegherebbero altrimenti, nei lavori degli ultimi mesi del 1982 e di questo inizio 1983 (la prima uscita pubblica è di un Senza titolo esposto alla Hayward Gallery di Londra in “Arte italiana 1960-82”), i neri vellutati, luminosi, o ancora secchi che compaiono in Grande nero e in Dittico AB. E neppure i lucori di grigio perlaceo su cui si stagliano gli altri grigi più intensi, e i lampi neri dei segni tracciati o graffiti, su cui poggiano carboni e carrube, e da cui prendon respiro i bagliori lividi dei cospicui inserti metallici, di opere come Nefertiti e Grigia immersione. Tempeste, verrebbe da dire, ma tempeste magnetiche, di quelle in cui lo sguardo è costretto a mutamenti frenetici d’orientamento, e di fuoco, e di campo, a prospettive anche centripete, ora, ma non meno tese, non meno instabili.
Non c’è turgore di paste, in questi dipinti, o grondare di materie. Certi rigurgiti di pittura hard (“un hard-rock è un’ossessione senza orgasmo mentale”, ama dire Zeno Birolli) non toccano Gastini, come non l’hanno intaccato i pruriti cerebrali della pittura anemica di alcuni anni fa. Dipinge di trasparenza, di grazia, d’eleganza anche quando – sornionamente – chiama in causa una messe di quantità visive che parrebbero sovrastarlo, e che invece subito trovano assetti e interazioni puramente qualitative, filtrate, senza grevità. È ancora una nuova, fertile stagione che si apre a Gastini, tra quante attendono la sua ricca maturità.
Note. 20) Gastini in Fossati, 1974, cit. 21) Gastini in Fossati 1974, cit. 22) Gastini, Credo che il lavoro di un artista…, in Marco Gastini, in “Flash art”, n. 66-67, Milano, luglio-agosto 1976, p. 24. 23) Cfr. Castagnoli 1979, cit., p. 6. 24) Per una documentazione dettagliata delle opere di Gastini tra il 1978 e il 1980, e per i relativi testi dell’artista, cfr. Trini 1981, cit. 25) Gastini in Trini 1981, cit., n. 1 /2. 26) F. De Bortoli, Il senso dello spazio, in “Corriere d’Informazione”, Milano, 27 dicembre 1978, p. 12. 27) Trini 1981, cit., p. 16. 28) Gastini in Castagnoli 1981, cit. 29) Castagnoli 1981, cit. 30) Gastini in Castagnoli 1981, cit. 31) Cfr. la nota n. 3.