Gastini (parte prima)
Marco Gastini. Disegno, commensuratio, et colorare, in Marco Gastini. Opere 1958 – 1983, catalogo, Galleria Civica, Modena, 26 marzo – 30 aprile 1983, Panini, Modena 1983 (prima parte)
Quando, nel maggio 1963, Marco Gastini prende parte alla mostra “Cinque pittori torinesi” (1) alla galleria La Bussola di Torino, la stagione d’abbrivio della sua esperienza è ormai compiuta. Nel volgere di un lustro l’artista, venticinquenne (è nato a Torino nel 1938), ha già insinuato nella sua pittura – acerba ancora, è fuor di dubbio – alcuni illuminanti semi di consapevolezza, e soprattutto una singolare sicurezza nell’orientarsi entro il sapore e il clima culturale della città, così da distillarvi solo le consonanze per le proprie interne vocazioni.

Gastini, Senza titolo, 1970
È un milieu certo non facile, quello del capoluogo piemontese di quegli anni cinquanta/sessanta, animato com’è dalle spinte contrastanti di un regionalismo di forte identità e della circolazione vivace e spesso tempestiva dei grandi temi del dibattito, nazionale e internazionale. Tentarne un’adeguata radiografia, ancor oggi, è impresa tutt’altro che facile, vuoi per certe colpevoli mitologie tuttora correnti al riguardo di molte figure e vicende di quelle stagioni, vuoi per la difficoltà obiettiva a mettere generalmente in chiaro la delicata – anche perché probabilmente sottoalimentata – transizione informale/postinformale, così come ebbe a verificarsi in Italia con il concorso di una critica troppo spesso più miope e impacciata del dovuto.
Quanto potessero aggregare e condizionare figure come quelle di un Casorati o di uno Spazzapan; quale fosse l’effettiva incidenza dell’azione di un Tapié; quale la portata, in termini d’informazione e stimolo, di manifestazioni come “Italia-Francia” e consimili; e quale, invece, quella della cospicua e integra tradizione del paesaggismo locale, non è ancora possibile affermare se non con molta approssimazione. Quel ch’è certo è che, in anni in cui la geografia dell’arte aveva maggior peso di quanto ne possegga oggi, questo nel suo complesso era il variegato imbuto attraverso cui a Gastini, e con lui a una generazione intera, giungeva la messe delle indicazioni, nuove o comunque diverse, sulle quali lavorare. Gastini nasce dunque, quasi d’obbligo (per età e per humus), paesista: ma già con l’avvertenza che non di una scelta di genere si tratta, e invece di un campo d’esplorazioni, di un luogo di esercizi linguistici tra i meno costringenti e più fertili: in cui è possibile prender le misure a un contesto culturale con l’accortezza di non farsene soverchiare, con l’occhio rivolto a un orizzonte meno circoscritto.

Gastini, Senza titolo, 1970
Già il Paesaggio presentato al premio San Fedele del 1958 è ampiamente sintomatico in tal senso. La scala dei verdi rosa bruni bianchi vi è ancora educata, secondo le squisitezze della parlata locale, e ricerca d’istinto accordi armonici segreti. Ma la spinta non è quella di un’eleganza tranquillizzata, disposta all’estenuazione magari. La visione si accende, sottopelle, di brividi nervosi, mina la struttura del paesaggio – e l’orizzonte è alto, pronto a farsi totalità di piano – per eccitare i turgori delle materie, quel loro distendersi che rivela la traccia di un’urgenza primaria, sottolineata da segni incisi fluidi ma febbrili, impellenti. Come non pensare a un repertorio, assai confuso ancora ma vitale, di argomenti di riflessione che va da certo informale padano a De Staël, dall’idea di action-painting (vista da lontano, per mediazioni nostrane) e quella “poetica del muro” che cominciava a circolare come viatico delle pitture di Novelli e Twombly e Perilli? Ma anche, al disagio verso la solida capacità della Torino di allora di filtrare, smussare, rallentare al proprio passo cauto tali impulsi devastanti?
L’avvertimento di questa inadeguatezza, la ricerca sempre più agguerrita di sostanziali nodi problematici, è il propellente del Gastini del primo quinquennio; periodo segnato, sul piano del grande dibattito, da quella remise en question di vaste proporzioni che fu la liquidazione coatta dell’informale. Lo scoppio del bubbone della retorica autre libera molti veleni, ma anche succhi fertili, autentici. Di questi ultimi, qualcuno penetra senza sforzo nella pittura del giovane artista, addirittura come certezza fondamentale di tutto il suo lavoro.
Colline III, esposto alla mostra del 1963, è con ogni probabilità il pezzo-chiave di quel momento. Da un tonalismo tutto sommato ancora convenzionale Gastini è passato a una sorta di freddo viraggio verdeazzurro del colore, tale da privarlo di gran parte dell’evocatività ma senza inacidirlo, senza contraddirne la tessitura sensibile: distanziando dunque fino a un punto preciso di alterità l’oggetto della visione, pur non rinunciando alle facoltà di captazione, per via di sensi e di emozioni, che lo sguardo rivendica. La stesura si fa magra, senza spessori, a negare sostanza corporea all’immagine e ad affermarne invece una natura pellicolare, di fantasma sensoriale, in cui il riconoscimento dei rapporti formali e spaziali quantitativi si rigeneri a una pura, concentrata formulazione di tipo qualitativo.
La figura è tratta tutta in superficie, i passaggi di piano ridotti a increspature frementi, la struttura sgretolata, come quella di un organismo disossato che pulsi solo di una rete di nervi eccitati, aggomitolati in gangli che sprigionano energia oppure tesi a vibrare in linee-forza che si irradiano, fino alla soglia convenzionale dei bordi del quadro.
Questioni come la superficialità, l’intensità e l’estensione, la dimensione spazio/tempo intrinseca all’atto pittorico, la specificità dell’immagine, entrano così stabilmente nel bagaglio problematico di Gastini, tanto quanto lo iato tra l’avvertimento della qualità energetica dello spazio fisico e la resa del suo senso in linguaggio di pittura (2), la possibilità di rapporti coloristici interni alle materie e non estroversi (3), la fertilità di un procedere fatto insieme dell’accettazione di forti impulsi psicologici e di severi drenaggi fabrili, in quello delle sue certezze fondamentali.

Gastini, Senza titolo, 1970
Ma l’artista, pur giunto a questo punto, deve pagare ancora un pedaggio alla maturità, alla vischiosità dell’ambiente in cui cresce, ai tempi. Veleni, e molti, si è detto, si spandono nei primi anni sessanta dalla carcassa precocemente ripudiata dell’informale di casa nostra. Equivoci irrisolti, soprattutto: certi soprassalti di contenutismo e d’irritabilità esistenziale, nostalgie di figurazione, esigenze, ancora, di racconto, scorie di un surrealismo ridotto a tematismo allucinato e ostile. D’altro canto, a ridosso di quei pochi che lucidamente hanno scelto di uccidere quel padre così ingombrante in nome di un’ipotesi di nuovo linguaggio – i Manzoni, i Castellani, i Lo Savio, altri più giovani come Dadamaino o Paolini o Colombo – già s’intravvede l’onda di ritorno di un’altra retorica, di un’ulteriore pericolosa accademia (4). E poi, c’è la sindrome Rauschenberg che scoppia alla Biennale veneziana del 1964 dopo qualche avvisaglia proprio torinese: che pare offrire la panacea a tante delle impasses che affliggono la scena artistica italiana. Troppo facile soluzione, la pop, per molti, soprattutto se innestata – come a Torino avviene – su letture passatiste e fuorvianti di Bacon, di Giacometti anche.
A fronte di questo sovraccarico di tensioni diverse il nitore dell’approccio di Gastini è turbato, il suo rapporto con la sostanza dell’immagine si ritrova frastornato dalla sollecitazione a produrre scansioni temporali e spaziali dichiarate, a rifare i conti con un’imagerie pletorica renitente all’aggressione introiettiva in cui l’artista ormai si riconosce, anche alla sua connaturata istanza di elegante economia visiva.
Alla rassegna “Dieci anni di giovane pittura in Piemonte”, organizzata alla galleria Narciso di Torino nell’autunno 1964, egli è presente con un’assai problematica Finestra, che dichiara proprio questa tipica crisi di crescenza. È la stessa crisi che, mutatis mutandis, si coglie in molti altri esponenti della medesima generazione, pur di estrazioni e vocazioni differenti, presenti in mostra, da Ajmone a Carena, da Chessa a De Alexandris, da Devalle a Pistoletto, da Ramella a Ruggeri, da Saroni a Soffiantino. Per un triennio, dal 1964, dura questa transizione, tutt’altro che infeconda sul piano della messa a punto di solidi stipiti tecnici ed espressivi, in virtù delle capacità digestive e di reazione che Gastini vi matura: le acute testimonianze che la critica gli dedica in quel periodo (5), e soprattutto certi disegni e incisioni, sono assai eloquenti.
Nel 1967 Gastini padroneggia appieno, nuovamente, il dipanarsi del proprio lavoro. Vaccinato dalle esperienze recenti contro ogni tentazione di retorica e di sovraesposizione estetica e ideologica (che segnano invece, quasi contemporaneamente, gli ultimi sussulti di un avanguardismo che si sopravvive), si trova a circoscrivere un territorio naturale di ricerca molto preciso, in cui non fa che isolare, e arricchire esplicitandola, la sostanza problematica intorno a cui s’aggira da anni. Nasce la serie di opere in cui si colgono titoli significativi come Il peso della pelle, Fisicità, Chiaro, ancora Paesaggio. La duplicità insanabile tra il corpo della cosa e quello dell’immagine, tra ordini differenti di forma e spazio e superficie (e dunque, di rapporto sensibile), anziché come ammissione d’impotenza viene assunta a luogo tipico della pittura, di una pratica che riconosce se stessa, la propria ragion d’essere, proprio in questo specifico campo d’azione. Scrive Paolo Fossati, fin da principio compagno di via del lavoro di Gastini, nei testi per le personali alla galleria Pozzi di Novara e alla galleria Il Punto di Torino, nel 1968: “… è l’inizio di un’indagine artificiale, cioè del linguaggio costitutivo, di frammenti di realtà prelevati da quella pelle delle cose che sta all’incrocio tra modo che hanno di rivelarsi e sensibilità pronta a coglierne in una sua dimensione specifica, individualizzante la presenza. Artificiale, cioè montata rispetto allo spettatore non rispetto al flusso organico con cui s’affaccia tra altri accadimenti, ma secondo una sua disponibilità all’analisi da cui muovere verso il tessuto che fa e determina quella necessità figurativa…”; e ancora: “… lo spazio candito intorno espunge qualunque figurazione, s’è detto, ma compie un’ulteriore epurazione: obbliga la materia a rappresentarsi come una presenza che si riconosce e che non può dare di sé altro cenno di esistenza che il proprio fluire: la costringe ad assistere alla propria decifrazione come serie di segni che non fissa e non può esaurire, ma di continuo trasforma…” (6). Artificialità, analisi, e soprattutto pelle, materia, spazio, fluire, segni. Le chiavi critiche sono precise, e tutt’altro che avare.

Gastini, Grande macchia, 1970
Nel Paesaggio del 1967 questo corso di esperienze trova un’enunciazione netta, e un titolo impostato al senso della continuità, alla ricapitolazione delle implicanze più autentiche del lavoro trascorso. Il fondo è dichiarato come uno spazio neutro, fisso, un campo convenzionale ma capace di infiniti eventi. È uno schermo di proiezione, come accade per esempio anche in Turcato, che pure fa ampio ricorso a una preliminare enunciazione atona della superficie: ma in Gastini non c’è lo scarto della proiezione psichica, c’è piuttosto l’avvertimento della pellicolarità fisica di tale tensione-limite. L’evento si dà come puro differenziale di piano, alterazione sensibile prodotta dall’espandersi di una fluenza di materia (nelle cui modulazioni increspate riappaiono trame tonali già sperimentate, di bianchi, azzurri, rosa, rossi), senza aggravio di corporeità, per via di pura qualificazione dello spazio, secondo un’idea di concretezza tattile/visiva, tutta pittorica, che conserva, senza mimarlo, quel complesso senso delle cose che innesca la tensione espressiva dell’artista. Fisicità, appunto, è il titolo di un quadro molto riuscito del 1967, in cui compare quella vibrazione interna ai bianchi che diverrà carattere stabile, per molti anni, di questo lavoro. Le tele del 1967/1968 soffrono ancora di un grado forse eccessivo di intenzionalità; più che per la loro organizzazione, esplicita e per qualche verso meccanica, importano per il potenziale di ricerca che vi si prefigura. Sondare un’immagine sostanziata di pittura, che si dia intransitivamente ma senza postulati d’obbligo, presuppone un’accezione dell’analisi – in anni in cui proprio di tali termini, analisi e immagine, si fa un uso persino eccessivo e non sempre proprio – che sottoponga i valori di codice del dipingere, superficie e spazio, gesto e segno, fisicità e virtualità, colore e forma, contemporaneamente all’attraversamento incrociato del maggior numero di livelli d’esperienza sia possibile attivare. Perché è proprio negli interstizi di non-univocità delle loro convenzioni che si annida il tòpos, quell’unico concentratissimo stato di necessità che l’artista intuisce per il proprio lavoro. D’altronde, se “… la questione è quella della pittura, della pittura e del dipingere…” (7), come scriverà più tardi lo stesso Gastini, è anche vero che essa si configura primariamente come questione di spazio, di quale spazio sia luogo di quale pittura, oltre ogni comoda poggiatura metaforica, o simbolica, a partire da una scommessa stipulata col fare, con l’avvertire attraverso i sensi, renitente a ridursi a una mera notomìa di concetti.
Non si può non pensare a Fontana, al potenziale strepitoso di argomenti e indicazioni che la sua opera ha messo sul tappeto e che proprio in questo scorcio degli anni Sessanta prende a essere letto in maniera adeguata. Gastini, certo, vi trova delle conferme, delle suggestioni. Di modelli, ora che il suo orientamento è maturato, non ha più bisogno. Da tali premesse nasce, quasi contemporaneamente, anche l’impulso a sperimentare, a saggiare condizioni meno costringenti delle regole usuali. È il momento, non dimentichiamolo, in cui maggiormente si dibatte l’apertura a nuove tecniche, a nuovi materiali, a un rapporto di totale flessibilità con l’armamentario pratico dell’espressione, nel prolungamento dell’utopia di estendersi “dalla tela al mondo” e di rifondare l’io creante: proprio a Torino, declinata spesso con grande felicità dai vari Gilardi, Merz, Anselmo, Icaro, Penone, Zorio e compagni. Con questa area di “cultura materiale” (8) Gastini ha certo più d’una tangenza, ma sempre rendendo tali innovazioni totalmente funzionali al proprio problema di proposizione “de lineis et colori bus” dello spazio.
Le mostre della galleria Piattelli di Roma, nel gennaio 1969, e poco dopo al Salone Annunciata di Milano, pongono sviluppi importanti nel suo lavoro. Cascata e soprattutto Percorso (1968) nascono dall’assunzione dello spazio fisico, d’esperienza, con lo scopo di instaurarvi un continuum visivo di qualità pittorica, privo di portanti ordinate e stabili; una dimensione eccedente la soglia del campo visivo ordinario, che senza effetti illusionistici inghiotta la lettura, la costringa a un andamento e a una durata al confine della virtualità. Aggirata la superficie convenzionale (ciò è ben evidente in Cascata), è proprio il connotato tipico del supporto scelto, il plexiglas, a innescare l’operazione. L’intervento della pittura ne aggredisce la fisicità, la presenza materiale, e induce a un limite in cui sia avvertita come non-quantità, ancora una volta come pelle: in modo che la trasparenza vi si riveli per sé, mutata di segno. Le chiazze di colore, dal canto loro, sono in stock-fiber, offrono una consistenza tattile che ne aumenta il gradiente di assertività senza produrre ingombri visivi: a renderle piccoli nuclei pulsanti, il cui radiare assorba lo iato tra bidimensione e tridimensione in un’estensione unica, rarefatta ma omogeneamente intesa. Anziché chiazze sospese, in 12 aprile (1969) sono bacchette di plexiglas dipinte con colori alla nitro a galleggiare nello spazio, straniato nel rimando continuo tra lettura percettiva e mentale. È curioso osservare che, circa nello stesso periodo, un altro artista concentrato in toto sulla pittura, Olivieri, va saggiando la possibilità di installazioni in cui i segni colorati si spingano a essere presenze anche fisiche, partendo da presupposti non del tutto dissimili (9).
Un’opera Senza titolo, esposta all’Annunciata in quel 1969 e purtroppo andata perduta, riveste un interesse tutto particolare perché mette in chiaro, secondo una formula che Gastini riprenderà più volte in seguito, pur variandola, quella tastiera problematica presenza/distanza, fisicità /virtualità, supporto/segno, sensorialità/mentalizzazione, dimensione/estensione, densità/trasparenza, cui sontuoso intrico di contraddizioni ha scelto definitivamente di frequentare. Nella serie di lastre di plexiglas, ciascuna presume una porzione superficiale definita, ma l’insieme mette in scena un attraversamento senza soluzioni, una qualità continuamente altra di spazio, in una serie ininterrotta di limiti-continuità. Le campiture sono bande di stock-fiber, oppm “pelli” a smalto: materie diversamente presenti e diversamente agenti che si sovrappongono, che distraggono di continuo, specularmente, la profondità di campo della lettura, che dichiarano e a un tempo negano dei rapporti, delle discontinuità, dei piani, che si fanno sostanze di visione ma sono anche entità concrete, tangibili.
Per Gastini nasce un momento di estrema apertura, di euforia verrebbe da dire. Su fronti apparentemente lontani – ma in realtà aggirandosi caparbiamente intorno a un unico nucleo – tenta campioni di spazio e pittura differenti, opera su ristretti appunti analitici. Dalla scala ambientale al piccolo disegno, non importa. Nel grande non enfatizza, tanto quanto nel piccolo non cede al frammentazione, alla tentazione della mera ipotesi, della leziosità progettuale. Ora, come durante tutto l’arco del suo lavoro, la scala dimensionale e di rapporti tra l’azione-segno e la totalità dell’immagine scaturisce da una pura necessità di senso. Non è metrica, cioè retorica. Anzi. Il trascorrere intrecciato dal minimo al massimo conferisce all’opera la sua precisa durata, quel temporalità interna, fatta di picchi e rallentamenti, in grado di far convivere ugualmente l’estremo di concentrazione con l’estremo di indeterminazione.
Tre lavori, e la serie di disegni riprodotti nel libretto, dal titolo ancora una volta sintomatico, (IN) SPAZIO, tra 1969 e 1970 suggeriscono lo spettro degli indirizzi che l’artista intende percorrere. Un piccolo plexiglas Senza titolo, 1969, presenta l’emerge di una chiazza a cera stesa con gesti brevi e nervosi, brandello fioccoso di una pelle di diversa opacità e consistenza da quella del plexiglas: l’una e l’altra pelle fatte evidenti, ma allo stesso tempo attraversate e, fino a un certo punto, dematerializzate, dalla luce: rese dunque poco più che differenziali atmosferici, phainòmena fluttuanti in un campo luminoso. Progetto di lavoro, del 1970, è una tavola riquadrata su cui insiste una trama di gesti pittorici violenti, orientati irregolarmente, che si sovrappongono senza addensare materia ma sovraccaricando fino a un punto di tensione estrema lo spazio, contenitore dell’azione-pittura. Del 1970 è anche l’altro plexiglas Senza titolo, una delle cui facce è fresata sino a renderla quasi impermeabile alla luce, che si assorbe e si frange diffondendosi per quelle asperità; delle parole del giornale sottostante non rimangono che ombre senza costrutto: ancora una volta è una soglia di visibilità in gioco, un affioramento e inghiottimento dell’immagine nei piani di spazio e di la luce.
I disegni, abbreviati, corsivi, molto intensi, sono più propriamente progetti, o meglio appunti di lavori che vanno assumendo fisionomia: delle tracce lunghe sul polietilene, delle macchie sul plexiglas, delle macchie sul muro.
La luce come tensione energetica primaria dello spazio, il recupero del gesto-segno come scarica fisica e mentale, il punto di emersione alla visibilità dell’immagine, l’addensamento e la rarefazione del segno sulla pellicola superficiale. C’è molta carne al fuoco, nella ricerca di Gastini, sempre febbrile, attratta da ogni e bivio, mai consequenziale e ortodossa come predicano le ubbie analitiche del momento.
Alla rassegna “Arte e critica” a Modena, e alla personale alla galleria Gap di Roma, nel 1970, eccolo installare una Parete abitata da macchie fuse a staffa in piombo e antimonio. Altre, variamente intitolate, ne espone altrove, tra cui quelle, variamente imponenti, alla galleria LP 220 di Torino (99 macchie), nel gennaio 1971, e al Salone Annunciata di Milano (Mq. 32,452 di pittura), subito dopo.
Altre macchie, stese con una pittura ad alta percentuale di metallo, sono nate poco prima su lastre di plexiglas, sia isolate e di silenziosa evidenza, sia distribuite a gruppi irregolari (Grande macchia, 1970; Pittura, 1969-1970), sia, come in Cinque cassette di plexiglas (1970), riprendendo l’idea della sequenza di plexiglas paralleli. Contemporaneamente avverte anche le possibilità dei fogli di polietilene, quella loro trasparenza vischiosa fredda, e vi lavora con grandi chiazze di pittura ad alta percentuale di metallo, oppure con irregolari tracce orizzontali di colore serigrafico: gli stessi che ritroviamo in due ottimi lavori, Neon e Striscia, realizzati rispettivamente con colore metallico su un tubo di neon, e su plexiglas con colore fosforescente, che espone al Salone Annunciata nel febbraio 1971.
In tutte queste operazioni il denominatore comune è l’aumento di consistenza materica del segno (macchia), che anziché porsi come differenziale minimo rispetto al supporto – com’era nelle Pelli o nel plexiglas Senza titolo del 1969 – instaura una forte tensione polare, si afferma come traccia di massima concentrazione energetica discendente dall’azione-pittura.
Nei plexiglas di questi anni lo scarto tra la trasparenza luminosa del supporto e la presenza opaca delle macchie è forte; esse sono “… forme condensazione di tensione…”, come afferma lo stesso artista (10), dotate di un alto potenziale di irradiazione, che immettono nello spazio – quello del supporto e quello dell’ambiente – valori di netta discontinuità, di alterità, facendo nel contempo da cerniera di scorrimento, con il loro fluttuare sospeso (e si ripensi al più timido percorso di qualche anno prima), tra spazio d’esperienza e lo spazio di pittura.
Questa contraddizione aggressiva della superficie si esercita anche su altri registri. Ma se le macchie “… sono un peso,un fatto fisico, il peso di un gesto che reclama la massima concentrazione…” (11), anche la loro destinazione spaziale richiede altre condizioni di concretezza, un campo visivo totale ma esperibile, una pelle intimamente meno fragile. Il muro appunto, ideale “corpo immaginario-materiale” (12). Ha osservato felicemente Pierre Sterckx: “… Or, un mur ce n’est jamais une abstraction. C’est une topologie, variable, concrète, vivante …” (13): ma con quel tanto di vastità, di bidimensionalità pronta a tradirsi, di neutralità e ricettività che ne permette lo straniamento, il farsi uno spazio altro.
Le macchie di piombo e antimonio vi vengono apposte (ma, vista la carica del gesto, sarebbe più corretto dire imposte) secondo modalità distributive irregolari, mai aleatorie. La dimensione metrica della superficie si rigenera a trama di percorsi visivi multipli, indeterminati, sorretta dai fiotti di tensione indotti da qualità differenti di rapporto. Ogni macchia, ogni gruppo di macchie, convoca a sé fantasmi di piano, innesca flussi d’avvertimento. La scorza fisica, pienamente vissuta come campo dell’agire, senza alienarsi si fa luogo di una spazialità che è stata ben intesa come “emozionale” (14): a patto che si abbia l’avvertenza di non figurarsi emozioni indotte, a qualunque titolo proiettate sullo schermo di pittura, e invece quel gradiente di poeticità che sgorga nell’opera dall’“espansione del suo spazio intimo” (Bachelard) e che l’artista si sente chiamato a svelare più che a rivelare.
La serie delle opere con le macchie sul muro determina una sorta di punto fermo, nelle ricerche di Gastini: o meglio, un momento di rallentamento e altissima consapevolezza all’interno della loro fluidità radicale. Questa esperienza lo induce a rimettere a fuoco alcuni gangli problematici, a decantare, anche, taluni vettori privilegiati d’approfondimento. Il dibattito del mondo dell’arte, giunto a una fase che attira Gastini a sé come protagonista, non più come spettatore, funge tra l’altro da stimolo impellente. Ancora una volta, però, come catalizzatore e come parametro di differenza. L’onda montante dalla costola del concettuale, del mero esercizio mentale, è quella variamente intitolata alla nuova pittura, o pittura-pittura, o fare pittura, con il suo armamentario di azzeramenti, cataloghi, metodologie, strumenti primi, rigori analitici e via discorrendo. Termini, questi, dei quali taluno figura già nel bagaglio dell’artista: ma in accezione ben diversamente affinata e indirizzata, e quindi passibile di equivoci di non poco conto. D’altro canto, a ridosso di questa, prende a circolare la mitologia dell’ambientalismo, della fuoriuscita ideologica dallo spazio canonico della pittura. Questione di non poco conto, dal momento che egli, tra plexiglas e pareti, da tempo sembra indurre a cooptazioni di tal genere.
Se c’è urgenza di chiarimenti, per Gastini, è pur vero che il suo lavoro ne possiede, magari impliciti, i termini, così com’è fornito di sostanziosi anticorpi.
Nelle opere e nei testi che proprio in quegli anni (non certo casualmente) prende a redigere in nota al proprio lavoro, egli preme sul pedale della fisicità, della corporalità addirittura del fare, dell’intensità del flusso implicito agli atti e allo spazio di pittura. Si è già detto dell’inusitata durezza e concentrazione delle macchie di piombo e delle pitture ad alta percentuale di metallo. Contemporaneamente egli scrive: “…Vorrei che chi le guarda [le macchie] le accettasse dinamicamente, come energia, come un’azione. La pittura, il dipingere è una forma di discontinuità, concentra l’attenzione su un momento che stacca il gesto, l’azione rispetto allo spazio indifferenziato…” (15). E altrove: “…Una violenza, magari, perché la pittura è fatto fisico: il gesto raccoglie nel dipingere la pittura, una fisicità che costringe lo spazio a rivelarsi, a dichiarare il proprio spazio, a misurarsi con se stesso, la pittura si misura a se stessa. La questione è obbligare l’altro spazio, la pittura, a rivelarsi” (16). È un approccio, questo, orgoglioso della propria ricca non-univocità, che troverà in anni successivi conferme e svolgimenti assai fruttuosi. Penso ai dipinti a cavallo tra anni settanta e ottanta, e a notazioni come queste: “…le tensioni esistono, vengono generate e si rigenerano in pittura… le tensioni che determinano lo spazio e l’energia dell’atto stesso di determinarlo e farlo vivere si raggrumano in balzi e squilli di metallo fuso (stagno) (energia allo stato puro) che tendono lo spazio e lo fissano quasi inchiodandolo per farlo vedere…” (17).
In parallelo, non si può fare a meno di citare una nuova testimonianza, del 1973, di Fossati, lucidamente polemica e acuta nel tracciare la discriminante tra Gastini (e Griffa con lui) e le poetiche della pittura-pittura: “… Dipingere non è il fare la pittura, che è bella formula: dipingere, se mai, è il prurito di fare la pittura. Che è altra cosa. Perché non contiene, il fare la pittura, alcun delirio e alcuna fantasia d’azione, si nega ogni ‘possibile’ pittorico. Che è poi, questo possibile della pittura, una combinazione a parti diseguali di pragmatismo e di delirio, di filologia e di mitologia, di calcolo e di insofferenza di calcolo. È bisogno di identificare la differenza e di insistere sulla ripetizione…” (18).
Quanto al supposto ambientalismo, troppi sono i punti di non coincidenza del lavoro di Gastini, come ha ben messo in luce, in anni recenti, Pier Giovanni Castagnoli (19), e come lo stesso artista avverte nei già citati scritti di quegli anni. D’altronde, progettare una fuoriuscita dal sistema della pittura, dalla dimensione convenzionale del quadro, presupporrebbe in qualche modo l’accettazione di quel sistema, di quelle convenzioni; e di un dentro e di un fuori del dipingere ben demarcati; e della non problematicità delle nature diverse degli spazi d’esperienza: che è dire, in altri termini, proprio della catena di fattori il cui non riconoscimento, il cui ribaltamento, ha dato impulso fondativo ai ricercari di Gastini.
Certo, egli frequenta assiduamente l’ambiente, lo si è visto, ma con un cruccio così poco extra-pittorico e contaminatorio che dovrebbe indurre a riflessione anche la lettura meno disponibile. Ancora, il problema dello svelamento dell’“altro spazio” dello spazio attraverso i concreti atti del dipingere, si trova di fronte ulteriori, non meno sottili, nodi di lavoro. L’artista li affronta compiutamente nei successivi gruppi di opere, che occupano gli anni tra il 1971-1972 e il 1975-1976.
Da un lato, è sul tappeto la natura, la qualità percettiva di queste immagini, di questo far vedere, finora naturalmente organizzata in un registro tattile-visivo complesso ma mai affettato. Dall’altro è la necessità, per un procedere fatto anche di riduzione e analisi, di fare i conti con i limiti progettuali, di sistemazione e non sistematicità, che gli sono consentiti senza che ne venga costretta la fisionomia.
Gastini li fa affiorare entrambi con maggior evidenza, tanto nelle nuove opere a parete, tanto nei plexiglas graffiati, tutti degli anni 1972-1973: muro, o plexiglas, o tela (come tra poco si vedrà), a nessun titolo ormai si dà, in sé, la questione della natura del supporto.
Note. 1) Gli altri espositori sono Ramella, Ruggeri, Saroni e Soffiantino. La mostra passerà poi alla galleria della Steccata di Parma, nel dicembre 1964. Nel catalogo torinese sono riprodotte, di Gastini, Cielo scuro e Inverno II, entrambe del 1963. 2) Cfr. P. Fossati, Marco Gastini, Torino 1976, pp. 43-44. Il libro rappresenta la prima fondamentale lettura complessiva del lavoro dell’artista. 3) Cfr., anche per le stagioni mature, T. Trini, Marco Gastini. Come di un respiro che preme nei polmoni, Torino 1981, p. 7. 4) Per ripercorrere l’atmosfera di quegli anni, cfr. soprattutto i cataloghi del “XII premio Lissone”, tenutosi nell’autunno 1961 , e della rassegna “Nuove prospettive della pittura italiana”, svoltasi nel 1962 al Palazzo di Re Enzo a Bologna. 5) Fossati, Otre la mitologia, cat. Marco Gastini, galleria della Steccata, Parma, 28 gennaio 16 febbraio 1967; E. Crispolti, Marco Gastini, cat. galleria Il Girasole, Roma, 2 – 22 dicembre 1967. 6) Fossati, Gastini, cat. galleria Pozzi, Novara, 13 gennaio – 4 febbraio 1968, p. 4; e Marco Gastini, cat. galleria Il Punto, Torino, 9 maggio 1968. 7) M. Gastini, La questione è quella della pittura…, in Gastini, in “Flash art”, n. 41 , Milano, giugno 1973, p. 21. 8) Trini, Punto e linea, la storia cambia, in “Data”, n. 26, Milano, aprile – giugno 1977, p. 22. 9) Cfr. Z. Birolli – M. Dalai Emiliani, Claudio Olivieri. Pitture Sculture, cat. Salone Annunciata, Milano, 22 novembre – 1 dicembre 1967; F. Gualdoni, Strutture virtuali, cat. Biblioteca Civica, Saronno, Museo di Castelvecchio, Verona, 1981. 10) Gastini in Fossati, Marco Gastini, cat. galleria Bottello, Torino, 29 ottobre 1974. 11) Gastini, (IN) SPAZIO, Torino 1971. 12) Fossati 1976, cit., p. 61. 13) P. Sterckx, Gastini et les hasards du système, cat. Les Halles, Bruges, agosto 1972. 14) Cfr. P. G. Castagnoli, Marco Gastini: ultimi lavori, in “G7 Studio”, IV, n. 9, Bologna, novembre 1979, p. 7. 15) Gastini 1971, cit. 16) Gastini 1973, cit., p. 21. 17) Gastini, Come lo scrivere che raccontando…, in Castagnoli, Marco Gastini, cat. Refektorium des Karmeliter-Klosters, Galerie Appel und Fertsch, Frankfurt/Main, 9 maggio – 13 giugno 1981. 18) Fossati, Nuove pitture: Gastini e Griffa, in “Data”, III, n. 10, Milano, inverno 1973, p. 75. 19) Castagnoli 1979, cit., pp. 4-6.