Somaini
Francesco Somaini, Ingersoll Rand Italiana, Milano 1985
Per formazione, un’intera generazione matura la propria vicenda in seno a una delle crisi cruciali della scultura del nostro secolo. La questione, tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, continua a porsi in termini generici di statuaria condotta secondo modalità referenziali oppure di costrutto formale metodologicamente corretto, di tecniche esecutive ortodosse oppure di speculazioni sperimentali su procedimenti e materiali nuovi, di meccaniche narrative o di elementari metafore.
Ma insieme a queste prosecuzioni, stanche e prive di necessità, altre riflessioni ben più radicali sono in campo, e, benché assai minoritaria e marginale, si va formando un’area di esperienze che sa l’ampiezza dell’equivoco su cui si regge il dibattito corrente, e tenta risposte finalmente originali e non impedite da antiche remore. Nudo femminile o congegno geometrico, bronzo o plexiglass, maquette o misura monumentale, ciò che non è quasi mai in discussione è il pensiero della scultura come forma fisica destinata, come esito orientato e conclusivo di procedimenti concepiti, in sé, ancora al più come altoartigianali (da qui la persistente cappa normativa e disciplinare che permane e grava sulla scultura), riscattati e motivati dalla qualità finale del prodotto. Inoltre, e per conseguenza, la concezione della materia come quantità passiva suscettibile di qualificazione, come ricettrice di valori solo indotti, come strumento preferito in funzione della propria disponibilità ad adattarsi ai modi preventivi di trasformazione, e della propria generica apparenza esteriore: ivi compresa la stratificazione retorica e allusiva riconosciuta e sollecitata tanto nelle materie storiche e nobili, quanto in quelle moderne e inusuali.

Somaini, Figura di fuoco, 1963
Che “scultura”, in Rodin come in Boccioni, in Picasso come in Lipchitz, in Vantongerloo come in Martini, cioè nei portatori problematici dell’autentica nuova tradizione, non sia mero costrutto tridimensionale, e contenitore-veicolo d’altro, e oggetto perfectum, ma determinato crescere interno dell’idea verso una forma possibile attraverso la lunga catena dei riconoscimenti, degli avvertimenti, degli specchiamenti solidali nella materia: e dunque formazione, processo, fare continuamente critico, invenzione come ritrovamento nella materia di reciproche vocazioni all’individuazione plastica: e qualità propria di un pensare facendo che nulla deve se non a se stesso; ebbene, tutto ciò è oggetto di un’autentica modernità probabile, e del ragionare di ben pochi artisti, tra cui Francesco Somaini fa spicco per precocità e puntualità.
Nel volgere d’anni dal 1948, data dei Crani di cavallo, al 1956 di Forza del nascere e Canto aperto, al 1958 di Grande proposta per un monumento, al 1959-196 dei feriti”, fino al 1965 del Monumento ai Marinai d’Italia di Milano, le ragioni del lavoro di Somaini maturano completamente. Egli elabora costantemente – e questo è il suo autentico, non declaratorio e programmatico, rigore metodologico – una scultura che sia pienamente organica.
Organica non perché opponga, ai pudori formalistici astratti e concreti così come alle sopravvenienze figurali, quell’ambiguità surreal-naturalistica fatta di liquori e indeterminatezze formali e travisamenti tra carnali e vegetali che pure gode, in quegli anni, di non poche fortune. Piuttosto perché, invece, tenta una diversa sostanziale ragione d’essere, in cui l’inderogabile vigore plastico e la congruenza strutturale scaturisca come da moti interni, genetici, di organizzazione della materia, e si affermi e fissi al punto-limite di metamorfosi in cui prendono a coinvolgersi, senza soluzioni e scarti, e spazio e luce e tempo.
Una fisiologia della scultura, insomma, che non tenti di mimare maldestramente modi biomorfi (ché sarebbe, ancora, un tradurre, un riferire, un riguardare a), ma di riconoscere e motivare da sé i propri medesimi, e di farli diventare ragione stessa dell’esperienza. Perciò appaiono non troppo congruenti le abituali collocazioni dell’artista prima come astratto, poi come informale, e in seguito come teorico al fronte della scultura architettonica e praticabile.

Somaini, Modifica e traccia su un tema amoroso, 1985
Non perché Somaini con quei climi, con quelle vicende, non abbia esaurientemente fatto i conti. Ma perché, appunto, di climi si tratta e nulla più, che hanno fornito impulsi ma non ragioni, che hanno operato da reagenti ma non da motivi. Altro è lo spessore dei suoi problemi, altro il piglio con cui li ha affrontati.
Non forme esplose e brulicanti (e spesso solo figure difformi) a sostituire incastri netti di volumi; non il vitalismo bruciante a prendere il posto di atteggiamenti calvinisti; non l’ansia sperimentale a spiazzare il mestiere; e neppure la nevrosi metropolitana ad amplificare la scala degli interventi. Il progetto di modernità di Somaini segue altre vie, più introverse e meno contingenti, e dai solidi raggiungimenti. Dentro la sua scultura parla la tradizione recente, a cominciare dalle linee-forza di Boccioni e da Brancusi, ma praticata non come una concatenazione meccanica di necessità, di formulari. Non solo. In pari grado e tempo, opera anche un oculato rapporto con l’antico, vissuto senza traumi, complessi o altro, per via d’amori e scelte sottili, alla ricerca di elementi possibili di funzionalità plastiche capaci di saporosa ricchezza. Ecco allora il pittoricismo chiaroscurale e la drammaticità risolta per via di linguaggio dell’Ellenismo, la grande rifrazione lineare e la varianza spaziale barocca, e anche il potente effetto di presenza, di arcaica assertività dell’arte romana.
Sono modelli ripensati a lungo, filtrati selettivamente, riassunti naturalmente nel proprio lavoro scultoreo, soprattutto, in quanto esso stesso, nelle sue ragioni fondative, vuol riguadagnare un’attitudine di maestria antica, severa, metodica, poco propensa all’avventura ‘a termine’, sempre alta e magari ostica, ma mai debitrice del momentaneo. Anche per questo, va subito detto, Somaini si mette in condizione di affrontare le prove più delicate e controverse della scultura, il monumento e la decorazione, senza invischiarsi in bagni di retorica.
La frequentazione intelligente dell’antico lo mette in condizione di aggirare le incrostazioni sclerotiche dell’idea di monumento, ritrovando il passo di una decantata qualità monumentale, che ha il coraggio e la forza di ripensarsi criticamente e senza complessi: il caso del monumento alla Resistenza di Cuneo, pensato con Lucio Fontana e Ico Parisi, è in questo senso esemplare. Così è anche per le partite decorative, risolte per via di qualificazioni anziché soggiacendo a stilemi e vuote regole di genere.
Maestria antica, s’è detto. Che significa, in lui, soprattutto un senso del far grande, del procedere mirando a un netto prestigio formale, di una ricerca continua d’intensità e trasparenza espressiva, e di una congruenza d’immagine fortemente specificata. Una condizione mentale, d’approccio intellettuale, invece che lo stantio atteggiarsi entro le rules and regulations di un patrimonio d’esperienze che sarebbe inane, se letto in chiave d’abilità, di virtuosismo, di quoziente tecnico.
Tutto questo appare evidentissimo se si pensi al rapporto che Somaini intrattiene con i materiali. Bronzo, marmo, piombo, ferro, conglomerato, gesso, carta, poliestere.
Senza gerarchie, senza attribuzioni simboliche, come depurati dei segni culturali che portano con sé, questi materiali si ritrovano nello studio di Somaini in funzione di complici paritetici: né il trascorso aulico del bronzo fa aggio sulla qualità recente, vischiosa, industriale del poliestere. Ciò che l’artista chiede alle materie, è di esser dotate di un carattere plastico decisivo, di mettere a disposizione una fisiologia propria marcata (consistenza solida ma non greve, vigore strutturale ma non opacità, presenza netta nello spazio ma non ingombro, vocazione a rendersi pulsazione e traccia nello spazio senza perdere in definizione, e soprattutto capacità d’assettarsi al punto liminale di lettura tra artificio e naturalità) ma non prevaricante e costrittiva rispetto ai processi del prender forma.
Più che ogni altra cosa, è importante per lui che esse sappiano risolvere la propria individuazione nelle complesse varianze esteriori della superficie, dove si gioca il dràma dei bagliori e dei coaguli aggrondati d’ombra, delle cavità che richiedono intime e lente penetrazioni e delle nervature che si tendono e irritano e impennano a fior di pelle, senza che ciò ne contraddica la sostanza dura, ferma, persistente. Senza risolversi, insomma, in fantasmi teatrali – che sarebbero in tal caso scappatoie – mantenendo la propria elaborante introversione e, tutto sommato, la propria separatezza rispetto agli accidenti transeunti del naturale. Sono materie, queste, capaci d’impastarsi d’aria e di luce, di farsi apparenze volatili ma anche movenze di contrappunto, misure non meccaniche dello spazio, luoghi di continue riverberanti tensioni. Soprattutto, di disegnarsi nell’atmosfera che producono portandovi le proprie stesse emozioni, i propri stessi flussi d’intensità: queste sono le impronte vere che marcano, che segnano lo spazio un tempo solo fisico della scultura. Disegnarsi, s’è detto. Ecco un altro carattere fondamentale nel lavoro di Somaini. Il disegno rappresenta per lui un campo fondamentale d’esperienza in senso, anche in questo caso, non propriamente tradizionale.
Ovvio che per lui non vada richiamata la cultura del progetto, che tiene a debita distanza. Una scultura che ha l’orgoglio di nascere, non ha bisogno che venga certificato il suo codice genetico. Piuttosto, si tratta di una sorta di disegno previsionale, che nella dimensione totalmente irrelabile del foglio si produce per differenziali di segno, per variazioni di consistenza, per continui scarti chiaroscurali, quasi a voler identificare quella sorta di interno peso specifico che ogni singola scultura possiede: essere della materia, essere nello spazio e farsi luogo, trovando il giusto passo della crescita della forma come organismo, per gangli e linee di forza, per addensamenti ed espansioni, fino all’identità possibile. Ciò che Somaini mette sulla carta non è forma formata, ma una vocazione, una destinazione, un senso di crescenza, quell’interno orientamento che guida l’emergere della forma e che, nelle sue proprie vie, la scultura ritroverà. Per questo non solo la sanguigna e la grafite sono chiamate a tracciare, a segnare, a ricavare, tra dipanarsi teso di linee e aggrumarsi fitto di neri. Alla china, capace di tracce taglienti ma anche di dilavamenti modulati, è affidato il compito di ritrovare le modalità dello scambio tra portanti grafiche e strutturali e trattazioni vibranti e fluide di superfici: anche qui sono in campo equivalenze rispetto alla scultura, un modo d’operare che salvi l’inalienabile specificità del linguaggio e faccia un uso sapiente dell’analogia sostanziale.
Somaini, dunque, disegna molto. Disegna intorno alla scultura; non la scultura. Proietta utopie, mette a registro possibilità, individua problemi. Ma ben sapendo che la materia del disegno è altra; incomparabile con quella della scultura. Se però un elemento in lui è tangenziale tra le due pratiche, è la volontà di trasferire nell’attività plastica la velocità, l’immediatezza dello scambio tra idea e formazione, la freschezza inventiva, anche, che sono dimensioni abituali del disegno. Essendo sculptor nel senso antico del termine, egli concepisce la scultura come arte del levare, del ritrovare la forma necessaria separandola dalla quantità opaca di partenza. Sa, quindi, il bagaglio di lentezze, d’impedimenti, e l’intiepidirsi dell’idea, il suo perder di tensione, spesso, tra i lacciuoli di un fare che deborda fino a proporsi protagonista, se si tratti d’opere così, concepite come scattanti disegni nell’aria. Eccolo, dunque, ricercarsi una tecnica consona, ricostruire, ancora, il proprio progetto d’antica maestria fuori dagli ingombri e dagli inganni disciplinari, ma nella sostanza del processo plastico.
“La scelta del mezzo, la tecnica esecutiva, prefigurano il linguaggio plastico, la concatenazione dei risultati, lo stile. Legame sotterraneo e profondo vincola ai modi gli ottenimenti. La sintassi è già il senso del discorso; il messaggio stesso ne è condizionato. Gli azzardi di una tecnica nuova tendono il percorso creativo. La tradizione è impedita, impraticabile la citazione. Condizione all’appropriarsi di complicazioni organiche, logiche naturali, equilibri complessi d’architetture, al praticare il fremito delle superfici alla luce, le ricchezze folli dei dettagli, la calma tensione dei piani, le nervature veicolo di strutture, e ritrovarli su una sponda nuova nel limbo dell’inedito, con una prassi mai frequentata”. Così scrive Somaini.
L’incontro con la sabbiatrice ad aria compressa è fondamentale, per il suo lavoro. Non perché, in sé, la macchina possa operare spostamenti significativi nel modo di concepire dell’artista. Pur avendo Somaini traversato gli anni in cui più sono acute l’ansia e la mitologia tecnologica, in cui addirittura tecniche e materiali fuor di tradizione sono stati assunti ad alibi stesso del senso, dell’espressione, e infine additati a nuovo genere normativo (col risultato di lasciarci solo inutili e patetici gadgets, all’occhio dell’oggi), egli non è mai stato affetto da simili entusiasmi fuor di luogo. Indifferente, in fondo, all’antica leggenda del “martello e cento scalpelli”, lo è anche verso queste nuove possibilità, se prese in sé. Per converso, da curioso e naturalmente disponibile a ogni sostanzioso allargamento del campo di possibilità operative, e per di più ossessionato da forme estreme e rarefatte di qualità plastica, assume il nuovo mezzo per quello che può rappresentare: un ulteriore prolungamento operativo della mano, e soprattutto il modo tanto cercato di poter fare ciò che già sa, di poter disegnare, con inusitata immediatezza, la scultura. Senza il sudore, senza il vieto eroismo della quantità tremenda di fatica del lavoro, ma anche senza millenaristiche Damasco tecniche.
Le straordinarie foto di Ugo Mulas e Erhard Wermann, Enrico Cattaneo e Cesare Somaini ci mostrano bene le modalità del procedimento. II getto potente d’aria compressa, la sabbia che esce dall’ugello e come una punta modulabile incide, penetra, crea pieghe torsioni nervature, s’insinua in cavità attorte, liscia o increspa superfici, arrotonda o apre slabbrature. Costruisce, e insieme definisce, in un tempo che è praticamente quello reale. L’artista vede configurarsi la materia, la vede diventare scultura, pressoché senza interposto intervallo, seguendo gli andamenti e le decisioni della mente e del braccio. Gli è consentito il ripensamento, il repentino mutar di corso: soprattutto, di veder farsi l’immagine, senza doversi aggrappare a un modello mentale troppo rigido durante l’esecuzione. È un’esecuzione, paradossalmente, senza violenze. La materia non è oppressa dall’urto, dai colpi, dal taglio netto degli strumenti. Come accelerando inusitatamente una carezza, il passare e ripassare lento di vento acqua e sabbia dell’erosione geologica avviene in breve tempo, fa sì che la materia si dia in immagine con naturalezza quasi istintiva, resuscitando le proprie antiche memorie di forma.
Si sarebbe potuto costruire un ben farraginoso castelletto letterario, sul motivo di questa artificiosa erosione eolica. Ma Somaini, s’è detto, non si nasconde più che tanto dietro la metafora scoperta, così come dietro la tastiera di possibilità tecniche – e di nuovo virtuosismo – consentitagli dalla macchina. Anche quando, in anni recenti, lavora sulle “tracce”, sull’idea di scultura-matrice e di impronta, marca l’accento più sull’artificiosità, sulla pensabilità dell’operazione, che non sull’analogia possibile con la forma di natura. Anzi, giunto al punto di massima ambiguità in tal senso della forma plastica, ciò che gli interessa evidenziare è proprio la discontinuità sussistente, la separatezza tra l’organicità di linguaggio della scultura, e quella del paesaggio fisico. Semmai altri elementi mette in gioco, come la ripetitività, il ritmo interno, il concatenarsi di costanti e varianti formali che scaturisce dal cortocircuito positivo-negativo di queste opere: dati, tutti, prelevati dal lessico più nobile della decorazione, che egli pratica con saporosa fertilità.
Da tutto questo non solo esce stravolto, e subito rifondato, l’apparato sintattico della scultura, nel suo rapporto con le forme storiche consolidate, ma anche matura la consonanza dell’idea di stile di Somaini con le esperienze più vitali del dopoguerra. Stile non è un modo d’operare, per quanto nobilitato, che trovi la sua ragion d’essere nell’oggetto compiuto, nel prodotto che stabilizzi visivamente l’atto di intelligenza e di perizia. In lui, si fa rigore nell’accettare e nel condurre la scommessa tutta condotta sul piano della possibilità, del processo, della forma eventuale, non prefigurandone l’esito ma sapendone l’intensità: uno stile per cui la qualità non risiede nel risultato, ma nella congruenza d’una nascita. Forse in questo senso, anche, assume un valore che non è solo di curiosità il complesso rituale con cui Somaini si prepara al lavoro, vestendo tuta e casco, chiudendosi in quella cabina. Il trasferimento sacrale che la scultura ha sempre portato con sé non s’imprime più nell’oggetto finito: si è dissolto, laicamente, negli atti di una tecnologia che l’intelligenza ha saputo asservirsi.