Basilico
Basilico. “Uno sguardo lento”, in “FMR”, 23, 2008
“Ho visto l’architettura riproporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale”. Così Gabriele Basilico, riflettendo su uno dei passaggi cruciali della storia del proprio sguardo. È una suggestione che torna alla mente a proposito della campagna che egli conduce nel 2001, nella regione francese Provence-Alpes-Côte d’Azur, sui monumenti antichi: Puymin, La Villasse, Orange, Saint-Rémy-de-Provence, Arles, Marsiglia, Digne, Fréjus, Cimiez.

Basilico, Orange. Arco di Trionfo
Il tema è ispido e, per il Basilico degli anni recenti, problematicamente fervido. La Provincia Antiqua – così titola la serie di immagini, esposte la prima volta ai “XXXIII Rencontres Internationales de la Photographie” di Arles e raccolte in libro – implica per l’autore un rapporto affatto particolare con la propria materia.
Sono anni, per lui, in cui l’approccio che ne ha contraddistinto la visione, fatto di luci e ombre nette, di una intensificazione dello sguardo edificata su scarnificazioni critiche del soggetto sino a farne apparizione icastica retta da acribia intellettuale, e che era il suo modo di evolvere e declinare lo “stile documentario” così come Walker Evans l’avava consegnato alla tradizione nuova della fotografia, può permettersi una minor sorvegliatezza, un rapporto a un tempo più disincantato e meno concettualmente acuminato con il processo.
In altri termini, dopo serie memorabili che vanno da Ritratti di fabbriche a Porti di mare e a Beirut, le quali segnano il decennio primo del suo operare, subentra nell’approccio di Basilico una trama sottile di riflessioni ulteriori. La durezza deliberatamente spersonalizzata, anemotiva, dei tempi primi è comunque, egli se ne rende consapevole, affermazione di metodo, scelta etica e, per altro verso, estetica. È comunque un approccio interpretativo ed entro certi limiti soggettivizzante, implica giudizio e coinvolgimento, si muove, pur con tutte le evoluzioni e distillazioni del caso, nel solco del riferimento problematico a un’antiretorica visiva su cui proiettano ombre ingombranti pietre miliari come il Paul Strand di Un paese e il lavoro di Paolo Monti.

Basilico, Orange. Arco di Trionfo
Basilico avverte il residuo di intenzionalità insito nel modo diretto, centrato, oggettivizzante, del quale fa esperienza alta. Credo ciò accada a Beirut, 1991, situazione in cui la realtà impone un’evidenza di per se stessa fortemente carica di umori emotivi e addirittura simbolici, e l’autore agisce in una condizione in cui il tempo, forse ancor più che lo spazio, si fa decisivo. Un luogo antico e fortemente antropizzato, e dunque portatore di un’identità sedimentata e lontana, forte e aromatica, si espone allo sguardo con una sorta di dimessa e quasi spettacolare impudicizia: il tempo che preme sull’autore è quello d’una storia che si è interrotta nella faglia scavata da un’altra forma di intervento umano, distruttivo; ed è il tempo di quel suo camminare, guardare, introiettare i luoghi tentandone la ragione impossibile. L’altro tempo, quello dell’inquadratura e dello scatto, ridiventa qui solo funzionale, non, comunque, cruciale.
La fenomenologia della mutazione dei processi urbani, tema intellettuale d’innesco, è, qui, esperienza estrema. Da tale assunzione di consapevolezza matura la svolta del Basilico degli anni Novanta, che mi piace pensare come quella di una temporalità allentata sino a sospenderla non nella liturgia della ripresa fotografia, non nella costruzione artificiosa dell’immagine, ma in quello che lo stesso Basilico ha sintetizzato nell’idea di “sguardo lento”.
Spiega l’autore ad Andrea Lissoni nella conversazione Architetture, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia, appena uscita: “Il fotografo deve stare sempre attento a non contraddire ciò che l’occhio vede, non deve essere influenzato o distorto da sentimenti, da incrostazioni o da ideologie culturali, né da ricordi o da altro, non deve prevaricare né forzare, ma essere appunto contemplativo, con uno sguardo lento, che mette a fuoco e coglie tutte le cose, che si impossessa e rende protagonista lo spazio; l’occhio diventa tutt’uno con il medium fotografico, neutrale e senza pregiudizi come la sua macchina, una macchina anch’essa normale, che non ha bisogno delle dilatazioni del grandangolo o delle compressioni del teleobiettivo né dei colori artefatti dei filtri”.
Tale è, ormai, la souplesse intellettuale di Basilico che è senza civetteria che egli introduce il valore di neutralità nel proprio discorso. Neutrale un autore è perché il suo processo non fa aggallare i fattori problematici che lo determinano, il lavorio di scrutinio, affinamento affettivo, introiezione suggestiva, rimuginio intellettuale, che rumina l’immagine prima dello scatto. La necessità critica non è esplicita, non è “the matter” della fotografia, così come la sua qualità estetica è, per usare un termine caro alle avanguardie del secolo, indifferente.

Basilico, Arles. Anfiteatro
Ciò accade perché quelle nourritures del processo sono fattori ormai ad esso naturalmente congeniti, dunque neutralizzati. Il “culturalismo metodico” – rubo la definizione straordinaria a Luciano Anceschi – che ancora residuava nel Basilico del primo decennio si è metamorfizzato in una coscienza più grande, quella che fece scrivere nel 1936 a Wladimir Weidlé, citazione per citazione, “cherchez l’art seul et vous n’aurez pas d’art.”
Tutto ciò si riscontra esemplarmente nella scelta di Basilico di accettare la richiesta dell’Agence Régionale du Patrimoine di fotografare ciò che, all’apparenza, sembrava ormai non più fotografabile, i monumenti romani e tardoantichi della Gallia mediterranea.
Varie, sono le ragioni di tale infotografabilità. Le lesioni permanenti del soggetto, in primo luogo, che non sono quelle inflitte dall’azione demolitrice della storia, ma quelle della ben più violenta desoggettivizzazione indotta dal consumo turistico, dall’impronta indelebile che, in un modo sul quale Ruskin avrebbe riflettuto molto, ogni passaggio di visitatore lascia sul monumento sino a plastificarlo e straniarlo definitivamente. Troppe visioni, si sa, nessuno sguardo.
In secondo luogo, la storia altrimenti alta degli sguardi, potenti e intensi, che nei secoli hanno deciso e per certi versi solidificato la costituzione monumentale delle pietre, che ne hanno stabilito l’idea. È storia di voyageurs che hanno riscritto i luoghi in parole e immagini, Jean-Jacques Rousseau come Hubert Robert, e storia di fotografi come quelli della Mission héliographique del 1851, Hippolyte Bayard, Henri Le Secq, Auguste Mestral, Gustave Le Gray e soprattutto Édouard Baldus, classico tra i classici, che proprio in questi luoghi aveva operato.

Basilico, Saint Rémy de Provence. Arco di Trionfo
Terzo, e non certo ultimo, il fatto che questi temi non sono distanziati e incorniciati come architetture altre rispetto alla realtà urbana odierna, ma vi sono profondamente calati, frammenti a loro volta anomali dell’anomalia e tipicità irrevocabile che è il tessuto urbano attuale. Si tratta, dunque, non di exempla posti in distanza, ma di elementi che a un tempo dicono di se stessi il passato e il presente, in una dilatazione/compressione temporale, in un gioco di specchiamenti storici, che il milanese Basilico, aduso a inciampare nella sua e mia città in brandelli d’antico ridotti a meri ruderi deidentificati neppure attrattivi d’uno sguardo, ben conosce.
Lo sguardo lento di Basilico, per sapersi neutrale, effettivamente contemplativo, per riguadagnare la condizione che Emily Dickinson diceva “soltanto i nostri occhi spogli”, ha voluto e dovuto stremare criticamente questo intreccio fitto e ossedente di evocazioni e memorie, di stereotipi e plurime non omogenee visioni, pervenendo a farsi neutro in forza di consapevolezze progressive, di pazienti risposte date a se stesso come in una forma di meditazione e concentrazione preventiva e di decantazione inappellabile.
La retorica dell’antiretorica, ben sa chi faccia professione di studiare l’antico, riesce a far danni quanto e più della retorica in se stessa. Qui, più che in molti altri campi, spesso la risposta genera la domanda, obbliga il viaggio della cognizione. Dunque l’avvedutezza, l’acuminatezza intellettuale deve essere massima, e insieme ulteriormente attenta alle deviazioni di percorso che essa stessa innesca nelle sue surrettizie ansie protagonistiche.
Basilico ha camminato nella Arles di van Gogh e nella Cimiez di Matisse, così come nella Marsiglia di tanti sino a Jean-Claude Izzo – ciò, per dire quanto la storia d’un luogo sia anche, volenti o no, un riverbero continuo di miraggi possibili – e ha convocato tutto per tutto metabolizzare, ritrovando infine la docta ignorantia che gli era necessaria.
Alla fine, solo alla fine, sono nate le immagini. Ponendosi di fronte a queste architetture l’autore le ha potute, infine, contemplare. Il che vuol dire che ha potuto guardarle non prescindendo da tutto il retaggio che essere portano in sé, non tentando una inane purezza rispetto alla folla di pulsioni variamente pittoresche e cólte che esse suscitano, ma con umiltà paziente tutto considerando, sino a disperderlo nell’asciuttezza micidiale dello scatto.
Questo, soprattutto, l’incursione tutto sommato un po’ atipica di Basilico nella fotografia di soggetto artistico e monumentale ci consegna. Documentare non è inseguire il mito della fedeltà improbabilmente classica al tema, non è fare mitologia tecnica di perfezione e purificazione d’un vedere che si sceglie ancillare alla bellezza del soggetto, e men che meno è, all’opposto, appropriarsi dell’altro con arroganti mozioni di stile.
Guardo queste foto di Basilico, “humble et colossal” come il Pissarro di Cézanne, giusto per restare da quelle parti, e penso che esse sono art vivant, prima di tutto. Perché sono un rapporto, perché sono, prima di tutto, pensiero pensato che si fa icona, oggi, ancora.