Valentini
Nanni Valentini. Terre, catalogo, Arte & Arte, Bologna, 14 ottobre – 2 dicembre 2006
“Sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni”.

Valentini, Nascita del seme, 1980
Così Nanni Valentini, nel 1979, a dire della svolta radicale impressa al proprio lavoro nel cuore degli anni Settanta. Dopo una lunga stagione trascorsa appropriandosi della sapienza ceramica, per ritenerne gli spessori concettuali profondi e filtrarne invece gli orgogli disciplinari; dopo il tempo delle scelte (“Una scelta” s’intitola una mostra rivelatrice del 1963 cui Valentini prende parte all’Annunciata di Milano) e dei rifiuti in seno a un milieu d’avanguardia che egli da subito avverte come inadeguato a un’arte di autentici valori e fondamenti; dopo gli entusiasmi e gli scoramenti: dopo tutto ciò, alla metà di quel decennio l’artista si sceglie solo, ingaggiando un corpo a corpo erotico e agonico con la terra, con le terre, in cerca d’un’arte che sia l’arte, non uno dei possibili che si agitano nel nominalismo mondano delle cronache.
Riparte da una sorta di analitica dei segni e dei modi primi del fare, dai luoghi essenziali della materia e della forma. Vuole trovare, come il maestro Fontana che gli ha insegnato la tensione definitivamente essenziale del segno nei tagli, e il turgido drammatico darsi della nascita nelle Nature, un segno prima d’ogni retorica, un segno intimo, congenito alla materia e non ad essa imposto, un segno come accidente primario che dall’indistinto produce la differenza, e attraverso essa il senso, verso l’immagine.
Nascono in questo momento le forme sorgive alle quali Valentini sarà fedele, tra ritorni evoluzioni varianti reinvenzioni, per tutto l’arco del proprio lavoro. C’è la piastra, insieme cellula del costruire, del far luogo, e punto di massima tensione tra corpo e superficie, tra sostanza e sguardo, in cui le frequenze artificiose del disegno – è impensabile ogni lettura del lavoro dell’artista senza considerare il suo disegnare feroce e fagocitante, quel suo forzare l’astrazione mentale del foglio a farsi essa stessa materia del vedere – si ritrovano nella prospettiva fondamentale del fare, in cui, scrive Valentini, è “l’atto incestuoso della mano che accarezza la zolla e lo sguardo che percorre il solco”. La piastra è zolla e mattone, ed è colore intimo alla materia stessa, proprietà non facoltà che acqua e fuoco rendono manifesta, ma non apparenza illusoria.

Valentini, Casa di Barcellona n. 10, 1982
È, sarà, luogo architettonico, la scala e la soglia, l’arco e la parete. Sarà molto più, il focolare, la casa, la dimora. E c’è la sfera, icona di perfezione e seme impuramente fertile, che contiene in se stesso, nel suo perdersi, il segreto oscuro della forma. E c’è la pelle, quella cui egli conferisce corporeità problematica nella serie delle tele esposte alla galleria Milano nel 1976. “Erano delle tele trasparenti appese e staccate dal muro. In una altra stanza c’erano dei pavimenti di terra”. Cielo e terra, appunto. Cielo, se il cielo è quello di Licini. Lo sguardo che attraversa e lo sguardo accecato. L’occhio e la mano: il visibile e il tattile, e la fervida zona da esplorare tra visibile e tattile. E il limite della finzione, la tela come aspettativa della finzione dell’arte, cui contrapporre la concretezza della superficie e dei segni certi di se stessi. I segni che nascono nella terra, i segni della terra, capaci di farsi parola, di essere altrimenti che figli.
Scrive Valentini nel 1975: “Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso una tela, bagnare di colore le cose. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile. Forse è un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato. La creta, la tela, e la carta sono i supporti che uso”. Muove da qui il decennio straordinario che conduce Valentini, sempre più lontano dal chiacchiericcio dei gusti artistici transeunti, a un viaggio sapienziale entro i fondamenti, entro le ragioni ultime della materia e della forma, del corpo e dell’apparire. “Ma all’arte, anche a quella fatta con la terra, non si addice più il centro gravitazionale dei valori, né tanto meno si può parlare ancora dell’arte come sintomo della dispersione, della crisi del centro, ma anche l’arte fatta con la terra cotta può raccontarci l’apparizione di luoghi, la presenza, anche lontana, di fantasmi abbandonati, di volti muti, di spessori non riflettenti, di percorsi meno attesi. Indizi, frammenti, ma certamente desiderio di uscire di nuovo dalla metafora”, egli scrive.

Valentini, L'Angelo, 1985
Ancora due testi, entrambi del 1979, ne dicono chiaramente la vocazione definitiva. Nel primo si legge: “Come la pietra lega la torre al suo ambiente, diventando perciò essa stessa manifestazione e ritmo del luogo, così nel mio intento la terra vuole diventare traccia e manifestazione di un continuo. Infatti se consideriamo alcuni aspetti del suo possibile contenuto simbolico, troviamo nella Terra-Madre il mito del Figlio-Antenato: antenato come un già essere nato e preservato nella terra e solo dopo manifestato.
Possiamo considerare l’argilla come traccia della continuità del fiume; trasportata infatti dall’acqua essa si deposita nelle anse, si decanta e diventa la parte più filtrata della terra. Possiamo immaginare l’argilla come momento centrale di una dialettica acqua-fuoco, oppure come materia del vaso, ossia materia che lega in un continuo il centrifugo e il centripeto”. E nell’altro: “Penso alla terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore di Geremia, alla Terra Madre che partorisce figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio ed a quella che imprigiona l’ombra delle farfalle. Sono i suoi segni che fermano la mia attenzione. Però una cosa devo chiarire: che queste cose non sono delle risposte in positivo ad un qualche nichilismo in quanto materia-corpo-manualità e tanto meno come un pieno rispetto ad un vuoto (perciò non come polo di qualsiasi simmetria). Non credo alla poesia-comunicazione. Mi piace considerare la terra solo come luogo di una poesia, un luogo vuoto e perciò aperto al possibile, dove l’unico rischio è quello dell’impronta”.
Una materia per Pitagora, 1979, Endimione e i 28 volti di Selene, 1980, Il vaso e il polipo e L’ombra di Peter Schlemihl, 1982. In questo volgere breve di tempo, quattro opere fondamentali paiono sintetizzare i momenti già fondativi della sua ricerca.
Il limite tra apparire pittorico e intima vocazione corporale, la forma e l’ombra, il luogo: il colore e la sostanza, lo sguardo e il volto, e la questione introversa del centro e dell’orizzonte. Valentini esplora, saggia, verifica, in lavori che crescono lenti e scrutinanti, per saggi plurimi che s’intrecciano e dei quali l’esposizione pubblica non è il momento finale, bensì solo un’esigenza di verifica fuori dalle pareti dello studio – per lui, unico ambito in cui il lavoro abbia pienamente senso: ricercare, non risultato – e di messa momentanea in distanza, prima che lo studio, di nuovo, avvolga il pensiero.
E nasce la serie delle Case, con quel suo scavare al nucleo il valore heideggeriano di dimora; nasce la triade Deriva, Annunciazione, Il dialogo della mostra al Pac milanese: ancora una sorta di centrifuga dall’ombelico/orizzonte verso l’organico possibile, ancora una casa, e il motivo nuovo della statua, corpo identitario, mistero sacro del doppio: la statua essere fisico, l’angelo altro dall’essere fisico, nella mediazione dell’ombra. Dopo il mistero metafisico del volto, che dal lavoro su Endimione prolifera come probabilità dello sguardo – chi guarda chi? – e come cecità fondamentale in una serie di varianti e sviluppi d’intensità problematica assoluta, ecco quello sul corpo: la colonna è casa, la colonna è statua, la statua è, come la colonna, forse xoanon, individuo in se stesso sacrato. E la scultura è l’arte unica che ciò possa pronunciare, il corpo e l’ombra, e l’angelo lontano e impuro che, come quelli dell’amato Licini, lascia a sua volta un’ombra – alito, colore – sui muri della casa.