Dadamaino
Dadamaino. Passo dopo passo, catalogo, Studio Reggiani, Milano, 26 ottobre 1989
Con agonismo dolce, e inattualità serena e distante, Dadamaino prosegue da anni la sua partita con il vuoto.
Compagna e protagonista è stata, decenni fa, dei soprassalti ultimi d’una avanguardia che, non rifondatrice d’un mondo, d’una ragione, ne era e poteva essere almeno l’avida, agguerrita interrogatrice, per straniamenti incalzanti, per attitudini antiretoriche fatte provocazione dissolvente e domanda ineludibile di verità. Klein, e Manzoni, e intorno Azimuth e Nul e Zero… La scommessa era un uso così autocritico, e intransigente, del metodo, della lingua autofondata fuor di metafore e metamorfosi del senso, della ragione come sistema orgoglioso di consapevolezze attuabili, da provocarne in facto il punto interno di crisi, di frattura dell’ordine costituibile, di dissoluzione irrevocabile.

Dadamaino, Passo dopo passo, 1989
Erano, allora, i Volumi, 1958-59, schiusure concettuali non plastiche del campo del pensiero attivo; poi, 1960, i Volumi a moduli sfasati, in cui già l’iterazione regolare, la clausola sistematica spingeva il rituale del fare oltre la soglia della monotonia metodologica, e si ritrovava in laicismo ludico: congiunto, già, alla gratuità segreta del mondo. Quell’algida e tersa formalizzazione del possibile era altro dalla combustione nitida dei gesti di Manzoni, blasfema e testimoniale, a suo modo esemplare ancora, sottrazione di senso all’esistenza, domanda mortale offerta dall’ethos ribelle; altro, anche, dalla plasticità pur ritrovata nella confidenza silenziosa e formalmente construens di Castellani, a costituire entro la luce una misura non cieca del tempo. Di un tempo, anch’essa, si interrogava, ma chiedendosi una sorta di nudità affettiva, una qualità soggettiva dell’avvertirsi al mondo capace ancora di fremiti intensificati e di segni che li registrassero, che a un livello minimale d’epifania battessero la frequenza della pulsazione mentale. Dematerialità, dunque, non sinteticamente dissolvente né sublimata nell’ossessione, ma dipanata sul filo lungo e teso d’un sentimento del tempo d’altra totalità, cumulante minuzie dell’ordinario e straniamenti metafisici, accidenti contingenti e ansie d’un cosmo intessuto d’energie fantasticanti. E senza ideologie e dimostratività: di una privatezza autentica, d’individualità impostulata: unica, irripetibile, sola, per forza interna di necessità.
Più volte il corso lungo di questi ricercari è stato ricostruito, in mostre e saggi. Un corso senza curriculum, capace di silenzi e attese, di divagazioni apparenti e di centralità cruciali. Avanguardistico, ancora, non per volontà affermativa di stile o intenzione modificatrice ma, nella sua incoercibilità ritratta, per la potente carica etica, e la tensione autocritica, e il rifiuto d’ogni captazione compiacente. Come condizione scalza, unica condizione possibile, se non di verità, d’autenticità certo.
Valga, qui, rimemorare due tappe. 1976, Lettera a Tall el Zataar, trepida e agghiacciata sequenza di croci tracciate con il dito sulla sabbia. 1978, primi fogli dei Fatti della vita, accumulo di brani abitati da grafie regolari e ossessive, tenacemente iterative e insieme perse dolcemente nella sismografia ordinata delle fluenze emotive interiori. Era, in un’antropologia non ortopedica, ritrovare la primarietà della mano tracciante, l’intensità di un agire modificando nel tempo il campo dello spazio a una frequenza d’iniziale percettibilità, già identica eppure vaso ancora d’ogni possibile di senso. Era, in quel gesto, un sentirsi pensare e pensarsi sentire che trovava la propria scansione, e continuità, in una sovrapposizione perfetta e naturale fra tempo di vita e tempo d’arte. E, in quei fogli accumulati e semplicemente apposti, una plenitudine che lasciava intatta la vertigine del vuoto, assediandola, in una partita di lunghezza vitale.

Dadamaino, Passo dopo passo, 1989
Quel momento è il colmo di una maturità decantata in via definitiva, purificata dei residui di artisticità estranee, eretta infine nella certezza d’una coscienza che, fuor di retoriche, conosce modo e ragione di misurarsi all’esistenza. Ecco, allora, la soglia di quest’ultimo decennio nitido e fertile, consequenziale e rigoroso non per scelta, ma per congenita natura e vocazione.
Nascono dapprima le Costellazioni. Ancora sono sequenze, composizioni ora ordinate di fogli: d’un ordine in sé insignificante: campo neutrale, teorico, puro possibile di coscienza. Carta, non tela, non materiale dotato d’evidenza e fisiologia forte. Confidente alla mano, intima al crampo del segno e al pascolo complice dell’occhio.
La mano vi agisce rinunciando anche alle salvaguardie ultime del metodo, l’orientamento e la cristallizzazione convenzionale del segno. Il segno vi è monema indefinito in sé, che da un punto qualsiasi dello spazio equivalente prende a moltiplicarsi come per proliferazione cellulare, a inseminare la superficie seguendo corsi divergenti, addensati rarefatti, intensivi levitanti, attratti dispersi… Non costrutto, equilibrio, bensì tensione circolante e ricca, energia che, dall’avvertimento fisiologico ed affettivo del corpo che traccia, prende a effondersi e pulsare in questo spazio di oggettività intuìta più che definita. Ogni Costellazione è interna scansione e misura del tempo di vita attuata in forma: possibile, impreveduta, indefinita: ma precisa, spazio di qualità e intensità di senso. Cosmo non caos, d’identità impreventiva. Cosmo d’un logos e d’un sogno, d’un gioco giocato con il “secret du monde”.
Quei rossi, e verdi, e azzurri, benché spossati fino all’inesteticità, conservano tuttavia barbagli d’una bellezza echeggiata, d’una captazione sensoriale che la carta rende dolce e ricca. Dada, la cui scommessa non clamorosa pretende tuttavia una purezza estremistica, intransigente, anche da quei residui d’artisticità vuole ritrarsi. La pienezza di cui è in cerca non è sensuosa; “le vide”, per lei è il diaframma sottile d’un collasso mentale. Elude, senza tradire la normalità della pratica (ogni sperimentalismo suonerebbe, ormai, attrazione modale e mediale, nuova fuorviante curiosità), la ricettività ospitale della superficie, adottando un materiale opaco e distante, esplicitamente privo d’identità e storia: spazio teso e preciso, ma d’incerto carattere e d’ambigua dimensionalità, come una sorta di lattiginosa consistenza dello spazio.
Qui prendono nuovamente a proliferare, come aggallando, i segni, la mano a tracciarli netta e solo per movenze brevi e fitte; di più urgente insistenza, ora. Monta, nell’accertarsi e distendersi di queste linee forza, di queste nervature solcanti di spazio, non più la dolcezza ossessiva, il ritmo comunque pieno e trovato, di anni fa, bensì una sollecitudine inquieta, una sorta di continua collisione interna che fa ansimare i nuclei, in un ordine puntuale come costretto, bloccato alle soglie d’una effusione conflagrante.
È un corso, un clima tutto nuovo, che quest’ultima serie di lavori ci offre di Dada. Venato d’irritazione e angoscia, come ad avvertire verità estreme e ineludibili; e ancora, pronto ad affondarvi senza remore, fino all’autenticità ultima possibile.