Spagnulo
Giuseppe Spagnulo. Erotisch Rhetorisch Heroisch, catalogo, Nationalgalerie, Berlin, 19 giugno – 19 luglio 1981
Uno dei convincimenti critici che si sta facendo maggiormente strada in questo scorcio iniziale degli anni Ottanta, è che occorre rendere sempre più flessibili e approfonditi gli schemi di lettura nei confronti del prodotto artistico.
Se, infatti, nel decennio scorso ci si era potuti basare su una interpretazione per situazioni problematiche, in cui il sottofondo teorico comune faceva aggio sullo specifico individuale del lavoro, il momento attuale, di grande pluralità e ricco di interscambi tra filoni di ricerca differenti, pone l’esigenza di circoscrivere l’attenzione proprio sulla ricchezza individuale dei singoli itinerari espressivi: o meglio, di quelli che dimostrano una forte tenuta autonoma, oltre i limiti storici delle situazioni che li hanno generati.

Spagnulo, Le armi di Achille, 1980
In questo senso, la produzione di Giuseppe Spagnulo può essere assunta tra quelle maggiormente rappresentative. Nato scultore verso la metà degli anni Sessanta, Spagnulo non è mai stato pienamente identificabile con le situazioni di volta in volta emergenti, e si è costruito un percorso sempre in limine, ricco di aggiornamenti problematici ma mai frenato da nessun tipo di pastoia teorica. Ciò appare quanto mai evidente proprio nell’ultima serie di lavori (Antigone, Stromboli, Morta natura, Il pozzo dei desideri, Le armi di Achille), che rappresenta il raggiungimento pieno di un’alta maturità artistica, in cui la felice complessità della sua ricerca giunge a equilibrarsi in una coesione di splendida tenuta: proprio nel momento – e non è un caso – in cui trascolora ogni forma di gradiente ideologico-critico, e l’identità dell’arte si affida solo alla qualità assoluta dei propri risultati.
Due sono i grandi poli entro cui si è svolto il percorso espressivo di Spagnulo. Il primo, quello legato soprattutto ai suoi esordi, è caratterizzato dalla verifica di una possibilità d’uscita dall’informale che non sia quella di un rifiuto netto, sistematico, dei suoi valori, ma di una sua decantazione a un diverso livello, attraverso l’innesto di processi linguistici ed emotivi più controllati e intellettualizzati: secondo la via ben indicata da Fontana, da Manzoni, e per altri versi da Klein. Per Spagnulo ciò si identifica con l’eccitazione della tradizione artigianale da cui scaturisce, la ceramica. La ceramica (e, in genere, l’uso di materiali ‘poveri’), in cui la cultura della materia conserva intatta la potenza arcaica dei gesti primari, la possibilità di filtrare l’energetismo fisico-intellettuale in spessori che partecipano di una ritualità potente, atavica. La materia, nella sua intimità, diventa memoria, memoria autobiografica ma anche di un’intera cultura, di quell’epos popolare in cui convivono mito e quotidianità, magia e attaccamento elementare alle cose, alle forme.

Spagnulo, Mortanatura, 1980
Il secondo appartiene alla fine degli anni Sessanta. Il rapporto con la materia e la forma si fa più consapevole, più distaccato, e si innerva di una serie di nuove valenze. Il recupero della geometria, innanzitutto, come confronto serrato con la minimal e il suo opaco misticismo e come possibilità di intervenire nello spazio – nello spazio reale, ambientale – secondo una logica costruttiva più prepotente, più assertiva, a dimensione collettiva. E poi, l’accentuazione di un rapporto agonistico, di ostilità quasi, con il materiale, in cui far confluire la forte carica di vitalismo che accompagna da sempre Spagnulo. Un vitalismo che è urgenza deviante, che non è più gesto primario ma atto consapevole di trasgressione: per cui la scultura non è ‘messa in forma’ ordinante ma soprattutto determinazione di un evento che coinvolga totalmente, a ogni livello, l’artista. E’ il momento della rabbia, della militanza politica, della grande speranza rivoluzionaria, in cui l’epos da popolare si fa più propriamente sociale. L’artista interviene sulla struttura, sullo schema costruttivo, ma come un antico faber, in una sorta di eroico titanismo psicologico: “Il fuoco era nelle mie mani diventato fulmine; l’ho arroventata nel punto non tagliato e ripiegata su se stessa nel senso contrario alla sua ‘dolce curva’. Ero molto stanco alla fine e anche lei si è adagiata sul terreno come un Eracle dopo una inutile lotta”, ha scritto Spagnulo a proposito de La grande curva del 1974. Nascono i grandi lavori (Black Panther, 1968; Londonderry, 1972) e soprattutto i Ferri spezzati. La geometria vi è assunta, sì, ma per essere frantumata, contorta dai segni di fuoco e dai colpi dell’artista. Sono impronte violente, tutte fisiche, di un gesto ultimativo che si ferma al limite della dissoluzione.
E’ evidente la carica simbolica di questi lavori. Ma è tutta interna al processo di strutturazione e destrutturazione plastica; non concede spazio alla designazione, alla metafora scoperta. In questo momento non importa tanto la qualità mentale della materia, quanto la sua rozza quantità fisica, il suo opporsi brutale al gesto dell’artista. Esso a sua volta non è di formazione o di trasformazione, ma gesto allo stato puro, positivo su negativo, nella sua elementare grandiosità. Con queste opere Spagnulo instaura nel dibattito artistico contemporaneo una sorta di no man’s land che gli è assolutamente tipica, in cui la ricerca plastica propria sconfina nella sua concettualizzazione, in cui non c’è limite tra organico e geometrico, in cui la struttura si fa veicolo di un plusvalore espressivo radiante e coinvolgente.
Fisicizzazione mentalistica, abolizione del diaframma tra vissuto e linguaggio, elementarietà dei segni, frantumazione dell’edificio linguistico artificiale: tutti elementi che troviamo presenti anche nell’arte povera (che parrebbe di segno molto diverso, ma con cui in realtà Spagnulo presenta più d’una tangenza). Egli, però, li riduce alla dialettica fredda propria della più rigorosa tradizione scultorea, di quella linea costruttivismo-minimal entro la quale opera verifiche continue e profonde. Cosa che (fatto non trascurabile) lo mette al riparo da ogni rischio di eversione linguistica gratuita. E’ su questo background che Spagnulo innesta la nuova fase di lavoro, la più riflessiva ma anche, per molti versi, la più matura e compiuta. Abolita ogni barriera di linguaggio, rese estroverse fino all’incandescenza le proprie mozioni culturali ed espressive, verso la fine degli anni Settanta egli inizia un complesso à rebours all’interno del proprio stesso lavoro, a riprendere e coordinare le trame di una fluenza che ha proceduto, senza soluzione di continuità, per addensamenti problematici.

Spagnulo, Stromboli, 1980
Ecco allora il rigore strutturale arricchirsi nuovamente di ellittiche configurazioni simboliche; ecco riaffiorare la materia-memoria autonomamente significativa nella sua arcaica evidenza. Soprattutto, ecco il titanismo psicologico, la tensione ideologica rivestirsi – senza perdere in potenza – degli spessori e degli umori del mito, dell’archeologia di una cultura che è allo stesso tempo soggettiva e collettiva.
Quello di Spagnulo diventa così un viaggio introspettivo (ma non intimista) alle radici della condizione esistenziale, a carpire il senso tragico del limite. E’ la rimessa in gioco tremenda delle certezze, il rifiuto di mascherarsi dietro la cosmesi del linguaggio, del facile gioco di una cultura ripiegata sul culto ambiguo del proprio specifico.
Antigone e Le armi di Achille, con la loro struttura affabulante, con il loro ricorrere sia alla suggestione culturale che a quella materica, sono una sorta di tomba dell’utopia, di proiezione autobiografica in forma di mito: tutto moderno, però, in cui il pretesto narrativo non è nulla più che un reagente che fa scattare meccanismi sfumati di riappropriazione soggettiva, che fa coagulare umori complessi e dispersi. Stromboli e Morta natura innescano la proiezione psicologica sul paesaggio, sulle sue materie: la sabbia nera, l’argilla, la cera; e sulle gelide impronte della vita: il teschio, la traccia vegetale, il fusto di colonna tornito dall’uomo, le evocazioni di geometria. Il presupposto era già nei Paesaggi e nelle Archeologie del 1977-79: ma in questi esiti recenti si è aggiunta una nuova, felice souplesse, un ricorrere a elementi significativi meno rigidi, più connotati. C’è, anche, il frugare in certe pieghe riposte della storia recente dell’arte per eccitarne le valenze in una più aggiornata e libera pratica espressiva, in una sorta di controllato eclettismo dalla forte omogeneità d’impianto.
Infine, Il pozzo dei desideri è una sorta di manifesto del nuovo corso di Spagnulo. Lo schema strutturale è ancora quello del contenitore, della tomba che (come in Antigone) si richiude mortalmente a occultare lo spessore del gesto, dell’azione, a infrangerne l’urto trasgressivo.
Da un rapporto fortemente polarizzato, di eccitata contrapposizione-complicità tra sé e l’opera, Spagnulo è tornato a una sorta di più sottile solidarietà con i suoi lavori, cui – sotto la dura scorza materica – affida anche le sfumature più esili della sua complessa riflessione concettuale. Quasi ad avverare la profezia che, nel pieno boom dei linguaggi artistici ‘altri’, Francesco Arcangeli formulò nel 1972: “L’arte, l’opera […] è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira. E’ un’azione indiretta, ma è ancora a disposizione dell’artista per cambiare il mondo. E’ una prefigurazione dell’unica politica moderna che l’uomo dovrebbe augurare a se stesso, quella del libero autogoverno; per sottrarre il mondo alla legge d’una necessità apparentemente ineluttabile”.
Ecco, in chiave estremamente aggiornata la fase attuale di Spagnulo corrisponde proprio a questo. Per raggiungerla, egli si è mosso come un voyageur del secolo scorso. Ha visitato paesaggi, cose, miti, memorie culturali, non con il distacco freddo dell’intellettuale padrone di certezze, ma con il dubbio amorevole e angosciato di chi cerca l’immagine della propria possibile liberazione.