Mel Ramos, catalogo, Galleria Maggiore, Bologna, 5 maggio; Palazzo dei Sette, Orvieto, luglio 2001

E’ già una misura di plus que réel a connotare il debutti alti di Mel Ramos sulla scena artistica statunitense degli anni Sessanta. O meglio, ciò che in teatro si dice “a parte”, ovvero un modo di porsi insieme sul palcoscenico della visione, ma con una lateralità e distanza di sguardo tale da produrre uno straniamento significativo.

Superman, Captain Midnight, Wonder Woman, 1962, perfettamente inscritti nella declinazione di Pop Art stabilita da John Coplans a poi da Lawrence Alloway, che assume tra i Six More un Ramos e un Ruscha, intuendo una questione di sguardi, e di pensieri della visione ordinaria/straordinaria, più che di mere iconografie, sono davvero eroi.

Eroi d’un epos bidimensionale, non più veri non meno veri di Achille e Astolfo, ma come loro capaci di proiettare la propria fisionomia in una sorta di sfera sacrata, frame dell’arte, carisma iconografico, immaginario fantasticante. Non più non meno mitici, o mitizzabili, o oggetti di remitizzazione, di quanto accada, per calarci nelle altre mitologie radicali della modernità, alla Gioconda con o senza baffi, o all’Olympia di Manet, o al Gachet di van Gogh…

Ramos, The Transfiguration of Galatea n. 4, 2001

Ramos, The Transfiguration of Galatea n. 4, 2001

Solo, frutti d’una cultura che preferisce la presenza alla profondità, concettualmente pragmatica e attualistica, che conosce vecchio e nuovo, e l’antico stesso pensa leggendario.

A Ramos importa tuttavia, e questo è il dato che a mio avviso ne innerva il percorso tutto, fuori da una stagione d’arte a sua volta fattasi epos e mitologia, dipingere quelle icone, non raffigurarle. Non l’effigie, dunque il meccanismo diretto dei riconoscimenti primi, è il fulcro del suo procedimento, bensì la sua traduzione nella dignità linguistica in sé “alta” del pittorico, di un codice che, pur giunto alla faglia del popism, della mimesi come discrepanza estrema, del redoublement parodistico e parossistico, non rinuncia alla propria identità ambiguamente culturale.

Ramos dipinge bene i suoi eroi ed eroine. Prosciugando addirittura e mantenendo in tensione, ai suoi inizi, la qualità dell’atto materiato della pittura d’azione, del quale trascolorano gli umori romantici e le letterature, e permangono le sprezzature irritate del gesto che si impossessa dello spazio, che agonicamente spinge la forma a decidersi dall’interno dell’indistinto pittorico, e monta in figura sino a ritrovarsi, perfetta ostranenie, in immagine che si avvede di aver perso per via il proprio corpo.

Scrive bene Guadagnini di “un corto circuito per cui non più la pittura si nutre della cultura di massa ma, al contrario, si dimostra in grado di mimarne gli stilemi e di fornire a sua volta ulteriore materiale all’immaginario collettivo, all’insegna di una arguta commistione dei linguaggi e delle icone. Con una punta di aristocratica nonchalance, toccando il kitsch, rifiutandosi anche l’alibi della provenienza delle immagini”. Se è questione di cultura alta e bassa, non si assiste nel primo Ramos all’operazione cinicamente intellettuale di portare il basso nell’alto, e piuttosto la curiosità giocosa di far confliggere pariteticamente entrambi i codici, e di vedere criticamente che cosa succede.

Ciò spiega la stagione più rinomata dell’artista, quella delle pin-ups. Esse sono già, nell’immaginario desiderante, un caso di plus que réel, almeno dai tempi delle dèe, delle Elene e delle Beatrici. E sono, al tempo stesso, il corpo e la forma per eccellenza, dalla Venere giorgionesca alla modella di Courbet: anche Duchamp, dalla sua scala, fa discendere un nudo. Sono, in versione mondana e insieme antropologicamente fondativa, il paradigma del bello tra sensi e intelletto: formosissima vale, per i Latini, forma suprema. Cambiano, tra quelle Veneri e le donne di Vargas – noi avevamo Boccasile, che conduceva autarchicamente lo stesso gioco – solo i media, e una sorta di enfatizzazione dell’immaginario che spinge su altre clausole della retorica sessuale del bello.

Ramos, Galatea n. 4 with lion, 2001

Ramos, Galatea n. 4 with lion, 2001

Le pin-ups sono l’incarnazione dell’antico sogno pittorico (quanta letteratura e psicanalisi d’accatto nella nozione corrente di “nudo artistico”) ridotta alle proporzioni del sacro meretricio moderno delle star, confidente e distante, suggestione di possesso e distanza incolmabile.

Anche in questo caso Ramos dipinge, non riproduce. L’art sur l’art che diverrà in seguito il motivo prediletto già ha i suoi inizi qui, è sempre un guardare, un proiettare desideri di forma – e della perfezione della forma – in queste paradossali idealità inverate, in queste carni e pelli che s’acconciano a falsificarsi per somigliare a un ideale. Reintroduce, Ramos, quella componente di ironia, di scatto criticistico, che la medializzazione del nudo femminile ha provveduto argutamente a sottrarre: ed è in questo agire senza trucchi mentali sul trucco formale la sua strepitosa forza intellettuale.

Come un Winckelmann d’oggi egli ci racconta il procedimento del masscult, ma anche del midcult, di assumere, dalla hall of fame della bellezza mitica della pittura, il fior fiore delle forme, e farlo diventare un corpo che sembra vero, che si vuol credere respirante (e possedibile, va sans dire, nel secolo di Freud). Questo è non solo “Playboy”, ma anche la pubblicità, e il cinema, e la televisione: e Ramos non poteva sapere, ma certo intuiva dalle premesse, i destini fulgidi della chirurgia e della sua infinita Body Art.

Se l’arte è un serbatoio di immagini da guardare, se alla fin fine il focus della sensualità è nella sostanza visiva del femminile, è naturale che Ramos prosegua ed estenda, nel corso degli anni, il suo à rebours verso i meccanismi di produzione di questo idealismo formale. Esso risiede nello stesso atelier dell’artista, a sua volta topos dell’immaginario collettivo come laboratorio di segreti non meno suggestivi degli alchemici, ove officia il sacerdote che scambia bellezza corporea con bellezza ideale, e viceversa.

The Artist in his Studio e The Drawing Lesson, le due serie recenti più cospicue, riportano il meccanismo della remitizzazione, della citazione, della parodia, in seno all’ambito stesso della nascita del mito della forma femminile. Anzi, del mito dell’immagine tout court, con quell’estendersi della cultura di massa a far icone della pittura stessa, nella cornice sacrale/pubblicitaria del museo.

Ecco, ancora, un guardare che tende a dismisura dal punto di vista del consumo, tanto quanto all’atrofia di senso dello sguardo, nell’esperienza collettiva. Ramos dipinge, ancora, non narra per immagini. Ragiona della medializzazione, della massificazione, della normalizzazione del valore stesso della pittura, dell’arte, dipingendo: e immettendo punti retorici forti – a loro volta oggetto di citazione, eccetera – come lo specchio, erede di tutti gli Spiegelbilder della storia, e doublure radiante del vedere, e “specchio specchio delle mie brame” cui attribuiamo poteri occulti di bellezza. 

Lo scatto straniante è nella ferocia del talento, ora, che egli lascia in vista perché, in questo caso, si tratta di elemento proprio, in quanto a sua volta oggetto di plurimi equivoci e stereotipizzazioni.

Piace, in tutto questo percorso, pensare che Ramos insegua non solo il suo The Lost Painting of 1965, ma il senso stesso del chef d’oeuvre inconnu: che è la ragione stessa della salvezza e caduta – e forse salvezza, ancora? – della pittura.