Gio’ Pomodoro. Presenze modificanti, catalogo, Villa Recalcati, Varese, 27 giugno – 29 agosto 2010

1. “Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come presenza modificante in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze”. Così si legge nel manifesto Contro lo stile, che Gio’ Pomodoro firma nel settembre 1957 con esponenti della nuova generazione d’allora come Arman, Baj, Hundertwasser, Klein, Manzoni, Saura, oltre che con il fratello Arnaldo.

Gio' Pomodoro, Folla, 1962

Gio' Pomodoro, Folla, 1962

È per lui, soprattutto, intuizione non d’un modo diverso di far scultura, ma d’una ragion d’essere dell’opera radicale e fondante. Ragione interna, di concezione e destino, ma anche ragione oggettivante, che il dibattito sulla “sintesi delle arti” di cui la Triennale milanese è epicentro e luogo primario d’elaborazione soprattutto a partire dal leggendario “Primo Convegno Internazionale sulle Proporzioni nelle Arti” organizzato nel 1951, pone nuovamente con forza.

Sono gli anni di Arte Nucleare – memorabile la mostra al San Fedele, Milano, 1957, ove espone Crescita, 1956-1957 – e d’un dibattito fervido sul segno, sulla forma organica e necessaria, su un prender forma che non batta, necessariamente, le vie del puro irrazionale. Gio’ e il più maturo fratello Arnaldo, marchigiani di nascita ma attivi nel fervido laboratorio milanese coagulato intorno al genio di Lucio Fontana, complici sino al vero e proprio agire a quattro mani (e a sei, nell’esperienza breve dello Studio (avviato con Giorgio Perfetti), sono di quella stagione interpreti eccellenti, soprattutto in quel loro sapere e poter toccare la forma minima, per infinite sottigliezze, ma a partire da un pensiero comunque architettante, da un’intuizione totalizzante e univoca dello spazio.

Lucida e premonitrice è la chiave di lettura che Gio Ponti fissa nel 1955, in occasione della mostra milanese al Naviglio: “Queste strutture spaziali (diremo così?) ci possono dare una intensa emozione estetica tanto in se stesse, quanto se le immaginiamo (ora parlo da architetto) vibrare con la loro presenza nello spazio di un nostro ambiente. Mentre la scultura col suo volume chiuso sottrae spa­zio all’ambiente, ed è un fatto a sé, queste composizioni occupano dello spazio senza sottrarlo all’ambiente, partecipano dello spazio, implicano che ci si veda attraverso, che si veda di là, implicano cioè lo spazio, tut­to lo spazio circostante e non solo il loro; si irraggiano nello spazio”.

Gio' Pomodoro, Grande Ghibellina, 1965

Gio' Pomodoro, Grande Ghibellina, 1965

Quanto alla dimensione dello scrutinio, della padronanza del formare e segnare allo spazio, nello stesso anno Marco Valsecchi spende un riferimento esplicito, e bilanciatissimo, al “procedimento, lucido e sospeso all’istanta­neità dell’illuminazione” di Paul Klee, premettendo: che “Gio’ confessi di aver ‘pensato’ uno dei suoi geroglifici leggendo i Canti Pisani di Ezra Pound, può essere una traccia per in­tendere da che zona segreta e carica essi scaturiscano. Nulla di casuale o di momentaneo li porta a maturazione, come avviene invece per certi ca­stelli fatui della geometria o ghirigori ammatassati dalla noia”.

È, questo, il momento della concezione dell’opera come pagina ambiguamente plastica: la cui fervida radianza si gioca tra la bidimensionalità supposta e il valore già struttivo della frontalità, e tra la filigrana naturalistica evocata (com’è in Situazione vegetale, 1958) e la genetica di forma e segno tutta intima all’autonomo sapersi della scultura, frutto di ferreo scrutinio e dichiarata in opere coeve come Segni, 1958. Sono, questi, gli annunci delle Superfici in tensione, già nel 1959 esemplate in antimonumentali presenza drammatiche come Coesistenza III, e come Fluidità contrapposta presentata a “Documenta II”, Kassel. Proprio nel 1959, l’anno che per Gio’ vale il premio alla Première Biennale de Paris. Manifestation biennale et internationale des Jeunes Artistes” al Musée d’Art Moderne de la Ville, Parigi, oltre che la partecipazione attiva alle vicende di “Azimuth” – sul numero 1 della rivista egli pubblica un’opera a fianco di Johns, Fontana, Rauschenberg, Klein, Schwitters, Castellani, Rotella, Arnaldo Pomodoro, Manzoni, Mack, Tinguely, Fischer, Piene, Schoonhoven, Novelli, Dorazio, tra gli altri – Gillo Dorfles spende esplicitamente l’indicazione del “carattere architettonico” intrinseco a queste opere.

2. Il decennio ’60 è quello dell’evoluzione delle Superfici in tensione, figlie di ricercari ormai tutti individuali. Il bronzo polito, ma anche materiali di cui Pomodoro farà sperimentazione – dal poliestere colorato alla porcellana – offre la possibilità della trattazione ai limiti della bidimensionalità di una pagina plastica che pare contraddire la rigidità e il pondus della materia in virtù della politezza e del pittoricismo della superficie. I segni che irritano tale politezza, le cesure che la contaminano, il gioco serrato delle cavità e delle convessità e l’intrusione di minimi accidenti plastici a contraddire l’aspettativa di omogeneità, immettono un elemento di drammaticità, e di accentuata dinamicità, nelle opere. La partitura visiva si tende e viene come fratta in sagome che, diversamente inclinandosi, si inoltrano ai limiti dello squilibrio con un effetto marcatamente tridimensionale, capace di riguadagnare all’opera una facoltà di lettura circolare.

Annota già Pomodoro in un disegno di studio del 1958: “La deformazione tensionale della superficie continua. Il segno è un flusso continuo d’energia posta in tensione permanente. La superficie che si ottiene è un ‘corpo’ pulsante vivo, non una energia scaricata e trasferita nel gioco del chiaroscuro, come coi segni in negativo su terra”.

Gio' Pomodoro, Due, 1975

Gio' Pomodoro, Due, 1975

Notevole è il successo internazionale che accompagna queste opere nel decennio, dalla sala alla Biennale di Venezia del 1962 a personali in musei come l’Athénée di Ginevra, 1962, il Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, 1963, il Musée des Beaux-Arts di La Chaux-de-Fonds e il Louisiana di Humlebaeck-Copenhagen, 1965, il Kunst und Museumverein di Wuppertal, 1966. Assai più fondamentale è il portato innovativo delle concezioni di Pomodoro, il quale assume con piglio inedito la questione della superficie in scultura – il che significa rapporto decisivo con la spaziosità decisa dalla luce – e della fluenza formale in luogo della forma definita.

Nelle Superfici in tensione l’incidenza luminosa agisce sia radendo, sia riflettendosi, in dialogo serrato ed esclusivo con la superficie plastica e il suo colore: sia, beninteso, che il colore sia dichiarato apertamente (il giallo saggiato in Superficie in tensione, l’oro di Forma distesa, 1963) sia che esso sia intimo alla sostanza, com’è, tra le opere in mostra, del candore materiato di Folla 1962, 1968, unicum ceramico che annuncia il fervido rapportarsi futuro di Pomodoro con il marmo e la pietra. Non è questione di demateriazione, e men che meno di scacco volumetrico affidato all’iperdeterminazione della pelle della scultura. Certo l’operare a partire non dalla pienezza grave della materia ma da plessi sottili e malleabili che determinano all’origine gli spazi pieni/vuoti, e il concepire la formazione a partire dal punto di differenziale spaziale, premettono al processo una logica puramente qualitativa, una sorta di leggerezza intellettuale prima ancora che fisica, e soprattutto la primazia del concetto formativo sul suo attuarsi materiale. Inoltre, ciò risolve l’impasse ormai sclerotizzata dell’agonismo tra rappresentazione e non oggettività, e quella più sottile della naturalezza equivalente della formatività autre: la chiave è quella d’una ragione genetica dell’opera nella doppia solidale chiave della geometria come logos interno della forma, e d’un decantato biomorfismo secondo l’accezione che ne declina Alfred Barr jr. nel saggio Cubism and Abstract Art, 1936.

Altro ha tuttavia alle viste Pomodoro, ed è un intendimento dell’opera come presenza fisica qualitativamente e identitariamente schiarita la quale pronunci lo spazio come quello spazio, in una luce che sia quella luce: che si sappia e sia, dunque, presenza, forma consapevole e autorevole, fatta a un tempo dei suoi pieni e dei suoi vuoti – entrambi apparenti, a ben vedere – e del loro continuo reciproco scambio, fatto di tensioni infinite d’energie radianti, di azioni della scultura e non sulla scultura. Grande Ghibellina, 1965, è uno dei capolavori assoluti di quest’epoca.

Scriverà lucidamente l’artista: “Lo spazio della scultura preesiste alla sua costruzione, allo stesso modo che il seme preesiste all’albero. Non solo, ma è permanentemente un divenire, un fluire di relazioni, fra lo spazio interno proprio dell’opera, naturale o artificiale che sia, e quello esterno durante il tempo della sua formazione, esistenza o distruzione o dissolvimento. Uno spazio vuoto di materia o di energia e di accadimenti è dato? Nel palazzo della scienza il bisticcio tra finito-infinito, continuo-discontinuo, contenuto-contenitore è sempre più aspro e irrisolto”.

3. Il decennio successivo è, per Pomodoro, decisivo per due ragioni essenziali. Da un canto, egli passa a utilizzare la pietra e il marmo, con ciò aprendosi a un’ancor più esplicitata identificazione tra materia scultorea e materia architettonica. La sua presenza dal 1972 a Querceta, epicentro della cultura del marmo, e il suo riscoprire la sapienza atavica dell’artifex scalpellino, schiudono la prospettiva d’una ancor più sorgivamente identificata concezione della scultura come pensiero del costruire.

Scrive Pomodoro in una commossa testimonianza: “Quello della lavorazione della pietra è un universo dove i gesti e le azioni che si compiono sono fedeli ad un antico codice scarno e archetipo, feriale e dimesso, dove il rito, anche se grandioso in alcuni casi, come quello delle “varate” di cava, nel momento della estrazione e calata a valle di bancate di pietra dal peso di migliaia di tonnellate, è austero, non fastoso, ma mitico… Ma fra la polvere e le schegge qui domina l’idea e la necessità del “colpo” deciso ed esatto, della precisione e dell’attenzione estrema, perché il maestro scalpellino sa e deve insegnare che “il peso della pietra non dorme mai””.

D’altro canto, egli prende a identificare con rigore lucido il valore di spazio con quello di luogo, nello scambio continuo e mai esausto tra elaborazione intellettuale ed esperienza storica, in un’accezione affatto originale del motto storico di Giovanni Keplero secondo cui “Ubi materia, ibi geometria”. Già opere concettualmente cruciali come Marat, 1968, e Sole di Cerveteri, per Gastone Novelli, 1968-1969, indicano una ormai marcata esplicitazione della shape geometrica come qualità formale appropriata, pur in una logica che mantiene inalterato il valore fondativo della dynamis boccioniana. L’approccio alla pietra e al marmo comporta una fisiologia diversa del lavoro, la consapevolezza del peso e del rapporto con il suolo, con l’orizzonte.

Tavola comune, 1973-1974, è un momento di chiarezza. Le tensioni si fanno, qui, rapporti complessi e scrutinatissimi tra profili rettilinei e motivi curvilinei, in grado di imprimere una lettura fortemente dinamica, nel senso della rotazione, all’insieme. L’affiorare delle forme formate dall’indistinto materiale, quel loro rapportarsi per inclinazioni e angolazioni, aggetti e cavità, quel loro instaurare rapporti concitati ma insieme regolati e ripensabili è già, a pieno titolo, idea di luogo, e d’architettura. Ed è un luogo, un costruire, che pretende ancora tenere insieme cielo e terra, misura e pensiero dell’umano e proiezione cosmica: e, nel cadenzarsi fitto delle forme, filigrana di simbolo.

Gio' Pomodoro, Due, 1975

Gio' Pomodoro, Due, 1975

Riassume con precisione Carlo Ludovico Ragghianti la complessa lucidità di questo momento: “Quando Gio’ Pomodoro definisce ed attua, o per meglio dire attua e definisce quella che chiama “cattura del vuoto fuori” in corrispondenza col solido e coi solidi “creati agendo dal dentro verso il fuori”, esclude decisamente lo spazio in quanto fenomeno: esso come fattore agente e interagente nella compagine globale è persona del dramma, è soggettivato non meno della forma. L’esplorazione o apprensione dello spazio animato è momento indispensabile, ed equivale all’ingresso in un tempio, che sposta dalle abitudini e convenzioni e tira dentro l’estatico e il contemplativo, potendo non mancare di magica o religiosa suggestione, sia detto senza voler vincolare i siti di Pomodoro a un rievocato arcaico.

Soprattutto in quelle sue platee connettive, a livelli scalati, con grandi pietre scandite, cubi, cilindri, triangoli, e con pozzi o vuoti sotto moli o torri, che la pietra di Trani rende così spontaneamente esaltati, ritorna il clima dell’agorà, se non con le funzioni ed opere economiche descritte o prescritte da Tucidide e da Aristotele, e forse piuttosto con una declinazione di culto solare, non senza però l’implicazione immanente del consenso e della partecipazione civile”.

4. Il ritrovamento della planarità orizzontale come luogo qualificato, come dimora a qualche titolo specificata dell’esistere, non può non affiancarsi alla riflessione congenere sull’archetipo complice per eccellenza, il menhir.

“Grandi spezzoni di pietre grezze sono stati scelti, mossi, sollevati e conficcati nella terra, in verticale, verso il cielo… Monumenti dell’oblio le “pietre fitte” oppongono alla storia scritta la loro muta solitudine. Così è oggi ma così è stato nel passato (quanto antico?) quando già specie più evolute del menhir, pilastri e colonne furono innalzate o crollarono. Segmenti di infinito testimoniano precariamente il dominio assoluto inspodestabile del vuoto indifferente agli accadimenti”. Così si legge in margine a un acquerello progettuale di Pomodoro del 1996, il quale nel 2002, pochi mesi prima della morte, ribadirà in un’intervista concessa in occasione del conferimento dell’“ISC’s Outstanding Achievement in Contemporary Sculpture Award”: “In ancient times, menhirs were raised around the Mediterranean coasts: mute, lonely, strong stone presences. Stuck into the ground, they are the testimony of humanity’s ancestral will and fundamental necessity of putting down roots and identification with the land. The monumental stone that we call “menhir” stands in the open space: a totally empty space. Menhirs witness and represent contrasting elements: air and earth, movement and stasis. They represent the centrality of earth and point in all directions. They symbolize the meeting and co-existence of differences. I consider the menhir to be the prototype of all sculpture”.

Marat, 1971, T-Verticale Orizzontale, al governo di Unidad Popular, Cile, 1973-1974, Colloquio col figlio e Due, 1975, Albero, 1977, estremizzano in chiave di verticalità ormai assunta e dichiarata la questione del rapporto tra superficie e luce, tra superficie e volume, tra gravità e pura pensabilità, tra pieno e vuoto, tra vuoto e vuoto. E pare già che Pomodoro intravveda le erme di poi, la filigrana antropomorfa che fa antropologicamente del menhir/colonna – e dell’albero – il dyplon della statua: ancora, è non oggettività e biomorfismo, in un concepire una forma e un formarsi precedenti e ben più intensi rispetto alle categorie correnti.

Sviluppo naturale è l’espansione della riflessione di Pomodoro sino a ripensare complessivamente il luogo architettante, formalmente delucidato, della scultura come ambito appropriato di vita vissuta, patria dell’abitare della comunità che riempie di tensioni vitali lo spazio vuoto intorno al menhir. Non spazio altro, dunque, ma spazio storico definito e condiviso: non monumento come memoriale di una diversità eccellente, ma come habitus spaziale di vita della comunità. Ciò annunciano Isla Negra, 1975-1976, e Montefeltro, 1976, e Luogo di misure, 1977-1980: ciò, soprattutto, dimostra la prova strepitosa di Piano d’uso collettivo: a Gramsci ad Ales, 1977, vera e propria agorà in cui il valore simbolico si distilla nell’esperienza fisica di qualcuno che non sia più spettatore ma anche e soprattutto, in una politicità non declamatoria, cittadino.

Scrive di Piano d’uso collettivo Dario Micacchi: “Che sia, questa, un’opera rilevante tra quante il nostro tempo ha saputo collocare in un luogo pubblico, non c’è dubbio; così come non c’è dubbio che la sua rilevanza derivi anche da una assunzione, critica ed emozionale al tempo stesso, delle ragioni a favore di una idea nuova di monumento. Non soltanto per la ripulsa di ogni retorica, cioè di ogni presenza (comunque mascherata) di una morta simbologia di poteri estranei od ostili, ma per il modo del suo raccordo al luogo, e direi quasi per la semplicità partecipante con la quale, dal suo basamento, la forma sua tesa sta sul piano d’uso collettivo, offre il proprio uso accanto e con gli altri usi a disposizione. Un modo che forse Roberto Longhi avrebbe potuto definire ‘feriale’, come pure avrebbe potuto collocare questa piazza sarda rinnovata tra gli eventuali, e rarissimi, santuari di un’arte semplice del nostro tempo: e proprio perché forme di complessa cultura, proiettate su orizzonti problematici sottili e stratificati, trovano, per vie che nessuna estetologia a braccio potrà mai prevedere a tavolino, una continuità con l’uso quotidiano e con gli elementi – materiali e simbolici – di tale uso: l’acqua e il fuoco sopra la terra-pietra e sotto la volta del cielo, e i passi della gente, e il loro parlare, e il loro sostare, con pensieri, propositi, solidarietà”.

Da allora, passando per vicende come il Teatro del Sole. 21 giugno, solstizio d’estate, 1979-1983 o il Luogo dei quattro punti cardinali a Taino, 1981-1991, Pomodoro si costituisce come l’artefice primo della risposta a una geniale e misconosciuta intuizione che proprio nella Milano entusiasta Leonardo Sinisgalli affidava alle stampe in un numero della rivista “Pirelli”, giugno 1951: “La nostra cultura sembra aver rinunziato alle grandi costruzioni cosmogoniche che fecero la superbia degli Avi e dei Padri: sembra che attinga il suo slancio nelle possibilità di frattura delle solenni Forme di un tempo, sembra che aggiunga fremito alle morte e sacre Sostanze, sembra aver ritrovato l’Anima del mondo in un sistema di forze, di scintille, di scariche. […] L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è di una qualità sottile, è una verità che è di natura sfuggente, probabile più che certa, una verità ‘al limite’, che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino a un certo punto e soccorre una illuminazione; una folgorazione improvvisa”.

5. In complice, fervido contrasto con la delucidazione dello schema originario orizzontale/verticale, Pomodoro non può non condurre riflessioni altrettanto rigorose ed elaboranti intorno alla ragioni dinamiche della forma e, nella chiave operativa inaugurata, del cerchio in rotazione e della spirale.

Tavola comune e gli Archi, la serie Urobulo e i primi Soli indicano dal 1973 come la scelta di esplicitare il rastremarsi dell’opera in sagome geometriche non indichi una volontà di stabilizzazione formale, e semmai un’accentuazione dei valori primi della dinamica: rotazione frontale e torsione planare spiraliforme – è questo, va sottolineato, un carattere costitutivo primario anche delle sculture a forte verticalità – attivano una dinamica formale attiva, ancora una volta in grado di agire come differenziale forte di spazio.

Nel combinarsi delle griglie rette e delle torsioni la scultura di Pomodoro si fa, in questo tempo, incarnazione perfetta del registro doppio, ma indisgiungibile, dello stare e del vorticare, dell’essere e del divenire, del naturale e dell’artificioso: Sole deposto, 1982, ne è documento esemplare, in quel suo essere microcosmo in cui tutti i valori del cosmo si avvertono compresenti, e i movimenti non sono accidenti ma ragioni prime della ciclicità dell’esistere.

Prende qui, Pomodoro, non solo a riflettere su talune implicazioni simboliche – sia pure in lettura esente da mistiche – della forma e dei suoi elementi primi, in cui pare di risentire il côté sapienziale che è stato di tanta avanguardia novecentesca, da Kandinskij a Delaunay, da Arp a Matila Ghyka. La via che egli intravvede è, più in fondamento, quella di una classicità nuova che riparta dalle antiche sapienze, quelle che dagli Alberti e dai Pacioli rimontano sino al pitagorismo antico, alla sapienza esoterica del numero, della proporzione, della misura, dell’essere e dell’apparire della forma.

Nascono, dai primi anni ’80, gli omaggi espliciti a Hermes, ma soprattutto forme come la Spirale ’82 per l’aeroporto della Malpensa. Le parole stesse che Pomodoro stende in questa occasione esplicitano il nuovo clima di creazione: “Tutto il sistema è un pic­colo teatro di luci e di ombre, per il “sole” come attore, rigorosamente orientato se­condo le quattro direzioni astronomiche, sul piano orizzontale, più quella dello zenit celeste, sulla verticale. Le due strutture, quella orizzontale e quella verticale, sono in rapporto aureo… Il mo­vimento di torsione dei pilastri determina un processo di sottrazione volumetrica dei singoli rocchi, sino a ridurli a un punto virtuale… Ogni più piccola parte dell’intera opera è in rapporto al suo costituirsi come un sistema complesso ma unitario, come l’in­tera opera non può non essere valutata in rapporto a ogni sua più piccola valenza numerica… è anche un sistema plastico, che, sul piano dei contenuti, fa riferimento a quella che, abbreviando, è nota come tradi­zione ermetica”.

Ancora una volta, come è già accaduto nella riflessione sul menhir, e sull’agorà come spazio qualitativo, e sul simbolo solare come dynamis per eccellenza, Pomodoro tenta non di semplificare e unificare, ma di certificare il punto di trascorrimento del significato primo a un senso più profondo e radicale, che tocca le corde della stratificazione mitica del nostro pensarsi al mondo.

6. “C’è una memoria simbolica che è parte di questo grande manufatto, memoria scritta sul granito per essere tramandata. Il delfino inciso alla base del pilastro-gnomone è l’a­nimale sacro al dio greco ed è stato disegnato da mio figlio Bruto. Lo gnomone è contornato e sorretto da tre proporzionali tronchi di piramide, che si avvitano sul suo corpo, con movimenti di torsione, raggiungendo varie altezze ed espandendosi, salendo o scendendo, in varie grandezze, sempre fra di loro proporzionali. Come dire che si va dal grande al piccolo e viceversa, oppure che si sale o si scende”. Così annota Pomodoro a proposito di Luogo dei quattro punti cardinali, che occupa il decennio ’80 esitando in una delle realizzazioni in assoluto più compiute dell’artista, al pari di Luogo di misure, 1977-1980.

Verranno poi altri soli, come in Scala solare. Omaggio a Keplero per l’Università di Tel Aviv, 1988-1989, e altre spirali, come  Spirale per Galileo per Padova, 1992, e riprese potenti delle superfici in tensione, com’è nella Vela per Sestri Levante, 2002, opera che sarà inaugurata nel 2003, dopo la sua scomparsa. Verranno ancora vasti acquerelli che sono insieme studio e opera, ragionanti sulla spirale aurea, sul sole e il suo farsi luogo possibile, sulla presenza potente e ruvida dei massi di pietra e sul loro michelangiolesco annunciare in potenza forma architettonica, su un rapporto nuovamente instaurabile tra massa e superficie tesa. Gli anni ultimi di Pomodoro sono ferocemente intensi, continuamente riflessivi e interrogativi.

Soprattutto, mai paghi di ciò ch’è stato, sempre in cerca di una sapienza definitiva.

Nota. I testi citati sono nell’ordine: Contro lo stile, ora in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Schwarz, Milano 1957; G. Ponti, Negli ambienti d’oggi, in Arnaldo e Gio’ Pomodoro, catalogo, Galleria del Naviglio, Milano, 1955; M. Valsecchi, Per la mostra “I 3P”, in Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Giorgio Perfetti (Studio 3P), catalogo, Galleria del Cavallino,  Venezia, 1955; G. Dorfles, A. e G. Pomodoro. Creazioni plastiche, in “La Biennale”, 34, Venezia, gennaio-marzo 1959; G. Pomodoro, citazione in La scultura italiana del XX secolo, catalogo, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, Skira, Milano 2006; G. Pomodoro, Addio all’età della pietra, in “L’Unità”, Roma, 13 febbraio 1986; C.L. Ragghianti, Gio’ Pomodoro. Sculture 1968/1981, catalogo,Galleria Farsetti, Focette/Marina di Pietrasanta, 1981; L. Tansini, The Emptiness of Space: A Conversation with Gio’ Pomodoro, in “Sculpture”, vol. 21, n. 3, Washington, aprile 2002; D. Micacchi, Santuario d’arte semplice per Gramsci, in “Rinascita”, 6 maggio 1977, ora in Piano d’uso collettivo: a Gramsci. Ales 1977, Quaderni degli Amici della Casa Gramsci di Ghilarza, Milano 1977; G. Pomodoro, in Gio’ Pomodoro. Scultura: intervento nella città, catalogo, Galleria Stendhal, Milano, 1983; Giò Pomodoro, in G. Berengo Gardin – G. Pomodoro, Il parco di Taino, Artificio, Firenze 1995.