Cremonini
Leonardo Cremonini. Per una o più letture, catalogo, Montrasio Arte, Milano, 22 gennaio 2002
“Tutto il grande dominio del confronto con le immagini fenomeniche ottiche del mondo oggettivo è in grado di emettere solo deboli impulsi. L’arte è diventata astratta”. Si potrebbe cominciare da qui, dalla profezia volontaristica formulata nel 1959 da Werner Haftmann in prefazione al catalogo di Documenta, per comprendere le ragioni forti, fondative, di una scelta pittorica come quella di Leonardo Cremonini: inattuale allora e ora, per determinazione imperturbabile. La notazione cronologica può aiutare. Il 1959 è, per Cremonini, l’anno di I montoni tra i fichi d’India, di Fra le pietre al mare, di Articolazioni e disarticolazioni (1). Quadri, tutti, che non solo fanno mostra di un grado di maturità, di padronanza linguistica, già largamente acquisiti ed esercitati con lucida souplesse, ma anche e soprattutto di una consapevolezza concettuale del processo formale, d’una sottigliezza acuminata nel saggiare i percorsi del vedere, dell’apparire, del far vedere, del Dasein dell’immagine.

Cremonini, Le réveil, 1961
La scelta parigina, il lavoro prevalente sulla scena statunitense, hanno sottratto d’altronde Cremonini dalle secche del dibattito italiano, in cui dalle opposte barricate del figurare e dell’astrarre si levano grida sovente inani. Egli sa, per riflessione non per fascinazione, il valore d’immagine filtrato dalla cultura surreale, quel valore di étrangeté così come lo intendeva già Baudelaire nel 1848 scrivendo di Edgar Allan Poe (2), e che la Metafisica, e per altro verso la Nuova Oggettività, avevano rifondato in pittura. Una étrangeté costitutiva, genetica, beninteso, figlia di un’estetica casta anziché delle caste estetiche maestre in quella che Remy de Gourmont chiamava la “bellezza di passaggio”. Una étrangeté necessitata e necessaria, soprattutto: in quegli anni cinquanta a maggior ragione, quando pare avverarsi definitivamente – e ciò, d’altronde, sottindende al proclama esemplare di Haftmann – l’antica analisi di Paul Valéry: “La Bellezza è una sorta di morta. La novità, l’intensità, la stranezza, in una parola tutti i valori di choc l’hanno soppiantata” (3), iniziando le proprie riflessioni feroci sulla coazione alla “contreimitation” e sul “système d’être hardi”.
Altro è il valore che Cremonini attribuisce al concetto. Egli intende una fisiologia, una sostanza d’immagine, costitutivamente autre perché pittorica, e un congegno rappresentativo fatto di intarsi, riverberi, collisioni di codice, scacchi alle predizioni dell’aspettativa narrativa, così come piuttosto s’intende nelle teorie di Sklovskij sullo straniamento, opportunamente evocate per lui da Umberto Eco (4), e come la non mai abbastanza studiata antropologia ci dice del valore dell’opera figurativa primitiva: la quale non riferisce di una realtà magica, ma è in se stessa realtà magica; la cui sostanza extraordinaria fa sì che il suo significato non possa trovarsi al di fuori della sua stessa esistenza. Per questo le sue opere d’avvio, nel decennio cinquanta, non possono che leggersi secondo un protocollo d’alterità dal naturale, dal referenziale, dal sistema delle somiglianze, a prescindere dagli elementi visivi che le costituiscono. Ben se ne avvede, sin dall’inizio del decennio, la critica più precoce, che tende a sottrarre le proprie letture dalle clausole polemiche figurare-astrarre, per appuntare l’attenzione sulla qualità forte, autonomamente costruttiva e significativa, della pittura (5). Ben se n’avvedono, soprattutto i suoi lettori più avvertiti d’allora, William Rubin osservando che “i colori di Cremonini fanno parte di un ordine che si svincola dalla realtà materiale” (6); Marco Valsecchi notando questo “lucore fosforico, questo intarsio lucido di zone fredde di colore, questo cangiantismo inconsueto e come percorso da un desiderio di classica eleganza e di rilievo plastico”, e spendendo un non banale riferimento a Pontormo (7), a indicare da subito quanto questo artista innamorato del classico vada nutrendosi d’inquiete mozioni anticlassiche, con amore senza rispetto.

Cremonini, Les sens et les choses, 1968
Cremonini opera su un’economia cromatica rappresa, in cui la sensuosità immediata del colore ceda a una intonazione meditativa; con quei grigi e bruni a far da dominante, e insieme nutrimento, ai passaggi inameni dei celesti e dei rossi: i quali rossi soli, talora – penso a Les balcons d’Italie, 1953-55, ad esempio – risalgono a valore di timbro, di sovratono dissonante. Le stesure sono d’altronde asciutte, e anche in quella cruciale fine di decennio, in cui astratto e art autre paiono identificarsi nelle norme mondane, non s’attardano sul grondare delle materie, sul rilucere delle tinture: di lì a poco ritrovate in velature e dilavamenti di trasparenza, sono ora, già, sostanza più che materia, che traccia un’anatomia della forma di cui avverti il ripensatissimo valore fisiologico, ma per corsi di organicità tutti interni al formularsi aspro, delucidato, degli intarsi grafici. Sono figure, quelle di Cremonini, in quegli anni perfettamente inscrivibili in un’idea di corpo/paesaggio, del quale avverti una sorta di pericolante valore vitale, di dramma esistenziale sospeso, riottoso al tempo.
È chiaro che quanto si va dicendo indichi una estraneità incoercibile di Cremonini dai tempi, dai modi, dagli umori delle estetiche decennali. In realtà, tuttavia, tale è la conseguenza, non certo la ragione, d’un atteggiamento ben più affondato alla radice della questione pittorica. Ed è chiaro anche che i successivi sviluppi dell’art vivant, la Pop in primo luogo, agiscano dunque da elementi liberatorii, svincolanti Cremonini verso una ancor più azzardata peinture conceptuelle, anziché da messa in crisi del suo ripensare la figura. Se volessimo davvero incrociare i valori del popism di scuola statunitense con quelli, differenti in sostanza, dell’area britannica, un Kitaj in testa, e con certe parallele acquisizioni di consapevolezza nell’ambito del valore di descrizione, e di narrazione (verrebbe da dire, all’antica, di “storia”), così come va maturando la ricerca letteraria – La modification di Michel Butor è del 1957, L’Herbe di Claude Simon del 1958, Dans le labyrinthe di Alain Robbe-Grillet del 1959… (8) – anziché d’un nuovo figurare, variamente adesivo alla pelle deidentificata delle cose e al puro pattern situazionale, potremmo dire meglio, appunto, di una peinture conceptuelle, d’una peinture à signes che agendo sul proprio stesso codice ritrovi un autonomo, ancorché altro, luogo buono. Forse è azzardo critico, ma ipotizzare una maggior consanguineità di ragionamenti tra le pitture del Cremonini dei primi sessanta e il versante letterario, piuttosto che con il dibattito pittorico, può trovar conferma anche in dati come lo schema retorico del viaggio in treno (La modification così come, per il pittore, una serie intensa di dipinti dei primi anni sessanta) o nella visività enfatizzata sino ad elidere la possibilità ordinata di racconto che leggiamo in L’Herbe. E discorsi affini, è ben noto, si possono istituire tra il regard dell’artista e il cinema.

Cremonini, Le soleil indiscret, 1985-1987
Non è tuttavia questo il punto. La questione da affrontare senza remore, Cremonini sa bene, è da tutt’altra parte rispetto alle norme di codificazione, della pittura come delle altre arti. Peinture conceptuelle, nella sua accezione, non è giocare la partita del codice e delle retoriche a partire dal teatro delle parole, delle nominazioni, delle formule che, in valore di liturgia, pronunciate fanno – pretendono di fare – di per se stesse pittura. È, semmai, l’opposto esatto. È ritrovare poesia e necessità della pittura, oltre ogni stendardo di storicità (quanta preoccupazione primaria di storicizzarsi, si legge in ognuna di quelle che si dicono posizioni artistiche); poesia, in quanto atto di ragione sublime, di pensiero che non si gongoli nella propria debolezza deresponsabilizzata ma si voglia, vincente o perdente non importa, pensiero forte, attivo (“tutto quanto è analitico nella mia epoca è per me un riferimento molto importante”, ha dichiarato l’artista (9), opponendo l’analiticità del pensiero interrogativo come spazio stesso di libertà all’ideologia come eteronomia); necessità, perché Cremonini è ben consapevole dello statuto civile dell’arte, di una “funzione” che è nel suo stesso stabilirsi in valore, o in desiderio di valore, aspirante ad essere d’una comunità ancora consapevole di sé. “È – dice ancora Cremonini – continuare a difendere l’uomo in tutto ciò che ha di conflittuale con l’oggetto, essendo l’oggetto il prolungamento del suo desiderio mai completamente soddisfatto” (10).
Tant’è. Lo sguardo congelato della Pop non produce debito, anzi conferma a Cremonini che lo spazio della pittura è straordinariamente libero da ingombri rappresentativi, e può concentrarsi sull’introiezione e costruzione di una visione complessivamente, intensamente situazionale. Meglio, l’artista ora si rende definitivamente consapevole che la somiglianza è, così come il codice storico ce l’ha consegnata, una forma di tradimento, che si costituisce alibi della conoscenza anziché principio conoscitivo; che vive della gratificazione surrettizia del riconoscere, che è pelle non corpo, fotografia non identità, plot e non racconto.
Egli prende a lavorare sul dato memoriale e sull’ambiguo statuto suo di realtà (11), sino ad implicarlo in un sorta di evidenza continuamente posta come presenza e sottrazione, che giunge a collidere e confliggere in fervida ambiguità con la stessa misura memoriale dell’aspettativa indotta dalla fotografia. Valgano, questa volta per mera consonanza, ulteriori suggestioni letterarie, il sapiente Jabès, e Tabucchi: “Una sera, nel trarre per me da un vecchio cassetto alcune fotografie della sua giovinezza, mi riferì il seguente dialogo tra un bambino e la nonna, mentre quest’ultima mostrava al fanciullo il ritratto di una donna assai graziosa: – Nonna, chi è questa signora? – Ma io, caro, quand’ero giovane. – Ed ora, chi è? E mi disse: – Vede, è in questo Ora, chi è? che consiste l’enigma di una vita” (12); e ancora “E ti accorgi che la vita è lì nei diversi segmenti che stupidi rettangoli di carta rinchiudono senza lasciarla uscire dai loro stretti confini. E intanto la vita è gonfia, impaziente, vuole andare al di là di quel rettangolo”, perché “la vita è prigioniera della sua rappresentazione: del giorno dopo ti ricordi solo tu” (13).

Cremonini, Fin d'été, 1991
Parimenti, egli prende ad agire sul processo di specchiamento – e sul codice retoricamente visivo dello specchio stesso, di lunga esperienza nell’antico – adottandone il congegno degli straniamenti non solo e non tanto in quanto Einsatzbild, gioco di quadro nel quadro, ma soprattutto in quanto invincibile mise en abîme della presenza, dell’opaca quantità del dato sensazionale, per una moltiplicazione teoricamente infinita di climi visivi, di schegge di cui la mente si appropria ansiosa di ricostruire spazi e tempi e luoghi, per ritrovarsi infine in un teatro d’apparenze, durate, umori, aromi (“Specchi nei quadri, ma non quadri-specchi, piuttosto degli schermi su cui si proietterebbero delle ombre, no, s’imprimerebbero, e non solamente delle ombre, degli odori anche”: così Michel Butor (14)): perché, ci dice Louis Althusser, Cremonini “raffigura attraverso il gioco delle rassomiglianze iscritte nelle differenze” (15).
Già in un dipinto del 1960-61, Camera aperta al mare, sono sinteticamente dispiegati gli elementi di base sui quali egli costruirà il proprio teatro sospeso: lo scarto interno/esterno, la presenza dell’acqua (“Nel desiderio, c’è sempre dell’acqua da qualche parte”(16)), valori luminosi e sostanziali di trasparenza e pienezza, la veste appesa come un estraneo attributo umano un po’ feticcio un po’ desolazione, la figura femminile in una posa insieme quotidiana, intima, ma per altri versi evocante l’esemplarità già distillata dell’arte (tanagrina nei gesti, bonnardiana nel rapimento sottile dello sguardo complice e sdoppiato); soprattutto, quella sorta di demateriazione, di dilavarsi del corpo nello scrutinio dello sguardo, quel farsi sindone intellettuale ed emotiva della figura che si perde, per ritrovarsi in sindone pittorica. E lo specchio, figura chiave che ci spinge verso altre retoriche dell’arte per subito imporci uno scacco perpetuo, condizione connaturata, par alludere Cremonini, all’arroganza della nostra aspettativa di riconoscimento, di attribuzione d’identità.
Può dunque, Cremonini, ripercorrere le vie antiche del quadro come machina di senso, congegno e partita, gioco con regole, gioco con regole e deroghe (17): la regola dell’apparente normalità di senso e del trascolorare dolce e velenoso dei significati primari; la regola dello spazio come ordo disciplinato e gerarchico, che si sfalda in percorsi disorientati, prede d’un’alea allarmata; la regola, infine, dei nessi logici tra personaggi e ambienti, tra spazi interni ed esterni, ciascuno dei quali devia dal compito attribuitogli dal bon ton narrativo contribuendo a una economia di racconto dai rapporti plurimi, divergenti, ritratti. Il tutto, sottoposto alla distonia primaria, delibata come sostanza tra le prime dell’immagine, quella tra la temporalità sospesa dell’apparenza e quella lenta, prolungata, avvertita sino alle soglie del collasso ottico, del pascolo dell’occhio, d’una lettura che non può mai darsi come attuale e sempre come dilatazione, e dilazione, della conquista del senso. È, s’è letto, una sorta di “idea ossessiva di sovversione clandestina” (18) a stabilire e scandire la durata dei corsi della visione e del senso.
È un discorso sull’apparenza, una notomia crudele e voluttuosa dei corpi, delle forme, un’operazione narrativa tragica e fastosa, ferocemente analitica e sensuosa.

Cremonini, Terrains vagues, 1997
Beninteso, non si dice qui solo del corpo come paradigma antropomorfo d’identità, ma come luogo fisico e intellettuale complesso, totale: corpo, che in pittura si fa corpo altro nell’alterità – a sua volta in fondamento corporale – della pittura. E quadro come corpo in sé, con i suoi contorni, con quei bordi che lo identificano, per differenziale, come luogo stesso d’esperienza orientata. Les fragments du corps aimé, 1977-78, sono un passaggio cruciale in al senso. La frammentazione, il labirinto concettuale, si produce tra le portanti rettilinee e quelle curve che innescano una brusca démarche spaziale: e a scandirsi sino a un probabile umore di perdita dell’unità non son tanto le fattezze del corpo – con quella mano che non sai se appaia o s’imprima non sai se sulle piastrelle o sulla tela, quanto la stessa aspettativa e nozione del quadro come unità, del rettangolo cautelato dall’intelligenza del vedere. Chi vede cosa? Cosa è visto? Qual è, soprattutto, la condizione, la qualità, di visione?
Tale notomia si regge su una concezione di responsabilità formale alla quale Cremonini ha votato sin dagli inizi fedeltà esclusiva. Non la retorica delle verbalizzazioni estetiche, men che meno il teatro gleaming di immagini orfane di radice e destino è la sua partita. L’immagine si genera e motiva a partire da un ethos che par corrispondere, per l’artista, al monito di crisi lucidamente sintetizzato da Odo Marquard: “Dove la realtà si trasforma in un insieme di finzioni, l’arte a sua volta diviene antifinzione” (19).
Cremonini dice di “art impliqué”, certo per differenziarsi dai troppi retrogusti ideologici della nozione di engagé, e forse evocando la più ampia e umanamente ricca nozione che Victor Hugo indicava come “art enrôlé” (20).
Il suo ethos s’esprime primariamente – e il dato va sottolineato con energia – nel farsi della pittura, nel processo lento e di lucida passionalità che conduce all’immagine. Cremonini muove dall’aleatorietà della tache, da un grumo informe, ancora, ma già vocato, di materia sulla tela, di pittura che prende a formarsi per fluidità e trasparenze, per differenziali di tono, per intonazioni di velenoso viraggio del naturale, per coaguli lievi di luce, indicando all’artista i propri destini progressivi di forma e sottraendogli insieme l’illusione antica della centralità antropomorfa e del suo métron. Egli procede con una sorta di crudeltà sottile e imperturbabile, entrando/uscendo da inserti di mero pattern decorativo e da un’architettura di spazio che si stratifica e – in pelle – ordina, disponendo nel labirinto spazioso figure che destano e distruggono l’illusione del corporeo, in uno stato di riflessione dell’evidenza ottica talmente delucidato da farsi sovrapregnante, da rendere l’attenzione, sua e nostra, perplessa, in virtù di quelli che Arnold Gehlen ha concettosamente definito “strati di interferenza di dislocazione trasversale reciproca” (21), a elevare il grado di tensione interna di un testo iconografico il quale mantiene integra, e forte, la consapevolezza d’essere una superficie in diritto autonoma, oggettiva in sé oltre che in rapporto con livelli esteriori di oggettività.
“La prima linea di forza è la voluttà. Il quadro ha inizio con delle impronte di materia colorata che si distendono sulla tela bianca come per eliminare la superficie astratta. Le tracce lasciate hanno inevitabilmente dei rapporti con l’imprevedibilità del caso, ma anche con questa voluttà biologica e pittorica che è tipica del pittore. Nel lavoro successivo entra in scena la ricerca di ciò che chiamo la necessità. Essa è per me la sola nozione valida di rigore, come se la necessità fosse referenza all’integrità di un corpo organico cui nulla può essere tolto, né aggiunto. […] In seguito questa apparizione deve raggiungere il massimo di necessità in se stessa, in quanto costituita dagli elementi indispensabili e significanti che la compongono. Il rigore si applica nell’apparizione come nella scomparsa. Il mio desiderio d’un dipinto che sia linguaggio mi spinge inevitabilmente a far nascere sulla tela molteplici apparizioni” (22): così Cremonini.
L’artista procede lento, per tempi di sedimentazione e scrutinio di ogni passaggio, di ogni bivio di scelta, che dicono d’un crescere della forma attraverso la seduzione cautelata delle apparenze, attraverso il vaglio e lo scacco all’arroganza del visibile, sino alla visione. E ogni passaggio, nell’ethos di Cremonini, è ricerca di valore ma anche ricerca d’un fondamento dell’arte come possesso stabile. Prendendo a prestito la nozione di “funzione letteraria” di Tynjanov, possiamo considerare come questo stesso farsi della pittura sia proprio, nel rigore della propria autonomia, relazione, dialogo, antagonismo, con il sistema stesso della pittura. Cremonini opera, con altrettanta feroce consapevolezza, a scavare e interrogare il varco tra il valore classico (che è misura intellettuale, senso capace di darsi e di pronunciarsi in forma, con ogni evidenza, non canone di stile) e il collasso contemporaneo del dover essere e del non poter essere dell’arte. Egli coltiva, della pittura, la presenza, non accettando le liturgie funerarie d’assenza che il sistema mondano dell’informazione – a ben vedere, antitetici sono forma e informazione – moltiplica in Totentanz infinita. E coltiva la durata, ovvero una visibilità impastata di plenitudine, d’un tempo che è flusso complesso ma involvente la totalità dell’esperienza, mentale ed emotiva, del riguardante, sino al punto in cui la sua adesione alla visione, allo spazio dell’immagine, non viva più del rapporto con ciò che sta altrove, del confronto e del rimando (questo, sa bene Cremonini, è l’inganno vero dello specchio…), ma dell’identificazione reciproca tra sguardo e visione, continuamente problematica, continuamente rimessa in discussione, ma univocamente accertata e accettata, e proprio perciò vitale.
In un telero, perfetto e immoto, degli anni recenti, Les temps vides au couchant, 1994-96, l’artista instilla quel suggerimento di temps vides, tempi sospesi o, appropriatamente, vuoti?, che vale come ulteriore, non secondaria, chiave d’approccio. Ancora acqua e atmosfera, fluidi di desiderio. E corpi, quei corpi umani che non sai se sappiano ancora di sé. E quella fissità di luce ansiosa di crepuscolo, rialzata dai marchingegni scenici di spiaggia, cui il malva, l’arancio, il verde schiarito, inducono un eccesso coloristico sottilmente impertinente. La vastità della tela involve, di per sé. Non s’impone, inghiotte lo sguardo, gli chiede percorsi, scarti di temperatura e salti continui di lettura, feroce silenzioso labirinto.
Non si può non citare ancora Cremonini, in un dialogo con l’interlocutore privilegiato Marc Le Bot: “L’utopia è il desiderio del non-luogo nelle parentesi del luogo stesso, desiderio d’una non-immagine all’interno dell’immagine. L’utopia è allora nella differenza tra il visibile dipinto e il visibile delle apparenze. Essa è dunque nel divario che il visibile dipinto stabilisce con il visibile di cui si ha il ricordo. Il visibile dipinto è dipinto per essere visibile in sé, ma è collegato a un visibile di memoria. In questo scarto tra dipinto e visibile si colloca l’utopia o lo scacco” (23).
Les impertinences de l’ombre, 1992-1994, può essere assunto a immagine esemplare (24): della storia tutta dell’artista, e di questa stagione sua ultima, di tesa pienezza pittorica. Doppio Einsatzbild (noi vediamo allo specchio coloro che guardano l’altra scena, separata da un clima cromatico più che dall’ipertrofica montante verticale, in una circolare sottrazione di primo piano), il dipinto è solcato/connesso dalla figuretta infantile che istituisce la diagonale su cui si dipanano i lacerti narrativi: e sono bambini, come sempre in Cremonini, orfani di quell’ingenuità di sguardo che dovrebbe essere – e non è più – la loro e la nostra: “il vecchio già li abita”, ha scritto Georges Balandier (25): e lo stesso disincanto è nell’erotismo stremato delle carni degli amanti, figure enigmatiche del desiderio, non corpi desideranti. E non capiamo più cosa sia ombra e corpo; eppure siamo in una situazione fisica, spazialmente e formalmente determinata: ma continuamente sottratta alla certezza attitudinale del nostro vedere. Questo, se è teatro, è il teatro crudele di Cremonini, la sua “peinture d’obsessionnel, qui nous obsède” (26).
Note
1. Riferimento primario per il percorso dell’artista è Leonardo Cremonini. Opere dal 1953 al 1987, testi di Aa.Vv., Grafis, Bologna 1988.
2. C. Baudelaire, Edgar Allan Poe. Histoires extraordinaires, EPI, Parigi 1985.
3. P. Valéry, Léonard de Vinci ou l’oeuvre d’art. Léonard et les philosophes, Kra, Parigi 1929.
4. U. Eco, Le epifanie di Cremonini. Come si legge un pittore narrativo, in “BolaffiArte”, Torino, maggio 1977.
5. Esemplare a questo proposito è L.L.P. (Licitra Ponti), Leonardo Cremonini, in “Domus”, 269, Milano, aprile 1952, che riproduce opere come Figure in barca, 1950-51; Paesaggio veneziano, 1951, La donna e il gatto, 1951.
6. W. Rubin, Cremonini, catalogo della mostra, Catherine Viviano Gallery, New York, 1957.
7. M. Valsecchi, Cremonini, Edizioni del Milione, Milano 1962.
8. M. Butor, La Modification, Les Editions de Minuit, Parigi 1957; C. Simon, L’Herbe, ivi 1958; A. Robbe-Grillet, Dans le labyrinthe, ivi 1959.
9. Leonardo Cremonini, in ”Le Narraté Libérateur”, III, 4, Parigi, gennaio 1981.
10. M. Troche, Entretien avec Leonardo Cremonini, in “La Nouvelle Critique”, Parigi, dicembre 1970.
11. Su tale aspetto, magistrale è la lettura di Italo Calvino, Il ricordo è bendato, in Cremonini. Opere dal 1960 al 1984, catalogo della mostra, Palazzo Rancani-Arroni, XXVII Festival dei Due Mondi, Spoleto,1984.
12. Edmond Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, (1989), SE, Milano 2001.
13. A. Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi, Feltrinelli, Milano 2001.
14. M. Butor, Les parenthèses de l’été, in Cremonini, catalogo della mostra, Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, 1969.
15. L. Althusser, Cremonini peintre de l’abstrait, in “Démocratie Nouvelle”, Parigi, novembre 1966.
16. L. Cremonini in M. Le Bot, Les parenthèses du regard: Leonardo Cremonini, Fayard, Parigi 1979.
17. Su questo aspetto, fondamentali sono le notazioni di M. Le Bot, Cremonini et la règle du jeu, in “La Revue d’Esthétique”, Parigi, marzo 1970.
18. A. Jouffroy, Il caso Cremonini, in Le voyage du dialogue / Il viaggio del dialogo. Adami, Cremonini, Maselli, Peverelli, catalogo della mostra, Villa Medici, Roma, 1986.
19. O. Marquard, Estetica e anestetica. Considerazioni filosofiche (1989), Il Mulino, Bologna 1994.
20. È, in realtà, il valore che s’intende, pur nell’ambiguità terminologica, in letture come J. Warnod, La peinture engagée de Cremonini, in “Le Figaro”, Parigi, 18 dicembre 1969; J.J. Levèque, Le peintre engagé Cremonini, in “Nouvelles Littéraires”, Parigi, 14 febbraio 1972. Sulla posizione di Hugo, cfr. J.-B. Barrère, L’idée de goût de Pascal à Valéry, Klincksieck, Parigi 1972.
21. A. Gehlen, Quadri d’epoca, (1960), Guida, Napoli 1989.
22. L. Cremonini, Mes objets trouvés, in “TEM. Texte en main”, 7, Grenoble, inverno 1988-89.
23. M. Le Bot, Ceci n’est pas un lieu. Entretien avec Cremonini, in “La Quinzaine Littéraire”, Parigi, 1 agosto 1981.
24. Su questo aspetto, utile è la lettura di J. Rollin, Les ombres impertinentes de Leonardo Cremonini, in “L’Humanité”, Parigi, 13 aprile 1999.
25. G. Balandier, Avec Leonardo Cremonini, en connivence, in Cremonini. Une rétrospective 1950-2000, catalogo della mostra, Electa, Milano, 2000.
26. R. Debray, Les devertissements passent, les avertissements restent, in Cremonini. Une rétrospective 1950-2000, catalogo della mostra, Electa, Milano, 2000.