Marco Gastini. Disegno, commensuratio, et colorare, in Marco Gastini. Opere 1958 – 1983, catalogo, Galleria Civica, Modena, 26 marzo – 30 aprile 1983, Panini, Modena 1983 (seconda parte)

Preannunciate dall’intervento esegui­to alla mostra “Objekte, Projekte, Pläne” alla galleria Verna di Zurigo, nel 1971, nelle personali del 1972 nasco­no opere intitolate Disegno 7+7 (galleria Flori, Firenze: dove viene realizzato anche quell’unicum che è Lavoro), 18×18/3 rossi + 1 (Salone Annunciata, Milano), 46 (Les Halles, Bruges) e altre. Si tratta, in senso proprio, di disegni su muro. Il termine disegno appare con molta frequenza nei titoli di quegli anni, fino al Wall Drawing replicato nel 1978 a Monaco di Bavie­ra, alla galleria Walter Storms, sulla base di un progetto del 1971.

Gastini, 11-24, 1979

Gastini, 11-24, 1979

Sono partiture grafiche organizzate in gri­glia ortogonale, oppure in sequenza di linee parallele, sulle quali avviene una disseminazione di segni – trac­ciati brevi, di consistenza più corpo­sa – secondo modalità analoghe a quelle delle macchie di piombo. L’ancoraggio tra intervento e suppor­to vi è come ulteriormente rappreso, eccita sulla membrana superficiale più sottili e pulsanti scarti di piano; l’“ideazione concreta” di Gastini tro­va un più naturale bilanciamento fra il senso del fare, tracciando, e l’anali­si della complessa campionatura spa­ziale messa in luce. In taluni casi una lastra di plexiglas poggiata al muro ospita altri segni, induce un’ancor maggiore variabilità di lettura di re­lazione tra piani e piani, tra segni e segni.

Perché l’artista inserisce quella gri­glia, di memoria geometrica, sulla parete? Per inciderne la neutralità con una primaria articolazione di piani, per far emergere un ulteriore termine di profondità, di tensione spaziale, certo. Ma contemporanea­mente, per saggiare più compiuta­mente la facoltà di porre-contraddire un ordine percettivo e strutturale dell’immagine, un codice progettua­le. La trama grafica si suppone data secondo modalità di determinazione metrica: come se lo spazio potesse effettivamente assumer fisionomia sta­bile in virtù di questo schema, e rige­nerarsi per successive concatenazioni logiche. In realtà, Gastini ne inter­preta la possibilità, non l’evidenza, i connotati di transitorietà, non di sta­ticità: come un sovrappiù di convenzione di cui mostrare lo sfinimento in sé, e la potenzialità di farsi vibrante ritmo interno dell’immagine, vettore energetico – ancora – di uno spazio altro.

Così le linee, così i punti, che in un notevole lavoro parietale Senza titolo, eseguito nel gennaio 1973 alla galleria Primo Piano di Roma, si assumono in toto il compito di pre­senze in grado di autodeterminare un’intensa corrente spaziale. Una prefigurazione, questa, degli eventi di cui il lavoro di Gastini sarà in segui­to lucido protagonista. Contemporanee a queste esperienze sono altre, in cui l’artista sonda ‘in negativo’ lo spessore problematico messo in gioco dalle macchie su ple­xiglas (e da quell’isolata cera su ple­xiglas del 1970). Questa volta le lastri­ne, sole o in sequenza, vengono pen­sate come giustapposte al muro, a breve distanza, e graffite anche nella loro faccia posteriore (quella, cioè, vicina al muro) in modo che una chiazza stopposa, opaca, ne turbi il nitore superficiale e la profondità, l’estensione nella luce.

Gastini, Le tensioni esistono, vengono generate e si rigenerano in pittura, 1981-1982

Gastini, Le tensioni esistono, vengono generate e si rigenerano in pittura, 1981-1982

Il suo apparire è quello di un grumo di materia/non materia nel punto proprio di scorrimento tra fisicità e virtualità. Immagine tra le più condensate e complesse, per qualità di spazio, nel panorama di ricerca di Gastini, eppure tra le più rarefatte e vicine a un ipote­tico grado zero, alla primarietà geneti­ca. Insieme, nel Progetto per parete esposto nel 1972 al Salone An­nunciata, si fa strada un’ulteriore formulazione, una fine variante di quanto sin qui saggiato. È una sorta di porzione d’intonaco, di pelle di muro, applicata su un plexiglas, ap­peso a sua volta presso il muro, su cui avviene un minimo intervento parietale con una serie di segmenti retti e segni brevi. Ne nasce un corto­circuito scalare, un sapiente intrico di piani e dimensioni, capostipite di lavori analogamente impostati che si susseguono per qualche anno. Questo frammentare in via d’ambi­guità l’ordine della visione, questo tentare circolarmente il senso dello spazio come instabilità, discontinui­tà, trama di tensioni e sedimentazio­ni d’azione pone – lo si è già accen­nato – fuor di luogo la questione del­la natura del supporto. Per effetto naturale, Gastini torna alla tela.

“… A quel punto sono stato portato alla tela intelaiata anche perché mi veniva bene accogliere certe regole che sono determinate dalla dimen­sione e dalla preparazione anche del­la tela, che venivano fuori da ciò che facevo. Ho trattato la tela come un pezzo di muro: se osservi, la prepara­zione va fino a un certo punto, i bor­di sono lasciati liberi, quindi non di­ventano cornice, non chiudono un oggetto: c’è una continuità come può essere il muro e c’è la discontinuità. È una porzione di spazio che io ho dentro il mio studio, e che posso considerare a sé, muovere, penetrare…” (20). Negli anni tra il 1973 e il 1975 realizza vere e proprie sequenze di quadri, di­pinti con colori acrilici, il cui punto d’abbrivio è da ricercare nel parietale Senza titolo del 1973, e che fanno da protagoniste delle numerose mostre di quel periodo. Il procedimento che Gastini vi attua è un’esplicita conseguenza dei recen­ti reticoli. Sulla superficie data – molto vasta, comunque una visione totale­ – organizza una trama regolare di pun­ti uniformemente distribuiti. In se­guito sovrappone un’altra griglia di punti percettivamente disorientati ri­spetto ai primi, di diversa e maggior consistenza grafica, la cui estensione ha confini incerti, discontinui: quantitativamente ridotta come in Acrili­co n. 11 (1973), oppure proporzionata come nella triade Acrilico M1, M2, M3 del 1974. Altrimenti, nella sequenza iniziata nel 1974, non di punti ma di ordinati segmenti retti si tratta, sui quali scat­tano segmenti più lunghi e forti, di diverso sviluppo e dagli andamenti anche reciprocamente divaricati. È chiaro che, in questo momento, Gastini attribuisce importanza capi­tale alla qualità percettiva dell’im­magine, tanto da ricorrere a ben cali­brati effetti d’ambiguità. Le tensioni relative che si producono nel e dal quadro – più rigide quelle ottenute con i punti, più prolungate, espanse, articolate quelle attivate dalle linee – muovono un vedere fortemente sollecitato nella sua stessa capacità ma nella massima economia di segnali, senza interferenze fuorvianti. L’intensità che l’artista cerca potreb­be definirsi una complessità eviden­te, una discontinuità programmata sì, ma in modo che la sua proiezione inneschi un’autonoma moltiplicazio­ne di scorrimenti di senso.

Gastini, Nefertiti, 1982

Gastini, Nefertiti, 1982

Il modello geometrico, ancora una volta, ha gran parte in queste espe­rienze. “… Sarà bene capirci, però. Per me la geometria esiste fino a quando prendo le misure tra un pun­to e l’altro e si ferma lì… non è un linguaggio, un fatto in se stesso. È un mezzo per fare un’altra cosa…” (21). Null’altro, dunque, che un métron interno all’immagine, funzionale cer­to, ma solo possibile, dotato di nes­sun’altra necessità. Mi è già capitato altrove di osservare come questo at­teggiamento, di assunzione/contrad­dizione di tale convenzione visiva, richiami alla memoria le prese di posizione di Barnett Newman a propo­sito del “grip of geometry”. Con una precisazione di fondo, però. In gene­re, nell’area che anche da Newman ha preso le mosse e che è stata indi­cata come astrazione lirica, il pas­so è quello dell’iperdeterminazione espressiva dell’immagine, di una prioritaria (e talora splendida) ragio­ne poetica. In Gastini – e in Griffa, il suo corrispettivo più vicino per gli anni di cui si ragiona – è invece in gioco un atteggiamento di neutralità emotiva, o meglio di partecipazione e distacco insieme che si determina e si esaurisce negli atti della pittura. Come di chi presti braccia e sensi alla pittura, che scelga di vivere fino in fondo questa complicità, vi riversi intero il proprio sentire, ma ben sa­pendo che dell’immagine non si può fare ciò che essa non vuole – e non può – essere. Di chi, insomma non presuma di trasferire un’esperienza in un’altra; e si cali invece in questa esperienza al grado massimo di ri­schio, di contraddizione.

Così, sicuramente, Gastini intende quando, nel 1976, parla di “… una continua emozione di fronte al pro­getto…” (22). D’altronde, va osservato che proprio le ultime stagioni del suo lavoro hanno compensato il grado di evidenza raggiunto grazie alla distil­lazione estrema dello stacco tra av­vertimento e azione, alla messa in ombra di certe frequenze più diretta­mente fisiche e corporali. L’artista sente di dover mantenere questo stesso grado di intensità, di concentrazione, di lentezza anche del gesto, ma rimettendo in circolo tutte le valenze del fare, anche le più sotti­li e inafferrabili. A partire dal 1975 si dedica all’esecuzione di carte e tele in cui i due livelli grafici fin qui pra­ticati assumono una fisionomia nuova. La tramatura superficiale si confi­gura come una serie di trattini oriz­zontali, eseguiti a mano libera, la cui iterazione offre una gamma continua di irregolarità e varianze. Sopra si di­spongono altri tracciati in caduta verticale, il cui ritmo e i cui anda­menti seguono flussi di avvertimento totalmente liberi, fratti, divaganti. Nel già citato scritto del 1976 l’artista riflette: “… Negli ultimi lavori la concentrazione è sempre maggiore e l’azione è più costretta: e a mano a mano che scrivo un segno, lo spazio di tempo dell’azione è talmente lento che mi dà la possibilità di pensare al segno che sto tracciando e nello stesso tempo concentrarmi su tutte le cose collaterali che ci investono di continuo, attimo per attimo, e che assumono una importanza determi­nante nell’incidenza del traccia­to…”. Sono opere come AYZ, con cui si presenta alla Bien­nale veneziana del 1976. Benché si tratti di realizzazioni di grande formato, va osservato che vi si verifica un preciso restringimento del campo d’immagine: la carta o la tela non presume più una totalità d’estensione, comincia a pensarsi in­vece come parcella di una totalità possibile e in qualche modo implici­ta. Altri sintomi spingono a questa considerazione. Il fatto, ad esempio, che Gastini si circoscriva a un uso preferenziale del disegno, la cui natura analitica e sin­tetica (23) consente l’equazione foglio/parete, il trascorrere senza soluzioni dalla spazialità progettuale (ove il progetto s’intenda, naturalmente, come enunciazione problematica di possibilità, e non preconfezione a freddo di figure visive) a quella con­creta, indica che egli intende farsi ca­rico di un processo in cui si dia conto anche delle pieghe più riposte del fare, di pulsazioni in atto e in poten­za, omogenee benché diversamente apparenti.

Inoltre, la constatazione che da qual­che tempo – nei segmenti retti, ma specialmente in quelli tracciati a mano libera – la disposizione è a ten­tare il confine della superficie data, suggerendo un’ulteriore espansione e uno scarto dialogico tra questa e quella d’appoggio, fa supporre che l’opera tende a configurarsi come pausa di una transitorietà, che l’im­magine si dichiara senza veli come sedimento momentaneo di una mu­tanza continua, spazio totalmente in­stabile, corpo puntuale d’energia. Che la questione impellente, ora, sia quella di una convocazione e di una attivazione simultanea della spazia­lità introversa e di quella estroversa alla superficie, in virtù delle tensioni che i segni vi generano, appare evi­dente dai lavori successivi, da 9 car­te, esposto alla E Tre di Roma nel 1977, a Project (44 Units), da John Weber a New York nello stesso anno, a I primi 119 cm di parete in una collet­tiva alla Tartaruga di Roma e nel 1978 da Banco a Brescia: qualificazioni di spazio dotate di un intrinseco grado d’intensità, ma anche vettori di infiniti altri spazi possibili.

La venuta a maturazione di queste riflessioni, che sono anche un appro­fondito à rebours in tutta la ricerca fin qui svolta, si registra nella perso­nale allo studio Grossetti del 1978 (24). A cominciare dal titolo complessivo, che è Segni e (altri) spazi. La dimen­sione parietale, che Gastini non frequenta ormai da qualche anno (ecce­zion fatta per la mostra alla Cirrus Gallery di Los Angeles, nel 1975, dove un lavoro a segmenti retti è tradotto direttamente sul muro), è richiamata in gioco, ma in maniera affatto nuova. In Paesaggio sono sei carte disegnate e dimezzate che, allineandosi ai due bordi verticali del muro, espandono la loro presenza sotto forma di filamenti grafici, a isti­tuire un’equivalenza/alterità tra fo­glio e parete, tra progetto e lavoro. Scrive Gastini: “… è lo spazio di questi supporti e del muro in que­stione che mi interessa – lo spazio racchiuso dai lati – le storie che ci sono già all’interno, originalmente, che incidono; la pittura esiste già nello spazio di un muro…” (25). Pittura presenta contem­poraneamente una ricca articolazio­ne materiale. Le carte perlacee incol­late sulla tela (non intelaiata, questa volta, a sovrapporre un’altra pellico­la allo spazio convenzionale del muro), l’elemento in ferro, il fila­mento in piombo e antimonio che traversa come una corrente l’intera immagine, conducono la concatena­zione di sconfinamenti e scambi spa­ziali verso ulteriori poli di tensione: tra le diverse quantità visive tradotte in concreto, tra le estensioni differen­ti delle movenze di pittura e di se­gno.

Queste due opere sono per molti ver­si emblematiche della stagione cui l’artista va aprendosi. Venute meno le più caduche implicanze rigoristi­che della fase precedente, egli ritrova la frenesia febbrile che ne aveva con­traddistinto gli anni 1967-1972, quel­l’ansia di porre sul tappeto la totale sostanza problematica della propria ricerca, senza rinunce, senza caute­le. Il segno disegnato, breve o prolunga­to, esile o sostanzioso, e quello dipin­to nel bianco perlaceo che gli è tipico (“l’azione non ha colore …”, dichiara Gastini in un’intervista (26)), e quello che prende corpo nei filamen­ti di piombo e antimonio; lo spazio del foglio di carta e dei suoi fram­menti, e della tela senza telaio, dai confini già suggestivamente virtuali, e del muro, nella loro gamma infini­ta di sovrapposizioni e scarti di pia­no ai limiti dell’impalpabile; agli innesti materiali, dei filamenti ma anche delle barre di fer­ro, e poi (da Paesaggio II, presentato da John Weber nel 1979) dei frammenti di croste di gesso, e di ciocchi e radici lignee (11/24 senza titolo, allo studio G7 di Bologna, 1979), e di perga­mene e membrane (da Presenza sem­pre esistita del 1979 alle installazioni al Centre d’Art Contemporain di Gine­vra, da Storms a Villingen a da Verna a Zurigo, tutte del 1980): tutto concorre circo­larmente a una pratica che, anziché per riduzione, si attui per via di appo­sizione dei segnali, di ricerca conti­nua del massimo grado di complessità dell’immagine.

Senza ridondanze però, con l’atten­zione a non incorrere negli artifici dell’esercizio scaltrito della maniera. A Gastini importa far scaturire una sorta di “stato di grazia” del dipingere, una dimensione di prestigio e di ele­ganza visiva che sia a un tempo frut­to di secchezza, di decantazione, di intensità senza attributi. L’evidenza che egli cerca non è d’im­patto, di pura presenza, ma lievita man mano che la lettura entra in consonanza con la frequenza pendo­lare dell’immagine, con quel pulsare continuo di espansioni e condensa­zioni che ne è la sostanza stessa. E che si genera negli andamenti fratti della concentrazione e della disseminazione, della densità e della fluidità, del sedimento e dell’irradiazione, della tensione per rarefazione e del peso per accumulazione: “come di un respiro che preme nei polmoni”, recita, riprendendo un’espressione dell’artista, il titolo del già citato li­bro di Trini, in cui si legge tra l’altro: “… Gastini ha concepito e concepi­sce la totalità del processo dell’arte al pari di un organismo vivente la cui vita è data – non dalle proprietà di una qualche ‘sostanza vivente’ – ma dalla somma delle azioni reciproche in atto fra i singoli processi degli ele­menti che organizzano l’insieme…” (27).

Il punto di massima felicità di questa immersione nelle fluttuazioni mu­tanti della pittura si verifica in l’ala della pittura, presentata al Karmeliter-Klo­sters di Francoforte nel maggio 1981 e nella personale alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel febbraio 1982. La misura è inusitatamente vasta, e dialoga primariamente con la sostan­za minuta, squisitamente rappresa degli accadimenti pittorici, la cui dinamica interna è quella di un’onda lunga montante con potente pienez­za. Candide e lucenti, intonate con sapienza da minime presenze di co­lore, le pennellate si depositano per gesti brevi, increspano la superficie della tela con una tramatura sempre più fitta, senza turgori, di rifrazioni e addensamenti. La distanza fra i due estremi di scala è polare. Ancora una volta, il ragio­nar facendo di Gastini è sollecitato a organizzare una qualità percettiva non ordinaria. Annotando gli studi preparatori egli scrive: “… non si può vedere solo una parte, è come una febbre: si vede tutto e solo una piccola parte contemporaneamente – è come una vertigine: l’immersione è questo…” (28).

Immersione, cioè assorbimento della lettura in consonanza con la molte­plicità – senza soluzioni – di figure spaziali interagenti che danno corpo all’immagine: la quale è una totalità che continuamente fa affiorare e tra­scolorare la varietà complessa degli elementi additivi che la costituiscono, in assenza di cerniere strutturali stabili.

“… Inizio e fine sono fuori…”, av­verte Gastini. Gli andamenti dei se­gni neri disegnati, sulla parete intor­no alla tela, ne intensificano i vettori di espansione, ne suggeriscono e amplificano il limite di virtualità dimensionale. I filamenti di stagno, concrezioni di gesto sopra la pittura, conducono la modulazione superfi­ciale al punto di risonanza, fungendo insieme da parametri d’avvertimento della gamma di incroci di piano che, ancora una volta, conferisce orizzon­te e profondità all’immagine. Le per­gamene, raccolte come inquiete pre­senze plastiche nel punto probabile di convergenza e fuga delle radiazio­ni energetiche della pittura, sono, come scrive Castagnoli nella bella di­samina dell’opera, “… forme in gra­do di plasmare lo spazio e di conden­sarlo al proprio interno: diverse dalla pittura, come può esserlo un fatto di natura plastica – il riferimento alla scultura vi è esplicito e diretto –, in forza di questa differenza apertamen­te dichiarata asseriscono l’estraneità della pittura alla dimensione spaziale dell’ambiente, nella quale invece esse si proiettano e in tal modo ne circo­scrivono l’appartenenza ai confini assegnati alla superficie…” (29). Con questa vera e propria summa di anni di lavoro nel corpo della pittu­ra, Gastini si schiude la vita di una maturità espressiva piena, solare, senza complessi di sorta. Il gesto è ormai presente a se stesso come con­creto generatore di tensione, lo spa­zio dell’immagine vive l’ebbrezza di essere infiniti spazi insieme, concre­zione puntuale di eccitati scambi di­namici.

A ridosso de …l’ala della pittura nascono altre opere, come Il peso della pelle, presentata nella personale al Salone Villa Ro­mana di Firenze, nell’ottobre 1981, Blu oltremare e Irradiante grezzo. In Il peso della pelle figura nuova­mente un ciocco di legno con inserti di stagno pergamena e colore, com’e­ra accaduto in 11/24 senza titolo. Il nucleo plastico, però, qui misura la propria assertività con una tela inte­laiata poggiata al muro, la cui espan­sione superficiale è dunque costretta, più fisicamente circoscritta che altro­ve. La pittura che la anima è fatta di pennellate bianche irregolarmente orientate e distribuite, ora sovrappo­ste ora sottoposte a fluidi tracciati a carboncino. Ancora filamenti di stagno e inserti di colore blu ne intensi­ficano le movenze, in una sorta di brulichio febbrile. Blu oltremare, per molti versi pitto­ricamente affine, presenta i filamenti di stagno disposti a innescare l’ecce­denza centrifuga dalla soglia della tela, e la novità importante di una banda laterale blu ben marcata, a istituire anche un differenziale colo­ristico inusitatamente forte. In Irradiante grezzo, esposta nel marzo 1982 alla Galleria d’arte moder­na di Bologna in “Registrazione di frequenze”, pure animata da gesti pittorici espressi in felice disconti­nuità, è il rettangolo del supporto che assume una consistenza sensibile e coloristica più marcata grazie all’adozione della tela grezza. Tali lavori indicano i sondaggi di Gastini verso un’ulteriore transizio­ne.

… l’ala della pittura ha avuto, per lui, una funzione catartica. Il controllo concentratissimo del fare e le implicanze analitiche ormai sono automatismi, nel suo processo. Inol­tre – e in conseguenza – l’atteggia­mento di nitida neutralità emotiva fin qui tenuto ha perso in parte ragion d’essere. Le tensioni della pittu­ra sono anche le emozioni della pit­tura, i suoi umori: “… mano a mano che la pittura si dipinge si raggruma, si innervosisce e si tende e inspessi­sce come un cielo che mosso da mille venti cambia di umore…” (30). Gastini avverte la possibilità di connaturare il proprio vitalismo di fon­do a questa prospettiva che si schiu­de e a un tempo richiama uno dei nodi del suo lavoro degli esordi. L’u­so “colorico” dei materiali (31) di per sé non basta, in tal senso, e il sempre più frequente affioramento di tracce colorate negli ultimi lavori ne è un sintomo eloquente. Le emozioni della pittura sono nel colore, nella sua gamma senza fine di intensità e varianze possibili. S’è det­to il colore, e non i colori: ché l’uni­ca qualità di rapporti che Gastini an­nette al darsi della pittura non è fatta di timbri e toni ma – ormai è chiaro – di correnti dinamiche, di pulsazio­ni dell’azione-pittura.

È il blu, dapprima, con frequenze da cupe a elettriche, a farsi strada nelle opere che nascono. Come Le tensioni esistono…, esposta allo studio G7 nel febbraio 1982 e in giugno alla Biennale di Venezia, e poi la variante dello stesso titolo presentata poco dopo da John Weber.

L’immersione nella pittura vi è ormai totale, senza remo­re. Nonostante l’irregolarità e l’estro­flessione dei bordi della tela, il flusso degli accadimenti pittorici prende un corso introverso, tenta una vertigine del vedere di segno diverso. La su­perficie è invasa da stesure a gesti brevi e aggressivi, che intersecano il sottile variare d’intensità del blu con sovrapposizioni molteplici, come vi­brazioni nervose. I segni neri, a car­boncino, lunghi e filamentosi ma al­trettanto secchi e urgenti, ora plana­no su questa pelle e ora ne intaccano, incidendola, la già sovreccitata ten­sione. In luogo dei filamenti di sta­gno, il cui squillo risuonerebbe con troppa grazia, sono ora carrube a varcare il confine della reificazione del segno, a porsi come elementi altri che individuano la superficie e la ri­chiamano a se stessa. Il feeling di Gastini, che prima intes­seva precise tramature spaziali, ora emulsiona lo svariare dei piani, lo rende profondità magmatica animata da aggallamenti e assorbimenti senza sosta.

Non che, intendiamoci, egli abbia consegnato alle viscere il dominio del proprio braccio. Semmai, il suo sondare instancabile nuove campio­nature di spazio si è arricchito della verifica dei comportamenti del colo­re, dei suoi stati d’intensità: del resto, se è vero che ogni materia, per Bachelard, possiede un’intimità, non può non essere vero che un’intimità spetta altrettanto alla sostanza pri­maria della pittura, il colore. Che in Gastini torni a farsi ben presente, in questo momento, la duplice equazione colore-materia e materia­-memoria (laddove la memoria sia quella stessa della pittura, del suo se­dimento storico) che era nel codice genetico dei lombi informali da cui è nato il suo lavoro, è fuor di dubbio. Ma ciò avviene dopo anni di severa pratica e di consapevolezze inaliena­bili, che è a dire a un punto di felice non-ritorno. Non si spiegherebbero altrimenti, nei lavori degli ultimi mesi del 1982 e di questo inizio 1983 (la prima uscita pubblica è di un Senza titolo esposto alla Hayward Gallery di Londra in “Arte italiana 1960-82”), i neri vellutati, luminosi, o ancora sec­chi che compaiono in Grande nero e in Dittico AB. E neppure i lucori di grigio perlaceo su cui si stagliano gli altri gri­gi più intensi, e i lampi neri dei segni tracciati o graffiti, su cui poggiano car­boni e carrube, e da cui prendon respi­ro i bagliori lividi dei cospicui inserti metallici, di opere come Nefertiti e Grigia immersione. Tempeste, verrebbe da dire, ma tempeste magnetiche, di quel­le in cui lo sguardo è costretto a muta­menti frenetici d’orientamento, e di fuoco, e di campo, a prospettive anche centripete, ora, ma non meno tese, non meno instabili.

Non c’è turgore di paste, in questi di­pinti, o grondare di materie. Certi ri­gurgiti di pittura hard (“un hard-rock è un’ossessione senza orgasmo men­tale”, ama dire Zeno Birolli) non toc­cano Gastini, come non l’hanno in­taccato i pruriti cerebrali della pittu­ra anemica di alcuni anni fa. Dipinge di trasparenza, di grazia, d’eleganza anche quando – sornionamente – chiama in causa una messe di quantità visive che parrebbero sovra­starlo, e che invece subito trovano assetti e interazioni puramente quali­tative, filtrate, senza grevità. È ancora una nuova, fertile stagione che si apre a Gastini, tra quante at­tendono la sua ricca maturità.

Note. 20) Gastini in Fossati, 1974, cit. 21) Gastini   in Fossati 1974, cit. 22) Gastini, Credo che il lavoro di un artista…, in Marco Gastini, in “Flash art”, n. 66-67, Milano, luglio-agosto 1976, p. 24. 23) Cfr. Castagnoli 1979, cit., p. 6. 24) Per una documentazione dettagliata delle opere di Gastini tra il 1978 e il 1980, e per i relativi testi dell’artista, cfr. Trini 1981, cit. 25) Gastini in Trini 1981, cit., n. 1 /2. 26) F. De Bortoli, Il senso dello spazio, in “Corriere d’Informazione”, Milano, 27 dicembre 1978, p. 12. 27) Trini 1981, cit., p. 16. 28) Gastini in Castagnoli 1981, cit. 29) Castagnoli 1981, cit. 30) Gastini in Castagnoli 1981, cit. 31) Cfr. la nota n. 3.