“A meno di non ricorrere a una fotografia”, catalogo, Galleria M&D, Gorgonzola, 8 dicembre – 19 febbraio 2012

“La macchina fotografica la sai usare, vero?”. “È facile” rispose Gumm. “È solo una scatola con uno sportello”. (Jerome Charyn. Bronx).

“Queste foto, immagini sacre, che le persone appendono o piazzano in casa, sono proprio le immagini legittime che noi utilizziamo qualche volta per l’arte, e con cui forse facciamo qualcosa di illegittimo”.

Loretta Lux, Milo 1,  2004

Loretta Lux, Milo 1, 2004

Così ragionava Gerhard Richter, l’autore che più lucidamente, nella tarda modernità, ha saputo concentrare l’attenzione del proprio ragionamento artistico non sulle questioni di legittimità estetica della fotografia, e men che meno tecnica, ma sulle convenzioni di aspettativa e di sguardo che ciò ha comportato e comporta.

Che la fotografia sia strumento autenticato dell’arte, è fatto noto almeno dall’‘800: basti dire di Corot. Che essa sia qualcosa di più di una mera modalità tecnica, ma possieda un’identità espressiva specifica che i decenni hanno ben delineato, è fatto che le consapevolezze di oggi hanno largamente acquisito.

In gioco sono la natura e la ragione dell’immagine, con quel suo essere visione in statuto primario di somiglianza e convenzione retorica del far vedere, rappresentazione e coagulo autonomo di senso; il suo grado implicito di narratività ed emblematicità; la puntualità temporale e la comprensività spaziale del suo essere. La possibilità, ancora, di convocare dal codice pittorico una qualità altra rispetto all’ordinario sensibile, per via di facoltà astrattive ed enunciative, di coagulo d’una interna durata psicologica di percezione e interiorizzazione: qualcosa che rimonti al valore di eidolon, “doppio” oggettivato che può tenere, insegnano gli antichi, dell’ombra e del sogno e dell’apparizione, non solo del sensibile d’esperienza.

La questione centrale diviene dunque quella d’uno sguardo che non si fondi soltanto su saputi trasmessi acriticamente, e men che meno per via tecnica, ma che rivendichi a se stesso un ruolo lucidamente attivo nella sostanza d’immagine.

Shirin Neshat, Mahdokht, 2003

Shirin Neshat, Mahdokht, 2003

È rispetto a tutto questo che Man Ray, pioniere assoluto della rivendicazione all’arte dell’identità del fotografico, poteva scrivere: “La fotografia è un’arte? Non bisogna cercare se è un’arte. L’arte è superata”. Quell’arte, naturalmente, quella fatta di disciplina e di protocolli visivi categorizzati, omologati. La fotografia, Man Ray sa bene, non pretende di farsi accogliere entro il perimetro definitorio dell’arte di prima: lo vuole modificare, contaminare, espandere: vuole che esso stesso sia materia di riflessione, a partire proprio dalla premessa ideologica estrema della somiglianza. Spingendosi sino al punto che farà dire a Ugo Mulas: “Non solo il fotografo, ma nessuno si può mai vedere in faccia, realmente, a meno di non ricorrere, appunto, a una fotografia”, in una sorta di strepitosa invenzione di garanzia iconografica.

È notevole osservare come le stagioni in cui la fotografia si fa protagonista del dibattito artistico sono quella entre deux guerres, e poi quella che s’avvia con Warhol e ed Ruscha e che s’inoltra sino a oggi. Sono stagioni in cui massimamente si pone la questione della destinazione socialmente funzionale, a partire dalla comunicazione, della cosa d’arte, che troppi malintese affermazioni di autonomia hanno reso estranea, finanche superflua, senza che in cambio se ne consolidasse un’altra ragione condivisa. Ovvero, quelle in cui l’alterità inderogabile del senso ha preteso, o presunto, o sperato, di istituire una nuova possibile liaison – non importa se complice o agonistica – con il riguardante: chiedendo un’attenzione, per evocare Simone Weil, che dunque sia sguardo, sguardo consapevole di se stesso e dell’altro, e non mera adesione.

Nan Goldin, Kathleen at the Bobery Bar, 1995

Nan Goldin, Kathleen at the Bowery Bar, 1995

In altri termini, il fascino della fotografia è l’ostensione nuda, oscena anche, del sensibile, secondo un paradigma di realtà intollerabile da sempre nel pittorico. Questo può servire, intuisce qualcuno, per sottrarsi alla crisi comunicativa delle arti storiche dopo l’avanguardia, per ristrutturare una funzionalità, o una mitologia, arte/vita che ormai non si riesce più a raccontarsi. È una primarietà, una sorta di grado d’avvio della densità dell’immagine e della sua capacità di senso. Ciò, anche quando matura una facoltà di prelevamento contestuale, una attitudine manipolatoria, in chiave sostanzialmente astratta: astratta, s’intende, non dal punto di vista iconografico (l’iconografia, e più ancora l’aspettativa di un livello primo di lettura iconografico, è semmai il motivo interrogativo e retorico insieme sul quale agire) e piuttosto da quello di una deresponsabilizzazione definitiva in termini di senso: dunque, passibile di infiniti ulteriori impreventivi sensi possibili.

Ovvero, e per usare un’espressione che pare un gioco di parole, chi guarda vede una fotografia che rappresenta una fotografia, e un codice linguistico della cui verità/falsità ormai non più ci si rende conto: falsificando tale falsificazione, l’immagine genera ulteriore senso, un senso possibile: il quale, naturalmente, non si pone più neppure il problema della somiglianza all’altro, essendo altro di per se stesso.

Che la stagione più cospicua, in termini di pratica e di riconoscimento della fotografia in arte, sia stata quella successiva all’affermazione della pop art, quando dunque sono entrate nel croguiolo della riflessione questioni come la cultura dichiarata bassa a fronte di una autoproclamata alta, le mutate condizioni psicologiche di lettura e appropriazione intellettuale ed emotiva dell’immagine a seguito dell’ipertrofia mediatica, una scala di gradi d’evidenza e di capacità comunicativa in cui il contesto si fa prevalente sull’immagine in se stessa, è un fatto per molti versi fondante delle esperienze che dagli anni ’60 e, più, dai ’70, sono maturate.

Vik Muniz, After Monet, 2005

Vik Muniz, After Monet, 2005

La mostra ragiona, ovviamente senza alcuna pretesa d’essere esauriente, né classificatoria, sullo spettro amplissimo delle pratiche. Lo sguardo narrativo e partecipe che discende dalla cultura radicata del reportage e quello freddo, inemotivo, iperretoricamente documentario. Il confine ambiguo con l’immagine glamour e la visionarietà che s’inoltra nella ridondanza retorica. La situazione costruita e il dialogo critico con il concetto pittorico di genere. L’evidenza scarna e la manipolazione complessa, l’artificio esibito. Il popism accelerato e la sottigliezza del vaglio concettuale.

Tutto ciò, insomma, che riguarda oggi la possibilità dell’opera artistica di farsi ancora luogo d’un valore possibile, d’una interrogazione lucida, d’un senso, indipendentemente dalle sue stesse condizioni storiche di formulazione, o meglio, tenendo conto della loro estrema variabilità e contraddittorietà.