Galliani
Galliani, Correggio, Ganimede, in Galliani. Nel segno di Correggio, supplemento a “Exibart.onpaper”, VII, 53, novembre-dicembre 2008
Tra cielo e terra. Esperto di simboli e cosmologie, argonauta grafico tra le misure d’un classico che mai è paradigma e sempre esempio d’un atto d’amore e di coscienza reinventabile all’infinito, Omar Galliani giunge, con questo suo Ganimede, che muove per filtri e pulsioni intellettuali successive dal Ratto di Ganimede correggesco oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, al punto estremo e strepitoso in cui la pratica della citazione giunge insieme allo straniamento definitivo e alla somma pertinenza.
Un omaggio a Correggio può, all’opposto del semplice d’après tra citatorio e cannibale, farsi esperienza nuova, del segno e dello sguardo: alla maniera cinquecentesca, esperienza che sa essere modernamente antica e anticamente moderna.
Ganimede è simbolo, innanzitutto, nel valore decisivo della propria ragione iconografica. Giovane troiano amato da Zeus che lo rapisce al cielo per farne il coppiere degli dèi, Ganimede è il trascendersi sublime dell’intelligenza che tralascia le cose mortali (per Senofonte, Simposio 8, 30, egli è colui “che si rallegra dei giusti pensieri”, secondo l’etimo ganusthai tois medesi: e medea, è bene ricordare, vale “pensieri ben congegnati” ma anche “arti”) e, secondo l’intepretazione neoplatonica rinascimentale che certo il Correggio frequentava, è l’anima, lo spirito, che trascende il mondo fisico guardandolo dall’alto della beatitudine olimpica.

Galliani, Ganimede, Correggio 2008
Galliani concepisce, secondo una pratica concettuale e fabrile che gli è ben consueta, un “disegno siamese”, ovvero una araldica versione doppia e simmetrica dell’immagine, in cui lo schema lineare riverbera echi di se stesso sino a farsi tarsia, insieme immagine e godimento astratto dell’autonoma facoltà del segno di pronunciarsi.
A questo specchiamento, a questo redoublement insieme fisico e mentalizzante, Galliani ha affidato e affida il compito di costringere lo sguardo al riconoscimento e subito alla deriva, a un vagare visionario, all’eccitazione di frequenze ulteriori, a una fastosa e insieme sottile partita affettiva e intellettuale.
Ed è a un suo cruciale testo intorno alla natura del disegno che si può attribuire il germe d’intuizione che lo ha portato all’odierno progetto: “Cosa sia un disegno non te lo posso dire. Cosa sia un segno sì. Leonardo parlando del disegno descriveva le muffe, il salnitro ed era già lontano nei suoi paesaggi. Miraggi e dispersioni. Messe a fuoco e viraggi di un guardare dentro e fuori le cose. Proprio come fai tu con il tuo calice azzurro che ora accosti e poi allontani dai tuoi occhi. La nebbia dalle mie parti a volte aiuta a leggere il disegno con maggior attenzione”.
E’ possibile, si è chiesto ulteriormente Galliani, che il sapere del segno si spinga sino al punto ove non sia questione di deriva ottica prevedibile, e di specchiamento ridotto alle proporzioni padroneggiabili della convenzione d’arte, senza che peraltro tale convenzione vada perduta? E’ possibile innescare una sorta di trascendimento e straniamento anche dell’appercezione, ovvero, secondo Theodor Lipps, Ästhetik, “questo notare, comprendere, osservare, questo intimo cogliere coniugato allo specifico realizzarsi di un processo o di un’esperienza nella vita psichica” tale che la contemplazione estetica, immediato atto vissuto di fronte dell’oggetto, provoca un abbandono al sentimento di se stessi? E’ possibile che la percezione stessa sia trascendente dalle proprie condizioni ordinarie, e dunque costringa chi guardi a delucidare continuamente, e interrogativamente, lo stato della propria condizione di riguardante? Infine: è possibile restituire, attraverso questa consapevole dismisura, una sacralità ulteriore all’immagine, un’intensità, una durata, un peso specifico, tali da farla percepire differente in fondamento dal teatro d’ombre cui l’arte ordinaria ci ha assuefatto?

Galliani, Studio per Ganimede, 2008
La risposta di Galliani è stata affermativa, coniugando felicemente una memoria atavica e una possibilità modernissima che la tecnologia ci offre. Gli è sovvenuta l’antica citazione, anch’essa cinquecentesca, in cui Luis de Monzón, spagnolo della conquista, evoca per la prima volta i Nazca: “molto anticamente, cioè prima del regno degli Incas, giunse un altro popolo chiamato Viracocha; non erano numerosi, furono seguiti dagli Indios che vennero su loro consiglio e adesso gli Indios dicono che essi dovevano essere dei santi. Essi costruirono per loro i sentieri che vediamo oggi”. I sentieri sono quelli andini che, riscoperti grazie alla fotografia aerea nel Novecento, chiamiamo disegni di Nazca, geoglifi anticipatori della land art che tracciano una cosmologia figurata nella misura fisica della terra. Ed ha incrociato tale evocazione alle possibilità tutte nuove di Google Earth, strumento che ci consente di leggere il mondo non attraverso rappresentazioni convenzionali e astratte, ma nell’infinita accidentata varietà del regard fotografico.
Non richiamandosi ai precedenti vicini, non attuando inciampi artificiosi alla fisionomia del naturale come uno Smithson o uno Heizer, ma recuperando e declinando nell’oggi, e nella chiave della precisata evocazione classica, il sacrato senso originario di una figura artificiosissima nello spazio naturale che tra cielo e terra si pone e pone lo sguardo, da uomo del disegno, e della condizione sorgiva del disegno, Galliani ne recupera in questa occasione la dimensione mitica di signum mundi humani in seno all’ordine del naturale, offrendoci anche uno specchiamento cielo/terra che, del mito storico, offre declinazione appropriata.
Chi percorra il sentiero fisico tracciato da Galliani non ne leggerà la schiarita misura intellettuale: si aggirerà per quei meandri, per quelle volute all’esperienza capricciose, così vicino da esser cieco. Chi si porrà nella condizione slontanatissima di decifrarlo, di riconoscerne le fattezze, potrà far ciò solo derogando da nozioni cruciali come il punto di vista e il punto di distanza, la padronanza dello sguardo e il rapporto tra artificio e natura: derogando, e allo stesso tempo continuamente interrogandosi su esse, in un ulteriore gioco ineludibile di specchiamenti tra apparenza e concetto, esperienza e astrazione, rappresentazione e presenza fisica.
“Tende al grigio la nebbia – prosegue lo scritto di Galliani sul disegno – ma se la illumini da dentro il suo pulviscolo ne espande la luce fino a creare orizzonti di difficile comprensione. Il tuo fiato ha appannato il bicchiere e con il mignolo hai tracciato una stella, l’unica nel mio studio questa notte”.
Ora gli orizzonti sono altri. Sono la linea stessa dell’orizzonte fisico, le distanze che si dilatano in un respiro cosmico, sono la misura di un’intelligenza che dal mondo trascende e, proprio come il Ganimede correggesco, “si rallegra dei giusti pensieri”.