Giacomo Manzù. Le opere  e i libri, catalogo, Biblioteca di via Senato, Milano, 30 giugno – 1 ottobre 2000

“Dedico questa mia mostra alla memoria dei tre grandi scultori scomparsi recentemente, Ernesto De Fiori, Charles Despiau, Aristide Maillol”. Così detta Giacomo Manzù a introduzione della mostra personale, fondamentale perché cade alla svolta cruciale del suo percorso, che si tiene nel marzo 1947 al Palazzo Reale di Milano (1). La dedica è mossa da un sentimento di appartenenza, all’humanitas scultorea che ha segnato di sé il secolo tracciando percorsi eccentrici rispetto all’absolument moderne che si vuole prevalente. Ma posta lì, nell’occasione che avvia il riconoscimento definitivo di Manzù come grande di quella stirpe, essa pare riaprire vertenze critiche che inseguono l’artista da più d’un decennio, come se la ricerca ostinata, talora ossessiva, di tessere la trama dei “maggior sui” potesse di fatto sostituire l’intendimento arduo della sostanza del suo lavoro.

Manzù, Autoritratto con modella, 1943

Manzù, Autoritratto con modella, 1943

Chiari sono gli inizi, quegli esordi milanesi in seno a un “primitivismo” che a quelle date s’intende il semplificarsi del dato di referenza a schema decantato, assottigliato in umori di tarsia, in cui echi d’antigrazioso di sovrappongono e contaminano con una volontà d’anticlassico che molti perseguono, nella Milano dei Persico e dei Giolli. Pubblicando nel 1933 opere come la Vergine immacolata, il Tabernacolo per la cappella di San Francesco e il Sant’Agostino per la cappella del Sacro Cuore dell’Università Cattolica di Milano, Lamberto Vitali (2) può dire con felice sorpresa che “Manzù è un’invenzione di Muzio”, ovvero giunto alla prima commissione importante per merito d’un architetto che va scrivendo, a sua volta, una affatto individuata stagione del moderno. Di fronte alla “ripida monotonia dei profili”, a queste forme rastremate e serrate in tratti necessari, lo studioso mostra tuttavia di porsi con più urgenza la questione di un’arte religiosa moderna, che quella di identificare il profilo espressivo dell’autore, e si chiede: “È proprio detto che il nostro tempo possa dare un’arte religiosa in quanto a servizio di una religione rivelata?”.

È questa, del resto, la posizione anche di Sandro Bini, grande coscienza della cultura italiana del secolo. Egli, a proposito delle prime prove scultoree di Manzù, come un’Annunciazione declinata sul rilievo inciso di Donatello, o un San Giovannino nel deserto e un Redentore dalle grazie risolte in brusche tensioni lineari, contrappone alla  “radicata consuetudine degli stessi cattolici di falsificare l’essenza e la verità della rappresentazione iconografica cristiana, da quando non son più capaci di interpretarla nella sua potente nudità espressiva” le prove del giovane bergamasco, che “è riuscito nell’intento di collegare elemento estetico e religioso, perché ha saputo ben dividere i campi e forse sé stesso dall’una e dall’altra parte, per la rivendicazione esatta della duplice personalità” (3).

Manzù, Disegno per Il Novellino, 1944

Manzù, Disegno per Il Novellino, 1944

Manzù, d’altronde, e con lui Aligi Sassu, amico di questi tempi d’avvio, proprio a Giolli deve i propri esordi espositivi, con un Ritratto di pittore che si specchia nel quasi gemello Ritratto d’uomo dell’amico, in seno a un gruppo che si sottrae alle fascinazioni dominanti di Valori Plastici e di Novecento, perché “questa generazione dei vent’anni guarda più in là, anche a Parigi, in un problema della pittura che non sia ignaro della pittura d’oggi: e aggiunge, a Giotto, Modigliani” (4). Ebbene, questo purismo sottratto deliberatamente al bon ton pittorico e plastico, affine per molti versi anche alle prove dei giovani romani di via Cavour, in Manzù è da subito esente da bamboleggiamenti semplificatori, e indica uno spettro di riferimenti di vasto – semmai troppo ambizioso, com’è salutare per un giovane – vastissimo orizzonte.

Se è vero che in lui s’avvertono ancora talune “ruvidezze di esecuzione, forse dovute all’ansia di non lasciarsi soverchiare dall’abilità del mestiere”, come nota argutamente Giovanni Scheiwiller, è altrettanto vero che le sue sculture rivelano “la stessa compostezza, la stessa grazia che arieggiano talune statuette egizie dallo sguardo estasiato” (5) – è il caso de Il Re, 1931, dalle anatomie enfatizzate con sentore anche di romanico, da considerare però sulla proiezione dei disegni coevi di tratto sottile e fluente in cui s’avverte l’eco del Picasso e del Severini classici – e che  Manzù, si legge nel citato testo di Bini, “spesso e volentieri, parla di simpatia per Donatello e per gli etruschi”.

Di lì a qualche anno, dopo la stagione straordinaria del secondo lustro degli anni trenta, sarà ben chiaro che il “primitivismo” di Manzù va letto come concentrata deroga dalla visione che s’intendeva, nella parlata d’allora, realista, perché “ogni alterazione plastica è stata eseguita da lui con la volontà d’invenire il segreto più assorbito, il significato centrale delle figurazioni” (6), e nulla più che d’una stagione d’avvio, di esplorazioni e saggi, va considerato. Insieme, tuttavia, la questione dei precedenti, ovvero delle scelte genealogiche attuate dall’artista – di stile ma, più, d’atteggiamento espressivo – in un’epoca in cui dire stile era anche dire ethos, e scegliere un campo non era mera opzione linguistica, si farà semmai ancor più complessa.

Manzù, Grande ritratto di signora, 1946

Manzù, Grande ritratto di signora, 1946

Due sono le ragioni di tale complessità. La prima è una sorta di mitologia tenace che, in coincidenza con un periodo di momentanea riflessione di Manzù su Medardo Rosso – le prime sculture in cera sono del 1934, e pezzi come il Ritratto di Carla, 1936, esposto in questa occasione insieme a prove come l’Autoritratto con modella, 1943, lo Studio per Grande ritratto di signora, 1946, oltre che la terracotta della Conversazione, 1940 c., affine per digitazione, ne sono esempi di altissima qualità – rende quasi obbligatorio, nei decenni, che preoccupazione precipua di ogni lettura critica sia di marcare le distanze tra i due autori. Quasi che, par di capire con il senno di poi, i fraintendimenti allora frequenti nell’interpretazione di Rosso proiettassero ombre chissà perché equivoche anche sul giovane maestro (7).

La seconda è l’atteggiamento stesso di Manzù, che ragiona di scultura in termini fondamentalmente inattuali, ovvero renitenti all’esercizio dell’includere ed escludere secondo quelli che lo stesso artista esecrava come “pregiudizi formali”, e che discendevano da un ubi consistam nella modernità al quale egli era, davvero, del tutto indifferente. È tale secondo aspetto a generare, in una critica che comunque ragiona – né altrimenti potrebbe essere, soprattutto in decenni come i trascorsi – prevalentemente in chiave proprio di modernità, corsi evolutivi, superamenti e quant’altro, più d’un imbarazzo: aggravato, inoltre, dalla capacità di Manzù d’intuire radicalmente il senso del sacro in scultura (che è cosa ben diversa, s’intende, dall’arte di mera committenza ecclesiastica) che ne segnerà così profondamente il carattere espressivo e il percorso operativo. Non è un caso che proprio Cesare Brandi, cioè un’altra grande figura del tutto aliena da “pregiudizi formali”, sia stato nel tempo lo studioso intellettualmente a lui più vicino, a far coppia con Giuseppe De Luca, prelato che non sacrificava la luce dell’intelligenza e della cultura a quella della fede.

Ebbene, assumendo il Ritratto di Carla a testo esemplare di quel momento, il modello di Rosso appare palese: tanto quanto il gradiente diverso di sensuosità fisica, e di immediata delucidazione plastica che Manzù vi immette, consapevole che d’un corpo, d’una sostanza spaziosa nella luce si tratta, e non d’altro.
Se apodittica, e sanamente paradossale come sempre, appare l’enunciazione di Luigi Bartolini, per il quale  Manzù è “il migliore scultore che noi abbiamo, dopo il Bernini. Che cosa è Medardo Rosso accanto a Manzù? È, soprattutto, un’altra cosa” (8); assai più articolate sono posizioni come quelle di Vitali e di Libero De Libero, che nello stesso anno, 1938, offrono letture sintomaticamente divergenti. Sostiene Vitali una “consanguineità” tra Rosso e Manzù, perché la scultura di quest’ultimo “poteva nascere soltanto in Lombardia. Lombarde sono le sottigliezze dello sfumato, lombardo il preferire alla modellazione sostenuta i trapassi sottili e delicati del chiaroscuro, lombardo quello stare all’intuìto più che al detto e quel turbamento dei sensi che si risolve in accenti squisitamente poetici” (9). In replica De Libero tende a rivendicare i fattori di divergenza, perché la scultura di Manzù “si apre invece in una forma compiuta, in un bilancio di forze, in una spiegazione plastica, in una concomitanza di ordini che scagionano continuamente quella lezione per ripagarsi d’una personalità, riconoscibile alla vista dei piani sui quali la sua scultura si svolge”, e si risolve nell’“esalarsi in cera (sicché anche nei bronzi ne resta sempre un po’ di quel pallore) delle forme che paiono indecise tra il vigore della mente e il fiato dei sensi” (10). Di lì a pochi mesi Carlo Ludovico Ragghianti ribadirà che il rapporto è semmai con le “apparenze morfologiche della visione rossiana”, perché si trascorre “dalla panica esaltazione del momento, del fremito vitale sferrato, in Rosso, alla melanconia, sedata, talvolta sottile talvolta pensosa, alla sensualità lenta e profonda, al clima mai unicamente sensibile ma sempre interiore, al passo figurativo così composto, pausato e disteso, in Manzù” (11). La sua posizione è ripresa da Mario De Micheli, il quale stabilisce nel David, siamo al 1937-38, il punto definitivo di svolta dell’artista, perché è in quell’opera che trascolora “l’indulgenza plastica delle ‘cere’, quella affettuosità sensibile che modulava una fisionomia attenuata in superfici fluenti” (12).

Stante la data dell’Autoritratto con modella e di talune altre opere, vien difficile credere che la maturazione pur cospicua del David – il quale porta in sé, tra l’altro, la dismisura sottile di capo e arti che residua dalla stagione ‘primitiva’, oltre a una posa che rimanda a schemi ellenistici per il tramite assai plausibile di Vincenzo Gemito (13) – interrompa un colloquio problematico fondante come quello che Manzù intrattiene con Rosso. Semplicemente, esso non è esclusivo e, più ancora, non è modale. Ben lo avverte Brandi, il quale già nel 1949 afferra che uno degli snodi espressivi dell’artista è “la costruzione che parte dalla luce invece che dall’ombra” (14); e ragionando del suo disegno giungerà a concludere: “Questa presa di possesso del foglio bianco come di una lastra di creta o di cera, è la stessa presa di possesso del blocco di cera o di creta, come se il limite fra l’aria e la creta, l’aria e la cera, desse luogo quasi ad un’osmosi invece che ad una preclusione. Fondamentalmente è questo che nel fondo interessò in Medardo Rosso e Manzù: ed è per questo che l’affacciarsi di Manzù su Rosso è assai più sottile di quello che fenomeniche somiglianze possono far credere e hanno fatto credere” (15). Quanto alla rete di riferimenti, storici e contemporanei, tessuta dal giovane Manzù, difficile è stringerla in una prospettiva unitaria, per le ragioni cui s’è accennato. Se, come s’è visto, il riferimento a Bernini speso da Bartolini non è da intendere in sede critica (16), agli egizi evocati da Scheiwiller possono aggiungersi la testimonianza di Bini a proposito di Donatello e di etruschi, e indicazioni svarianti dal Prassitele di Argan al Francesco di Giorgio di Pacchioni (17).

Manzù, Studio per la Porta di San Pietro, 1949

Manzù, Studio per la Porta di San Pietro, 1949

Nella chiave del “classicismo rinnovato” per il quale vale una parentela con Ingres, aggiornata su Rousseau, Picasso e il Carrà metafisico, così come formula Brandi nel saggio del 1961, è soprattutto l’antico lo schermo concettuale, più ancora che linguistico, sul quale comunque l’inattualità complessa e la docta ignorantia di Manzù vengono proiettate. Il passo più compiuto in tal senso viene fatto da Maria Luisa Gengaro in un saggio del 1956, mai o raramente preso in considerazione dalla critica posteriore, che si segnala per due intuizioni forti. La prima è leggere Manzù secondo la traccia, a quella data ben chiarita, delle sue persistenze ed evoluzioni tematiche. La scelta di soggetti ben identificati, sui quali svolgere vere e proprie serie operative dipanantisi nel tempo (le teste come i cardinali, la sedia come la Crocefissione) consente differenti à rebours tipologici, nei quali l’artista è ritenuto sovranamente libero di ragionare per sequenze differenti di riferimenti problematici. Così, se un’ “analogia formale tra le teste di Manzù e alcune opere etrusche, dichiara dunque quei rapporti, quelle relazioni, che ne indicano al tempo stesso la differenza”, parimenti nei cardinali l’artista elabora una tutta sua misura di “grandezza” come “severità ieratica e intima elevazione espressiva” che evoca il Tino di Camaino del Monumento Orso in S. Maria del Fiore, mentre la Bambina sulla sedia, più volte affrontata dall’artista sin dalla metà degli anni trenta, rimanda a Mino da Fiesole per “affine scala armonica di tali sfumature” (18).

Curiosamente, mai citata dalla critica successiva è tuttavia una testimonianza diretta dell’artista, degna di far da introduzione all’eloquente dedica del 1947. Rispondendo a un questionario proposto da “Domus” nel 1937 è lo stesso Manzù a dichiarare: “Lascio il mio spirito libero a tutte le forme del bello e posso così emozionarmi davanti a un’opera greca, d’un primitivo come davanti a una cera di Rosso. […] I nostri anziani hanno cercato la via del compromesso, lasciandoci in una situazione di equivoco. Essi hanno trascurato di continuare la strada tracciata dagli impressionisti e da Cézanne e quella di Rosso, di Degas e di Renoir scultori, e di Rude e Carpeaux, la cui tradizione non si poteva spegnere se non grazie una spiritualità nuova. Per questo credo che l’opera del Novecento, o meglio del Novecentismo, sia condannata alla sterilità. […] La mia generazione deve rifiutare proprio questi vezzi formalistici degli ‘ismi’. La tradizione dell’Ottocento, che conclude quella di secoli, ci lascia una profonda eredità spirituale. Come gli impressionisti, forti dell’insegnamento romantico, hanno trovato il loro linguaggio, così noi sul loro esempio sapremo esprimere con mezzi nostri quello che è profondamente nostro. […] Un fatto plastico puro esiste quando gli elementi contingenti diventano universali” (19). Il punto è con ogni evidenza, come s’è accennato, più l’imbarazzo critico delle esegesi, i cui strumenti mal s’adattano a un atteggiamento così poco ideologico e ‘moderno’ come quello di Manzù, che non la difficoltà d’intendere un progresso linguistico e qualitativo che ci si offre lineare, che guarda all’antico così come al contemporaneo – e che si vuole, soprattutto, contemporaneo, ben lontano da ogni ripresa ortopedica dell’antico – con avvedutezza e cautelato rigore, forte di un sostrato artigianale che vale ben più della semplice retorica di mestiere ma fa, nell’intento di Manzù, dello scultore un “sacro artefice”, un uomo di sapienze e di commercio con quella che Gengaro indica, con semplicità, come “grandezza”.

Dagli impressionisti a Cézanne a Rosso a Carpeaux, è la sostanza svelata nell’affondo nitido sull’apparenza,  lo snodo concettuale di cui Manzù è in cerca ostinata; e la capacità della forma di farsi ragione necessaria di spazio, e di senso. Dice bene, con sintesi bruciante, un altro sodale dell’artista, Renato Birolli, indicando che egli “come gli autentici artisti, si riassume in ogni sua opera, dandoci quello che si dice l’indimenticabile” (20). L’indimenticabile è valore ben diverso anche dal naturale al quale pure, quasi per reazione polemica allo stilizzare dei tempi, in qualche occasione si tenta di ascrivere Manzù: di “mite naturalismo”, qualcuno scrive, e altri di “un piano dove la tenace volontà di Manzù d’entrare nell’interno del soggetto, di scoprirne e annunciarne tutto l’interesse umano, la simpatia di fronte alla natura di esso, si sono docilmente incontrati” (21).

Altra è, ovviamente, la scommessa ardua del nostro. Lo dicono, a mio avviso assai più del David dai troppo risentiti ragionari, il Ritratto della signora Vitali, 1939, e Francesca Blanc, 1942, che maturano nel torno di tempo e di pensieri da cui nascono anche la serie dei Cardinali e quella, foriera di non minore destino, delle Crocefissioni. La singolare analogia di pose, d’introversa rilassatezza, tra Francesca Blanc e la figura femminile dell’Autoritratto con modella del 1943, che pure prosegue l’operare in cera, dice che Manzù, in quel momento, attraverso la stabilizzazione del modello (le seriazioni tematiche lunghe del suo lavoro ciò dicono primariamente) mira radicalmente a una misura e a una quantità spaziale della forma, operando però in porre, ovvero per guadagno spaziale attraverso la crescita del corpo alla pelle, e non per previsioni.

Lo scrutinio sensibile del soggetto, amorevolmente feroce, d’una ferocia della stessa natura di quella cézanniana, passa attraverso una restituzione sensuosa di corporeità, non d’apparenza, come per ricreazione in materia del flusso di assaporati avvertimenti sensibili: ed è proprio l’alitare ultimo delle superfici, quel loro rabbrividire o irritarsi fratte, ma segnandosi, anche, di profili stagliati e decisivi di volumi spaziosi, a dire che uno è il passo genetico della forma, dal quale la stessa identità dell’opera discende. È questo, forse, “il segreto più assorbito, il significato centrale delle figurazioni”, di cui scrive De Micheli (22). Certo, è l’indimenticabile. Certo, non può essere, per un artista come Manzù, operazione dimostrativa, o all’opposto la vertigine dell’Unattainable che sarà di Willem De Kooning, sul mito di Frenhofer. Perché è di Manzù la certezza e la saggezza  antieroica del nihil humani che lo tien lontano da dismisure di perfetto e di sublime, e soprattutto un senso del concreto plastico che è nella sua mente, prima ancora che nelle sue mani.

Manzù, Disegno per Le opere e i giorni, 1966

Manzù, Disegno per Le opere e i giorni, 1966

È, in fondo, la “spietata giustezza del segno” di cui dice Argan, che specifica: “Se il taglio di un segno rompe il tessuto spaziale contesto d’ombra e di luce, se la macchia della luce o dell’ombra tronchi la continuità del segno, ecco che qualcosa improvvisamente ‘precipita’: dalla coerenza spezzata della poetica irrompe cruda, sanguinante, la realtà” (23). Egli parla del disegno ma, come sempre, non solo di quello, tanto indisgiungibili e congeneri sono disegno e scultura in Manzù.

L’artista stesso par riflettere, nella sua prosa di semplice lucidità, sull’indisgiungibilità del ragionare di sostanze plastiche dal far crescere la forma alla luce, attraverso il plesso sottile ma preciso della superficie: “Il segno grafico forte, incisivo, a volte spezzato, esprime già in sé la volontà di creare qualcosa di duro, concreto, profondo nello spazio, come è la scultura, ma gli si accompagna un senso pittorico dell’immagine, che è espresso dal chiaroscuro che accompagna sempre la linea che ha costruito la figura” (24). Assorta e rilassata, ma con retaggio ancora minore del repertorio storico di pose esemplari, è la figura del Grande ritratto di signora, compiuto nel 1947, che può ben dirsi a mio avviso, insieme alla Porta della morte, l’opera massima dell’artista.

L’incontro con Alice Lampugnani, foriero della stagione espressivamente più fervida di Manzù (25), è documentato da una fitta serie di opere, nate da un grande istinto mecenatesco che si fa vera e propria complicità intellettuale. Del Grande ritratto si espongono in mostra il bronzo grande, 1947, che fu seguito da una seconda fusione per il Museum of Modern Art di New York, lo studio preparatorio in cera, restaurato ed esposto per la prima volta in questa occasione, una testa in terracotta, sette degli studi grafici preparatori, con il corollario dello studio in terracotta patinata per una medaglia, anch’esso inedito, eseguito nel 1946 (26). A far da contesto a una vicenda di committenza e sodalità tanto intensa da valere, di per sé, uno studio apposito e una mostra, ecco altre rarità: un album con disegni originali relativi all’edizione delle Cento novelle antiche (27), quasi a fare un terzo volume aggiunto a due editi; un Vangelo arricchito dall’acquaforte-acquatinta La fucina, 1946; l’inedito bozzetto grafico per il concorso del 1947 per la porta di San Pietro; due Autoritratti con pipa, parimenti inediti, nati certo a fianco degli studi per il Grande ritratto; e soprattutto un’edizione di Thomas Mann (28) arricchita da 26 disegni originali, che rappresentavano il dono natalizio del 1950 di Manzù ad Arrigo, figlio di Alice Lampugnani, alla cui generosità oggi si deve la visione di questi materiali.

Notevole è leggere la sequenza logica che trascorre dai disegni alla cera al bronzo. Nei fogli, operando raramente al tratto, e più sovente nel modo a lui più congeniale, con una “matita molto morbida che permette un tratto piuttosto cromatico e variante dal trasparente grigio al più profondo nero” (29), Manzù par trovare, subito travalicando la questione delle fattezze, la chiave d’un’espressione, d’una introversione ancor differente dai ritratti precedenti, come d’un’intima enigmatica qualità umana che appena trapeli dai segni del volto. È il volto, risolto sfilando le linee in passaggi nitidi di piano e insieme lasciandolo bagnare dalla piena luce incidente, come sostanza di luce e d’ombra, con quella piega slontanante del collo a dire distanza, e quel taglio d’occhi a velare e come ulteriormente sottrarre l’identità fisica in carattere; è il volto, la chiave primaria di lettura: almeno all’apparenza.

Manzù lavora molto, nei disegni, sul rapporto tra volto e corpo, tuttavia, ed è qui, nel variare dell’emergenza del corpo panneggiato, a sua volta rattratto in evidenza quasi dimessa, in quel suo rinvenire alla luce per superfici fratte e irritate come saranno poi molti dei panneggi della Porta della morte,  ma tracciando linee-forza di nitida precisione plastica (interrotte dall’accidente forte delle mani) equivalenti dei segni che solcano le consistenze varianti delle superfici disegnate; è qui, in questa corporeità rappresa in una sorta di coagulo di materia alla luce, in questa sensuosità distillata in distanza trasognata eppure così fisicamente precisa, l’anima della scultura. Chiaro, nei disegni, è l’assetto. La cera, fantasma di Rosso o no, pare ritrovare la congeneità perfetta in spazio e luce di volume e superfici, in cui leggi un processo verso “l’essenza dell’immagine semplificata, quasi scarnita, teso a conseguire un gioco dei piani attentamente vibrato, un rapporto luce-ombra (non chiaroscuro, si badi) che conservi il suo valore portante” (30): quasi, verrebbe da dire, come in un bassorilievo fortemente sbalzato, dal quale l’immagine si stacchi ma conservando l’alito dello spazio materiato nel quale s’è generata: la cui origine e sostanza proprio la cera fa intuire. Del resto, il biennio 1946-47 è anche quello delle incisioni per le Georgiche, nelle quali il tratto nitido prediletto in calcografia, e in una parte cospicua del disegno giovanile, si macera in un rapporto figura-spazio fatto non solo d’acquatinta, ma anche di zonature a tratteggio nelle quali, con maggior disciplina tecnica che nel più libero disegno, Manzù saggia la capacità autonoma del segno di strutturare ombra e luce come valori di un continuo spaziale di natura concreta (31).

È la maturità piena raggiunta da Manzù nel Grande ritratto che gli consente d’affrontare con piglio diverso il tema sacro, sia nei Cardinali, sia nella tematica che evolve dalle Crocefissioni sino alla Porta della morte. “Poi, fu la guerra: e nacquero dalla fantasia di Manzù gli stupendi disegni e i bassorilievi delle Crocefissioni” (32). Così Nino Bertocchi sintetizza la mostra “scandalosa” da Barbaroux, 1941, che vale a Manzù l’ostilità non solo delle gerarchie fasciste, ma anche di quelle ecclesiastiche, addirittura sino a un interessamento del Sant’Uffizio (33). Un confronto tra quei bassorilievi, nei quali già risuona “un tono di luce intimo alla forma” (34), ma ancora prevale la palpitazione superficiale e un linearismo inciso e netto, e le successive formelle per il concorso di secondo grado, 1949, con la morte di San Francesco Saverio e quella di Gregorio VII, esposte in questa mostra, chiarisce  come l’artista evolva nel concepire il rilievo, e soprattutto il rapporto figura-fondo (“fondo-non-fondo”, lo definisce Brandi (35)), come fatto spaziale e plastico autonomo, come una figurazione piena della quale proprio il Grande ritratto, e più esplicitamente la cera preliminare, sono passaggi decisivi. Troppo noto, troppo alto è il risultato della Porta della morte (36), l’opera della vita, perché altro ancora debba esser detto. Interessante è, semmai, ragionare di come quel modo, quella ragione d’immagine, schiuda definitivamente all’attività successiva di Manzù possibilità ormai tutte accertate.

Il risolvere i profili come solchi che fendono lo spazio, talora rastremando la figura a una secchezza che non vale stilizzazione ma prosciugamento d’accidenti sensuali in una plasticità che si vuole appurata, è il pensiero che genera, nel decennio settanta, un’opera come Ragazza in poltrona, testimonianza della “scoperta” del legno duro che oppone le proprie vocazioni formative ai rischi di facilità disciplinare dai quali Manzù tende continuamente a guardarsi. “Tutto mi sembra a metà strada, se confronto il mio lavoro con le aspirazioni attuali e i sogni d’infanzia. Ma nonostante tutto, lavoro ogni mattina, come se fosse la prima, e nel lavoro sento la disposizione, il bisogno e la spinta quotidiana. Lo so che è poco, ma è il solo onesto e vero che posso dire di me uomo e scultore” (37).

Manzù, ben certo della propria grandezza ma insieme ferocemente autocritico del talento, è duro della stessa durezza petrosa del Cardinale che, negli anni ottanta, si propone conclusivo d’una serie tra le più straordinarie nel percorrere la faglia tra  autonoma qualità plastica e figurazione. Quest’opera si affianca a prove come la Sedia, le Teste e i lavori su Tebe, esiti ultimi d’un rimuginio tematico iniziato mezzo secolo prima con la Bambina sulla sedia, e ogni volta ridotti a motifs evolventisi negli anni con i pensieri plastici dell’artista. Pensieri plastici che leggiamo altrettanto bene in scultura, nel disegno, nell’incisione, nella litografia, aspetti tutti d’un unico istinto d’arte nel segno dell’ostilità nitida, incontrattabile, fervida, ai “pregiudizi formali”.

Note
1. Gruppo L’Altana, Mostra di Manzù, Palazzo Ex Reale, Milano, 1-23 marzo 1947, testo introduttivo di L. Venturi. Vi sono esposti tra l’altro il Ritratto di Carla, il Ritratto della signora Vitali, il David e il Grande ritratto di signora.
2. L. Vitali, Sculture di Giacomo Manzù, in “Domus”, XI, 62, Milano, febbraio 1933.
3. S. Bini, Giacomo Manzù, antichi, arte sacra, in Artisti. A. Ruggero Giorgi, Luigi Grosso, Fiore Tomea, Lorenzo Lorenzetti, Aligi Sassu, Gian Paolo De Luigi, Giacomo Manzù, Milione, Milano 1932. Di Bini cfr. anche, Lo scultore Giacomo Manzù, in “Arte Cristiana”, Milano, maggio 1935, e Disegni di Giacomo Manzù, in “Corrente”, Milano, 15 ottobre 1939.
4. R. Giolli, Grossi Manzù Occhetti Pancheri Sassu Strada, catalogo, Galleria Milano, Milano, 1-13 aprile 1930.
5. G. Scheiwiller, Manzù, Tipografia l’Eclettica, in vendita presso la Libreria Hoepli, Milano 1933 (la pubblicazione risulta sempre assegnata nelle bibliografie al 1932: data invece al novembre 1932 la redazione del testo). Anni dopo, Argan riprenderà la medesima considerazione: dicendo di “certo risentito arcaismo del suo linguaggio grafico e plastico”: G.C. Argan, Manzù. Disegni, Istituto Italiano di Arti Grafiche, Bergamo 1948.
6. M. De Micheli, Manzù. 24 disegni e 1 tavola a colori, Quaderni del disegno contemporaneo, Edizioni di “Corrente”, Milano 1942.
7. Inquadramento fondamentale della figura di Rosso è stato, in anni recenti, A. Lugli, Medardo Rosso, a cura di M. Ferretti, Allemandi, Torino 1996.
8. L. Bartolini, Giacomo Manzù, Delfino, Rovereto 1944.
9. L. Vitali, Lo scultore Giacomo Manzù, in “Emporium”, XLIV, 5, Bergamo, maggio 1938. Va segnalato che una certa qual negazione della lombardità di Manzù si legge in C. Brandi, Quarantun disegni di Giacomo Manzù, Einaudi, Torino 1961, il quale tuttavia di lì a poco precisa: “Quanto vi si residuava ancora dell’impressionismo di Rosso, di certo tattile luminismo lombardo, di una natura quasi appena scoperta, come un nudo mentre si spoglia ed ha un sentore umano quasi un alito irrefrenabile, ora è, più che scomparso, trasformato. Una precipitazione è avvenuta, per cui le sostanze in presenza sono le stesse, ma la loro forma è diversa”: C. Brandi, Studi per la Porta di S. Pietro di Giacomo Manzù, Milione, Milano 1964.
10. L. De Libero, Scultura di Giacomo Manzù, in “Broletto”, III, 30, Como, giugno 1938.
11. Il testo, del 1939, è riportato in C.L. Ragghianti, Manzù, Milione, Milano 1957.
12. M. De Micheli, 1942, cit.  Lo studioso riassumerà in seguito: “Egli, infatti, non puntava sugli effetti dell’impressionismo plastico che Rosso aveva introdotto nella scultura, non ricercava quel ‘brivido’, quell’attimo d’apparizione, condizionato da una particolare incidenza della luce, che per Rosso erano decisivi”: Idem, Giacomo Manzù, Fabbri, Milano 1988 (ampliamento della monografia dallo stesso titolo, ibidem 1971). E’ evidente che le remore sono nell’intendimento dell’opera di Rosso, semmai, la cui opera è appiattita in una lettura di prevalente chiave impressionista. Più cauta, ma sostanzialmente affine è la posizione di Venturi, che nel saggio introduttivo alla citata mostra del 1947 detta: “Perché la forma sia coerente occorre che la costruzione stessa dell’immagine, e non solo la pelle, risponda alla visione della luce e dell’ombra”.
13. Né va dimenticato che di quel torno d’anni, 1932-1935, sono testi come il Pugilatore , il Nuotatore e il Bambino al mare del più maturo Messina, riferimento certo non ignoto nella Milano artistica degli anni trenta: soprattutto il Piccolo David, 1937, consente un confronto rivelatore.
14. Il testo si legge ora in C. Brandi, Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1976.
15. C. Brandi, 1961, cit.
16. Va notata peraltro l’isolata lettura ‘barocca’ di Beniamino Joppolo: “Noi avvertiamo in Manzù una ricchezza di linee che si accentrano e si avviluppano in una testa o in un busto o in un gruppo, quella ricchezza complicata intricata anche involuta e macchinosa che è tipica del barocco. Ma nella stessa opera ecco che Manzù col suo caldo fiato deve conferire alle linee una sottigliezza scarnificata gentile e essenziale, e per questo parlammo di barocco essenzializzato”: B. Joppolo, Giacomo Manzù, Arte moderna italiana n. 46, a cura di Giovanni Scheiwiller, Hoepli, Milano 1946.
17. S. Bini, 1932, cit.; G.C. Argan, 1948, cit.; A. Pacchioni, Manzù, Milione, Milano 1948, che dice anche di riferimenti alla “scultura etrusca arcaica, alla scultura lombarda romanica e gotica”. Più generica ma curiosa l’indicazione di G. Marchiori che fa cenno a “vecchi bronzi italici” in Scultura italiana moderna, Alfieri, Venezia 1953.
18. M.L. Gengaro, Manzù e la scultura, in “Arte Lombarda”, II, Milano-Venezia 1956.
19. G. Manzù, risposta all’inchiesta Dove va l’arte italiana, “Domus”, XV, 110, Milano, febbraio 1937. L’inchiesta, condotta da L. Vitali, si sviluppa in tre puntate sui numeri 108-110 della rivista. Va segnalata, ancora nel 1937, la testimonianza di Carlo Carrà, già negli anni precedenti attento recensore dell’evoluzione di Manzù. In occasione della mostra alla Cometa di Roma, egli scrive: “In linea di principio stilistico, Manzù si appoggia, da qualche tempo, sulla scultura classica, ma in linea di fatto non si saprebbe indicare esempi a cui si richiami. Ciò vuol dire che, pur profittando degli insegnamenti del glorioso passato, Manzù cerca soprattutto di chiarire se stesso, cosa più importante che tutto il resto. Nelle opere che ora presenta alla Cometa, si ritrovano i punti più salienti di questa accanita e singolare ricerca. Massimamente nel David,  e nella Donna che si pettina parmi vedere le attitudini stilistiche dell’autore”: Manzù alla ‘Cometa’, in “Meridiano di Roma”, Roma, 23 marzo 1937 (il ritaglio è conservato nel Fondo Carlo Carrà, Car.II.736, presso l’Archivio del ‘900, MART, Rovereto).
20. R. Birolli, Testimonianza su Manzù, in “Corrente”, Milano, 14 aprile 1938. E’ questo senso di verità plastica che Birolli tenta di esprimere: “Le sculture di Manzù hanno tutto l’amore certo e incerto, cosciente e subcosciente, che ogni verità vuole; e respingono il paradosso, che può anche essere l’allucinante sintesi di un problema sbagliato”.
21. M. De Micheli, 1942, cit.; Manzù. Erbe, a cura di Gianni Testori, Pattuglia, Bologna 1942. Il libretto curato da Testori riproduce studi di erbe ai quali Manzù si dedica intensamente, tanto da farne uno dei filoni più continui di elaborazione anche nella sua attività di illustratore. Cfr. anche N. Lisi, Paese dell’anima, Frontespizio, Firenze 1934, con undici disegni di fiori alle testate dei racconti; G. Manzù, 30 disegni originali. Studi di erbe e fiori. Laveno 1944, a cura di D. Micacchi, Grafica e Arte, Bergamo 1985, riproducente una serie omogenea eseguita nel 1944; Virgilio, Le Georgiche, versione di G. Caprin, Hoepli, Milano 1948, con venti acqueforti di G. Manzù delle quali molte di soggetto affine.
22. M. De Micheli, 1942, cit.
23. G.C. Argan, 1948, cit. La compresenza d’una forte sensorialità e di tale rigore plastico gli fa dire anche, un po’ troppo schematicamente, di “questo continuo mescolarsi e soverchiarsi di impulsi opposti che vieta al desiderio di degradarsi a libidine e al rimorso di irrigidirsi in moralismo didattico”. Nel testo del 1947, Venturi aveva peraltro un po’ retorizzato: “La terra intera sussulta nel bronzo, e l’immagine è bene legata per mezzo del bronzo alla terra donde è nata”. Più affascinante la lettura di De Libero, 1938, ove scrive dell’ “ambizione che Manzù ha di togliere alla materia ogni brutale scoria per informare di dolente avvenenza un profilo, un corpo, un volto, una capigliatura; l’ambizione di sciogliere le forze della natura in una pacata, ombrosa delicatezza, di accendere lo spirito entro i sensi e decantarlo”. Per certi versi affine è quella di Ragghianti, 1957, cit., il quale tuttavia accentua “la fortissima sensualità e passionalità fondamentale di Manzù, tale che moltiplica molte volte quella di ogni comun mortale, la violenza dei suoi trasporti, la vertiginosa capacità di immersione nella vitalità”.
24. G. Manzù, in Giacomo Manzù. Esposizione per le celebrazioni del suo settantesimo anno, catalogo, Galleria dell’Accademia, Firenze, Giunti Barbera, Firenze 1979. In tal senso utile è la lettura di John Hale: “Manzù aveva un senso dello ‘spirito’ dei materiali che maneggiava (creta, cera e gesso) tale da superare la pura padronanza tecnica. Usando non solo le dita, ma il palmo e, se necessario, il gesto di tutta l’ampiezza delle braccia, liberamente ma accuratamente, il suo modellare creava la propria ampia struttura formale e, di fronte al modello, esisteva il giusto equilibrio tra libertà nel modellare e amorevole attenzione nell’osservare”: J. Hale, Il caso particolare di Manzù, in Giacomo Manzù, fotografie di A. Amendola, testi di J. Hale, Th. Kellein, E. Steingräber, Fabbri, Milano 1995.
25. Su quel periodo cfr. J. Rewald, Giacomo Manzù, Thames & Hudson, London 1966.
26. La documentazione grafica completa è in C.L. Ragghianti (a cura), Giacomo Manzù. Studio per un ritratto, catalogo, La Strozzina, Firenze, Vallecchi, Firenze 1956. Un gruppo consistente figura in Brandi, 1961, cit., il quale scrive a proposito di questi fogli: “Del fondo, non c’è più traccia. Non solo la figura genera la sua spazialità, ma questo processo è ormai così mentalmente posseduto che addirittura è la precostituita spazialità, qui, che genera la figura: una spazialità diffusa, simbiosi di ombra e di luce. Queste forme nascenti o ancora in corso di gestazione calano allora, ad un tratto, come dei grandi fendenti, larghi, ombrosi, densi tratti di carbone, che squarciano le tenere ombre vaganti, le obbligano al tempo stesso a coagulare, danno ad esse lo spessore, la distanza, e anche il timbro, la diversità di una materia e la diversità di un colore, o come ricordo lontano del colore e della materia”.
27. Le cento novelle antiche, Conchiglia, Milano 1946, due volumi con 16 tavole ognuno.
28. Th. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, Mondadori, Milano 1949.
29. B. Heynold von Graefe, L’improvviso di Manzù, Pozzo, Torino 1974. Della stessa autrice cfr. anche, Giacomo Manzù. Handzeichnungen “Inge”, Florian Kupfenberg, Mainz 1966. Già Scheiwiller, 1933, cit., scriveva: “Preferisco quelli pei quali l’artista ricorre all’ombreggiatura, facendo così intuire più che constatare la corposità del soggetto trattato”.
30. M. Carrà, Giacomo Manzù, I maestri della scultura, Fabbri, Milano 1966.
31. Virgilio, Le Georgiche, cit.; G. Manzù, 14 studi all’acquaforte per Vergilii Georgica, Istituto Italiano di Arti Grafiche, Bergamo 1948. Raggiungimento massimo in tal senso sono le sette litografie per S. Quasimodo, Il falso e il vero verde, Schwarz, Milano 1954. Un ragionamento complessivo in A. Ciranna, Manzù. Catalogo dell’opera grafica, Ciranna, Milano 1968.
32. N. Bertocchi, Manzù, catalogo, Centro d’azione per le arti, Torino, 8-24 maggio 1942: del quale cfr. anche Giacomo Manzù, in “Corrente”, Milano, 31 marzo 1939. Sulle stesse opere cfr. anche C. Brandi, Una mostra di Manzù,  in “Le Arti”, Roma, febbraio- marzo 1941.
33. Gli echi di tali tensioni accompagneranno anche la partecipazione di Manzù al concorso per San Pietro: cfr. C.B. Pepper, An Artist and the Pope, Grosset & Dunlap, New York 1968 (ed. it. Mondadori, Milano 1968)
34. Così A. Sassu, Passio Christi. Bassorilievi di Manzù, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1945.
35. C. Brandi, 1964, cit. : ciò determina, tra l’altro, la ragione espressiva dei “larghi tagli inferti al fondo che non hanno un valore grafico, e neppure di linea di forza o comunque di indicazioni dinamiche, ma sono una fase della stessa realizzazione spaziale dell’immagine”.
36. Cfr. in particolare C. Brandi, Giacomo Manzù. La porta di S. Pietro, Erker, St. Gallen 1964.
37. G. Manzù, citato in I. Schabel Manzù, Lo scultore e la ballerina. La mia vita con Giacomo, Corponove, Bergamo 1993.