Edo Murtic, catalogo, Civica Galleria d’Arte Contemporanea, Lissone, 14 dicembre 2003 – 7 marzo 2004

1956, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma. 1957, “Arte jugoslava contemporanea” alla Permanente, Milano. 1958, l’anno che lo vede anche al Carnegie di Pittsburgh e alla Documenta di Kassel, XXIX Biennale di Venezia. 1959, galleria Bergamini, Milano. 1960, galleria La Medusa, Roma. Fitta, fittissima è la frequentazione da parte di Edo Murtić della scena artistica italiana nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, una presenza che culmina con il premio Lissone conferitogli nel 1963, XIII edizione.

Fitta, e non certo marginale; soprattutto, contrassegnata da una identità espressiva e di linguaggio che ne fa un punto di riferimento all’interno dell’orizzonte variegato raccolto sotto la dizione onnicomprensiva di informale.

Murtić incarna, di quel clima, una declinazione affatto particolare, per due ragioni almeno. La prima consiste nella sua vocazione a un naturalismo lirico che, nutrito nel radicamento in una tradizione paesistica autorevole, offre l’esempio di quello che Testori indica come “naturalismo di partecipazione”: l’intuizione sorgiva del corpo pittorico come organismo, una sorta di profondo istinto mediterraneo nel penser couleur, il coraggio di un passo grafico che da subito si fa trama emotivamente eccitata dell’immagine, sono elementi, tutti, che in particolare il dibattito italiano valuta di gran momento. La seconda riguarda il profilo precocemente cosmopolita di tale linguaggio. Formatosi in seno a una cultura territoriale della quale Murtić distilla allo stesso tempo l’identità precisa e la natura di fervido melting pot mitteleuropeo, l’artista croato tuttavia è tra i rari a “sciacquare i propri panni”, sin dai primi anni Cinquanta, sia nell’Hudson sia nella Senna.

Murtić, Crveni krajolik, 1987

Murtić, Crveni krajolik, 1987

La frequentazione di De Kooning e Pollock da un canto, e dall’altro dei francesi Bazaine, Manessier, Singier, nonché di autori italiani come Afro e Santomaso, lo porta a non avvertire il fattore polemico che contrappone, nel dibattito d’allora, l’action painting statunitense all’art autre inevitabilmente post-picassiano di Francia. Murtić cadenza le composizioni che aprono il secondo lustro dei Cinquanta sulla base di tarsie fluide, in cui i colori si fanno sonanti per timbro, scale da celeste a violetto scattanti sul rosso e su un bianco calcinato e pieno, un po’ evocando il motif marino, un po’ la grazia autonoma d’una immagine fatta organismo dai rapporti serrati, dalla crescita come respirante e vitale.

Qui, da subito, si affermano prepotentemente i due caratteri primari della sua pittura, mediati, come s’è detto, su una formazione cosmopolita, ma non disposti ad appiattirsi in una parlata pittorica che tende a farsi accademia ulteriore, stilema, puro modo: gusto. Del clima internazionale, della lezione informale,  Murtić assume la libertà di far correre segno e colore in una formatività “alla prima”, tanto introversa nei risentimenti affettivi quanto cantabile, solare, negli esiti di processo. In seno a tale crescita egli comprende le proprie specifiche vocazioni, e prende a coltivarle con felice inflessibilità.

Il suo dipingere è, in primo luogo, colorismo, colorismo felice, capace di operare su tutti i registri senza che ciò suoni esercizio d’intenzionalità. Dal grigio mediano e costruttivo a secenteschi bruni d’ombra, dalla sostanza del noir couleur al sovratono dei carminio e dei giallo cadmio, tutto lo spettro entra nella partita espressiva dell’artista. Non si tratta, beninteso, del ricorso agli artifizi facili della captazione sensibile, e neppure di un’assertività aggressiva quanto epidermica. L’artista lavora piuttosto su una temperatura emotiva, e sulla gamma di trascorrimenti che il colore è in grado di conferirle in termini di sfumature, di rapporti, di scambi. Parimenti, egli sa che la sua immagine è dotata di un impatto sensibile immediato e autorevole, ma che subito da questo innesco deve attivarsi un pascolo dell’occhio che, per successivi involvimenti psicologici, renda lenta e piena la lettura.

Murtić, Ljetno uzbuđenje, 1998

Murtić, Ljetno uzbuđenje, 1998

In secondo luogo, Murtić è consapevole del valore insieme scritturale e struttivo del segno colorato, di quel suo fluire libero e complesso, in una sorta di straniata cadenza melodica. Erede, per i cromosomi francesi, dell’automatismo e del “meraviglioso” nell’accezione surrealista, filtrati attraverso la rinata consapevolezza del valore intimamente ideografico del segno che l’informale di poggiatura orientale ha rimesso in circolo, l’artista in questo momento già sa che sarà la dialettica possibile tra colore campito e colore di gesto, in una sorta di fastosità barbarica, a contenere in necleo il destino della sua pittura.

Il momento di snodo della sua maturazione definitiva, e della sua raggiunta autonomia stilistica, è la serie di dipinti che si inaugura nel 1959 con Saturazione marrone. Giocato tutto sull’inversione luce / ombra rispetto al piano visivo e allo sfondo, il dipinto offre soprattutto lo scambio tra i grumi materici, d’una materia cupa e brillante, che irritano la superficie, e il gorgo slontanato di toni alti di terra, in un ripensamento sottile dello spettacolo visivo barocco.

Marrone, bianco, 1961, Nero blu su bianco, 1961, Oggetto oscuro, 1962, fanno mostra, rispetto a quel primo clamoroso annuncio, di una maggiore articolazione struttiva. Le zonature chiare, dalle materie smagrite ma piene, intonano l’evidenza di un grumo complesso di terre scure dagli andamenti gurgitosi, quasi fossero un destino accecato che va vivendo il proprio intimo dramma formativo: e vi senti le assialità semplificate all’originario dell’orizzontale e della verticale, e di quadro in quadro un determinarsi via via sempre meno pastoso e lucente della materia di colore, un progressivo amplificarsi della movenza del gesto / segno rispetto alle zonature attonite che fanno da circostanza.

Potenti, drammatiche, sono queste pitture, nelle quali s’impone una “figurabilità” allentata e introversa, cui le distonie sottilmente inflitte alla scala tonale – un blu diagiato e quasi malato sulle ocre, ad esempio, rispetto ai viraggi del bianco, in Nero blu su bianco – aggiungono una sorta di potente vocazione ctonia, un presagio lontano.

Altri clamori visivi sono già alle viste, infatti.  Verticale agitata, 1963, l’opera premiata a Lissone, e La tempesta, di pari data, sembrano dichiarare il passaggio alla primazia del gesto sull’attrazione centripeta della materia coloristica. Più movimentata e complessa si fa la struttura dell’immagine, pur mantenendo una chiarezza primaria di assetto, che in Verticale agitata è addirittura richiamata nel titolo, quasi di valore programmatico. Lo scarto nero /bianco, fatto di materie ancora tinte, certo, ma lavorate quasi a renderne lisa la captazione sensibile, forza il colore in dominante, sia il blu o l’ocra, a chiedere picchi di temperatura più marcati, e soprattutto a spingersi verso comportamenti svarianti da una sorta di trasparenza spossata a grumi nevrotici, quasi crampi di gesto che segna la materia, la incide, la eccita.

Murtić giunge, con queste prove, anche a una precisa opzione di uscita dalle retoriche informali. Sempre più è il comportamento autonomo della forma, meglio, del formarsi, in complicità e talora in collisione con le vocazioni dei singoli colori e le condizioni dei loro rapporti, a decidere il destino stesso dell’immagine. Essa conserva, in sé, una filigrana naturale, nel senso della naturalezza della generazione, tanto quanto è perfettamente astratta, irrelata ad altro che non sia la sua sostanza di corpo e di apparenza pittorica.

Quello di Murtić si fa, compiutamente, un penser couleur collocato, rispetto alle logiche di nominazione del tempo, sul versante dell’astrazione di gesto. Inoltre, come già in La tempesta, il gesto si rende consapevole di un ineludibile, necessario, far grande, di una fisiologia implicante – secondo il retaggio più avvertito di De Kooning – lo scambio tra corpo agente dell’autore e corpo pittorico, così da implicare superfici ampie e autorevoli, delle quali parimenti importante sia l’evidenza visiva finale quanto il rapporto partitetico, eroticamente agonistico anche, con il pittore.

1965. E’ l’anno di Tre luci bianche e di Penetrazione in nero. Sembra stabilizzarsi, ora, il luogo di primo piano concesso al nero, a quelle sue movenze che solcano, curvilinee o per diagonali tese, uno spazio serrato entro le zone chiare, le quali paion far sfondo per vertigine dell’occhio, ma subito rimontano a qualificare la temperatura emotiva, in una sorta di respirazione, di ansimare del pascolo dell’occhio che non trova più, ora, le poggiature rassicuranti della croce primaria, e percorre lo spazio tutto in andamenti continuamente disorientati. Mai veramente centrifughe, mai veramente indeterminate ai bordi, le pitture di Murtić in questo tempo appaiono piuttosto delle strutture dalla pericolante centralità possibile, in una orizzontalità continuamente suggerita e sottratta.

Lavora, l’occhio, a reperire un ubi consistam, a dipanare la matassa grafica e coloristica, e sempre più viene avvinto nel gioco sottilissimo di tonalità all’apparenza accessorie disposte, come per intrisione e continua brulicante contaminazione, attorno ai colori primi. Ecco dunque verdi malati, violetti gravidi di rosa, addirittura, ocre chiare e verdi imbigiti lievitare entro la nerità, e colpeggi frementi di carminio a ribadire il tònos bruciante di quei segni puramente graffiti, riverberi ultimi d’una urgenza di gesto che fatica ad appagarsi.

E’ colore, sempre più colore. Soprattutto, sempre più coraggio del timbro, d’una musicalità alta, d’una sensualità sempre più accesa e accolta. Profondità del blu e Inverno sereno, 1968, transitano Murtić verso il decennio Settanta, in cui egli, come ben ha notato Pierre Restany, anziché impaniarsi nel retaggio orfico e matissiano, “ha saputo trasporre magistralmente la forza radiante della luce mediterranea nel colore, o per meglio dire in una strategia emotiva del colore fondata su una flessibilissima dialettica tra gli à plat neri o blu notte e l’irrompente traccia degli ocra, dei rossi e dei gialli”.

L’andamento dei gesti più stillante e scandito, le responsabilità dei singoli accenti cromatici rese definitivamente evidenti, lo scambio freddo / caldo risolto sempre più verso fastosità sensuose: tutto questo, pur restando dominante la componente di gesto calligrafico e una sorta di continua intrisione del singolo timbro cromatico nei circostanti, quasi per impurità generatrice, caratterizza questi dipinti.

Sono tutti caratteri che puntualmente si ritrovano, in apertura di decennio, in dipinti come Rascenje, 1972, e Incrocio incantato, 1973, e soprattutto nei due capolavori di questo tempo, Spazio aggressivo, 1975, e Cattedrale, 1976. Il nero e il blu delle larghe falcate, una tramatura ulteriore di timbri caldi, giallo e rosso soprattutto; ancora, il frangersi minuto di ulteriori grumi di gesto, nervature sottili e di brusca nettezza, che s’intessono a sottrarre ogni neutralità alle zone chiare. Potenti, sonanti, sono questi dipinti, e sempre più evidente la tensione della scrittura segnica a farsi ideogramma contratto, quasi umore simbolico.

E’ ciò che si rende esplicito, in fine decennio, in un dipinto come O.K., 1978, ma anche e soprattutto in Alpha e Arco blu, 1979, dalle cadenze più ampie, dalla responsabilità maggiore attribuita al valore suggestivo della tarsia segnica.

Astratta, astratto –  lirica, è certamente questa pittura. Ma, verrebbe da dire con Klee, “astratta con qualche ricordo”. Sotto questo palpitare vitale di colori e di gesti corporei che si ritrovano corpo pittorico, avverti continuamente la presenta non marginale del motif naturale, di un sentimento alimentato continuamente da un vedere, da un sentirsi al mondo, di struggente umanità, e di profonda tensione etica.

Nota giustamente Zvonko Maković che “la carica emotiva è il reale contenuto dell’opera, la tela non è che lo schermo su cui si proiettano le emozioni dell’animo: l’entusiasmo, la gioia, l’ansia, il panico, la paura. Il soggetto reperito nel paesaggio reale entra così nell’inventario soggettivo dell’artista di cui fanno parte il linguaggio artistico e la scelta cromatica”: dunque, che l’innesco sensibile è alimento e lievito non facoltativo, bensì fondante del processo di improvvisazione non oggettiva di Murtić.

Le pitture fastose, figlie di una souplesse sensuale più abbandonata e turgida, che occupano il decennio Ottanta e parte dei Novanta, ne sono testimonianza eloquente. Ma sono una sorta di bagno lustrale, di à rebours emotivo in vista di un nuovo slancio espressivo, di un nuovo scatto formale, tanto più notevole se si pensi che si produce dopo mezzo secolo di pittura.

Le rotture, 1998, Un ramo, 1999, con quel rapporto ormai rilassato con l’orizzonte, con quel fluire energetico e consapevolmente generatore del gesto materiato, capace ora più che mai di svariare da toni meditativi ad accensioni sovratono, schiudono la stagione attuale di Murtić. Della quale capolavoro indiscutibile è il vasto telero Il viaggio, 2001, condotto da quella lunga traccia nera che si fa, consapevolmente, shape, variazione poetica d’orizzonte, e le accensioni continue di colori dalle temperature affocate; e testimonianza fragrante la serie di tele appena nate nello studio di Vrsar, davanti al Mediterraneo e la sua luce, il suo fasto, la sua sapienza.

Grande, felice Murtić.