Marini
Marino Marini. Le opere e i libri, Biblioteca di via Senato, Milano, 17 giugno – 13 settembre 1998, Electa, Milano 1998
Marino Marini è uno dei rari autori del nostro secolo ai quali non sia accaduta, se non in modi assai blandi, alcuna delle due seguenti disavventure: essere inquadrato storicamente sulla base di dati documentari carenti, e di una conoscenza complessiva fatta più di slogan critici che di studi; essere avvolto da un alone puramente mitologico, di assunzione a luogo comune del moderno, che ne facesse uno stereotipo del business culturale, con conseguente disinteresse per l’amore e la comprensione del suo lavoro. E al quale, per converso, sia toccata la vicenda, che verrebbe da dire miracolosa, di un accoglimento universale, al livello del gusto mondano quanto a quello della riflessione più colta, senza soluzioni di continuità e forzature.
Ovviamente non è un caso. E’ nei cromosomi stessi del pensarsi artista di Marino, e della sua straordinaria operosità, che si legge tale fervida anomalia.
Il proposito di questa mostra non è quello di rendere un ulteriore omaggio a uno dei grandissimi artisti del nostro secolo, ma di lumeggiare, almeno, i tratti fondamentali di questo aspetto della sua fisionomia. Adottando come chiave un approccio inconsueto (ma più che altro, forse, desueto), quello dei modi che l’artista stesso sceglieva per rappresentarsi, attraverso l’esperienza di confine tra la pratica dell’arte e la sua mediazione alta e primaria, il libro.

Marino, Il Fiore delle Georgiche, 1942
Esistono libri di Marino, e libri su Marino che sono sempre di Marino. Opere che parlano di opere: meglio, momenti di un unico agire che è sempre d’arte, scegliendo giorno per giorno, stagione dopo stagione, le arti nelle quali inverarsi.
Non si vuol intendere, con ciò, soltanto la serie di incursioni felici nella tradizione moderna del libro d’arte, in seno alla quale pure l’artista ha dato prove illustri, a cominciare da quel Fiore delle Georgiche che negli anni difficili, 1942, ma già preannuncianti i decenni più straordinari del suo lavoro, nasceva dalla collaborazione con Salvatore Quasimodo e con le edizioni della Conchiglia (quelle, per intenderci, che daranno Italia 1944 di Renato Birolli, 1952, o Spazialismo di Giampiero Giani, 1956), e del quale si presentano in mostra esemplari diversamente arricchiti dall’estro dell’artista. Si indica, invece, un più esteso e acuto piacere del libro, per il quale ogni pubblicazione a stampa – catalogo, monografia – non può non essere a propria volta contrassegnato da un’impronta di qualità progettata, ricercata, raggiunta.
Certo, si dirà, sono stati un tempo, i decenni tra i quaranta e i sessanta, in cui l’arte del libro tutta ha beneficiato di un duplice influsso: il retaggio ancora ben vivo della tradizione otto-novecentesca francese, in bilico con la grafica d’arte (di recente una mostra milanese dedicata ad Ambroise Vollard proprio dalla Biblioteca di via Senato ne ha rimemorato uno dei raggiungimenti massimi), e insieme la prosecuzione della altissima tradizione tipografica e di legatoria nostrana, nipote e figlia dei Bodoni, dei Mardesteig, dei Gozzi, che si apriva senza fratture alla modernità degli Steiner e di un mondo imprenditoriale ancora affascinato dall’eccellenza, incarnato da figure che si chiamavano, nella Milano di Marino, Lucini, Pizzi, Nava.
Tuttavia, l’intuizione di tale bilico perfetto fra tradizione distillata e senso non nevrotico di modernità è tutta di Marino, e di rari altri con lui.

Marino, Il Fiore delle Georgiche, 1942
Tien conto seguirne lo sviluppo, rimandando, per ciò che concerne i dati tecnici dei libri, alle schede redatte dalla perizia di Laura Tamborini.
Del 1941, per la Conchiglia, è il Marino Marini di Filippo De Pisis, del quale l’artista impreziosisce talune copie con interventi originali, in una continuità dolce e arguta con le riproduzioni, e tutte le copie con litografie. Ad esso affine è, l’anno dopo, il Marino Marini di Luciano Anceschi che esce nei Quaderni del disegno contemporaneo della milanese Galleria della Spiga e Corrente: una collana, ben si sa, memorabile, generatrice diretta della collana di disegno che di lì a poco nascerà presso le edizioni del Milione.
Del 1942 è anche Il fiore delle Georgiche del quale s’è detto. Qui l’operazione è di vera e propria illustrazione, e nel cuore perfetto della miglior tradizione dell’editoria d’arte. Una serie con legatura speciale, una serie con intervento originale dell’artista, una serie affidata a un lavoro comunque eccellente di tipografia e di impaginazione, pur nell’avarizia di mezzi imposta dal periodo. Un’opera così decisiva, e certa di sé, che Marino decide di intervenire almeno su un esemplare con una retouche complessiva, che ne faccia un vero e proprio album originale. Rimasto inedito sino a oggi, custodito gelosamente da un collezionista italiano, tale esemplare si presenta per la prima volta in questa occasione.

Marino, Donna seduta, 1945
Si desume, sin da queste prime prove, che l’atteggiamento di Marino è quello dell’artista rinascimentale, più ancora che dell’emulo del grande libro d’arte francese. Vale certo, per lui, la nozione di arte suggestiva che Odilon Redon, pioniere del libro d’arte moderno, conia per suggerire il rapporto fra immagine e testo, riprendendo l’indicazione baudelairiana di correspondance (è ben nota la celebre affermazione di Redon: “Io non ho mai usato l’imperfetta parola ‘illustrazione’… Il termine giusto non è stato ancora coniato”), e certo l’esempio del Pierre Bonnard di Les histoires du petit Renaud di Claude Anet (Gallimard, Parigi 1927) o della Sainte Monique di Ambroise Vollard (Parigi 1930) gli è – più forse di altri – ben presente. Ma più ancora vale l’identità ideativa che, nello schema retorico della pagina, stabilisce il luogo fondamentale del disegno come dell’incisione come del libro, e che parimenti è matrice di ogni altro operare artistico: un mito forse, il mito per eccellenza dell’arte, del quale l’artista pare intuire il dissolvimento – e in ciò risiede la tragedia della modernità della quale egli è testimone partecipe – ma che non dismette mai di celebrare: l’artista come “l’uomo di virtù degli umanisti”, sono le sue parole.
Al di là di filologismi che, nel caso di una figura complessa e geniale come Marino e dell’epoca in cui matura, assai meno provinciale di quanto troppo spesso ancora si dica, appaiono francamente superflui, se non stucchevoli, è questa la lezione vera che egli apprende a partire dal 1917 dai maestri del Regio Istituto di Belle Arti fiorentino, Galileo Chini, Celestino Celestini, Domenico Trentacoste. E’ la lezione dell’artista come “uomo di virtù”, capace di una pluralità di approcci d’arte perché perfettamente consapevole della loro sorgiva unità, che le tecniche – la perfetta inderogabile padronanza delle tecniche – spiegano al mondo in forma formata. E’ la cultura del primo modernismo italiano, quello che tra fine ottocento e primo novecento guarda al rinascimento (si pensi, giusto ad esempio, a un Camillo Boito, o alla una figura riletta di recente come Lodovico Pogliaghi, pittore scultore illustratore decoratore…) in quanto fonte di un pensare l’arte come totalità secondo modi che, soprattutto da noi, si saldano negli anni venti-trenta con gli aspetti meno vieti del Novecento e con il dibattito internazionale sull’integrazione delle arti, più per via di continuità che di superamento, affratellati dal sospetto per l’absolument moderne, ma in favore, comunque, di un moderno d’identità storicamente accertata.
I tratti genetici di ciò si leggono in Marino come, sia pure in declinazioni assai differenti, nei più giovani Fontana e Melotti, e in genere nei figli migliori delle Accademie nostrane degli anni Venti (e quanto importante sia la scuola, il magistero, nell’intendimento del nostro artista, è testimoniato dalla sua stessa biografia).

Marino, Cavallo e cavaliere, 1947
Senza trarne deduzioni definitive e arbitrarie, e senza voler ridurre a facile formulario critico, davvero questo è il punto che distanzia Marino dalla fisionomia prevalente del dibattito scultoreo italiano, nel quale egli si inserisce autorevolmente sin da metà anni venti. Il suo problema non è, come per i Manzù o i Messina – e com’è per lo stesso Martini – la scultura, ma il valore dell’artistico nel suo complesso, come egli ha visto elaborare con fatica – e con esiti quasi sempre inadeguati – dalla generazione che lo precede, e come sarà normale nei migliori di quella che lo seguirà. Solo nel 1963, con Idea e spazio, poesie della gemella Egle accompagnate da 12 acqueforti, non a caso realizzato nell’atelier Crommelynck, Marino aderirà in effetti al modello del libro – album grafico secondo l’esempio in voga nel collezionismo bibliografico e artistico di ispirazione parigina. E solo successivamente a quella data la sua lunghissima carriera incisoria, nata al sorgere stesso del suo amore per l’arte, accoglierà la regola dell’album, della sequenza ordinata: del 1968 è L’Album n. 1, di acqueforti, del 1969 From Color to Form, di litografie, certo non a caso stampate rispettivamente da Lacourière e da Mourlot per XXe Siècle, Parigi, e Amiel, New York. A seguire le prove primissime nel libro vengono, a cadenze pressoché regolari, monografie e libri illustrati, in perfetto bilico d’impegno inventivo, frutti tanto della conoscenza profonda e diretta che l’artista mostra per l’arte della stampa, quanto della frequentazione intensa del mondo letterario (anche indipendentemente dallo stretto rapporto con Egle), della quale offre una testimonianza preziosa, in questo catalogo, Giancarlo Vigorelli.
1948: ecco la memorabile monografia di Raffaele Carrieri per il Milione, Milano, l’inizio di una lunga collaborazione con le edizioni della galleria, della quale per questa mostra si sono reperiti due esemplari con tempere originali. 1951: La memoria, il messaggio con Mario Ramous per Licinio Cappelli, Bologna, occasione nella quale sperimenta la formula del portfolio con Due litografie, sei disegni.
Ancora per il Milione, ecco la monografia di Umbro Apollonio, che riprende e rielabora quella del 1948 e viene largamente ristampata, per la prima volta ad affrontare il brivido di una grafica editoriale tutta moderna, scandita dal primato autorevole della fotografia, ma con una classicità sobria di costrutto che ancora fa scuola. E a fianco, le trepide Sei tavole a colori uscite nel 1954 per le cure di Egle, in una fortunata collana di sofisticata sobrietà ed economia.
Di lì a poco ancora due edizioni con Egle: il piccolo, incuriosito, sensuosamente classico Poesie per il Milione, 1957, seguito un anno dopo da Gedichte per Fischer, Francoforte.
In effetti è proprio dal decennio cinquanta che Marino può dar pieno corso a questa sua ossessione amorevole per la qualità editoriale, nella forma di quella tutta speciale volupté che gli impone di profittare anche delle occasioni bibliografiche di carriera per aggiungere un’altra tappa al suo viaggio nel libro. Il decennio cinquanta non è solo quello della grande maturità, ma anche quello dell’unanime rticonoscimento internazionale della sua grandezza, con l’espandersi all’infinito della sua fama tra Europa e Stati Uniti. Che non si tratti tuttavia di un mero assecondare le spinte del pur nobile costume editoriale dell’arte è detto da più segni: dalle litografie inserite nell’ottavo di frontespizio del De Pisis 1941, da quelle per Ramous 1951, da quella per Apollonio, seconda edizione, 1953. Da qui, da questa certezza iniziale che il libro è comunque una delle discipline dell’arte, al quale l’artista debba attendere con padronanza di progetto e di invenzione, oltre che di tecnica, scaturisce la sistematicità che lo accompagna dal decennio nuovo: litografie nascono per Werner Hofmann, L’opera grafica di Marino Marini, edita nel 1960 da Gerd Hatje a Stoccarda e dal Saggiatore a Milano, per Eduard Trier, Marino Marini, Plastik, ancora con Hatje l’anno successivo, e di lì in poi per le versioni speciali che egli ottiene di pressoché ogni pubblicazione importante: le quali rivelano, tutte, un vero e proprio progetto intellettuale; la qual cosa è, ben sappiamo, assai più della semplice mostra di bravura di un graphic designer. Ancora nel 1976, eccolo porre mano ai Commentari poetici ispirati dalle opere di Marino, di Egle, editi da Graphis, Livorno e Toninelli, Milano, e stampati a Milano da Lucini, tenace continuatore della stirpe dei carezzatori di libri.
La mostra odierna segue, per exempla, questo percorso. Accompagnandolo, per amore e per necessità, con documenti alti degli aspetti tutti del suo operare, la scultura in primo luogo, la pittura, il disegno, la tecnica mista, l’incisione.
La scelta delle opere, oltre a seguire un filo tutto suo di curiosità per prove rare o poco viste, si prefigge soprattutto lo scopo di porre in evidenza gli aspetti di fisiologica continuità inventiva che corre per tutte le scelte disciplinari: tanto sul piano dell’iconografia – e ciò è, nel caso di un artista avvinto al motif come Marino, assai agevole – quanto su quello della sottolineatura di un apparato fondativo di segni che presiede, a ben vedere, a ciascuna delle declinazioni operative. Segni che valgono per Marino – è questa, credo, la sua straordinarietà assoluta – non come apparati di stile, ma come codici di una coscienza primaria della forma alla quale egli giunge con lavorio agguerrito e impietoso: un levare che si rifiuta alle scorciatoie del primitivismo – tanto nell’accezione francese, della quale egli è ben informato dagli anni venti, quanto di quello più rustico e talora dialettale del dibattito nostrano – e che si pretende, con ambizione assoluta, distillato per compiuta presa di possesso in seno all’idea stessa di classicità.
Quando Marino afferma: “ A me piace andare alla fonte delle cose. M’interessa la questione iniziale: una civiltà che incomincia”; oppure “C’è una sola idea che sta insieme: il complesso delle cose, quello che hai assorbito attraverso l’umanità”, ci suggerisce, credo, l’intuizione profonda, che lo accompagna sin dai tempi in cui il classico è per altri retorica d’accademia oppure alibi d’un ordine superiore e in qualche modo prestabilito, e comunque un modello primariamente intellettuale, un nomos, un paradigma; l’intuizione, si vuol dire, che il classico sia il naturale della forma, l’innatezza della regola che non è abbigliamento ma nudità della forma, e ordinarietà, e accidentalità possibile, anche: e, attraverso tale immediatezza fondamentale, commercio con la sacralità oscura e radiante del senso. E’ una sorta di verità elementare del senso nella forma che egli avverte, e che passa senza soluzioni nella vicenda storica degli stili: da ciascuno dei quali dunque è possibile, e si deve, distillare, sino a raggiungere uno status di identità dell’immagine che è insieme monumentalità senza grevità (del nostro secolo, Marino è forse l’artista nel quale meno conti la misura dell’opera, proprio per la sua straordinaria intima coesione), altezza di senso senza veleni intellettualistici, sostanza d’archetipo e levità narrativa: e, intrinsecamente, naturalmente, bellezza.
Nasce da qui il suo carattere, che è possibile, a patto ormai d’intendersi, dire stile: la chiarezza nitida delle sue opere, siano esse acqueforti o sculture, è chiarezza d’anima, di un autore che attraversa il dramma della modernità forte di certezze che appartengono non a una fede, non a un pensiero, ma a un nihil humani che è per lui officina, e non scudo, nei confronti dell’esperienza. Nasce da qui, anche, la sua capacità di far guardare le proprie opere anche indipendentemente dal bagaglio di cultura sofisticata che la modernità quasi esclusivamente impone. La sua parlata non è né alta né bassa, non ha l’astrattezza di laboratorio della cólta né la civetteria del volgare. E’ lingua, ancora, soprattutto, vera, nascente e aderente alle cose che ha da dire: soprattutto, che ha ancora cose da dire.