Lo scultore, la terra. Artisti e ricerche 1920-2011, catalogo, Archivio della Scuola Romana e Galleria Emmeotto, Roma, 16 dicembre 2011 – 31 gennaio 2012

“Così si riconosce nell’ordine dei procedimenti come l’argilla riceva dall’anima dello scultore la prima scintilla del fuoco che la agita”, scriveva nel 1814 Jean-Baptiste Séroux-D’Agincourt. Sin da quel tempo – si era nel pieno del neoclassicismo – l’arte ceramica viveva una minorità che pareva irrevocabile rispetto alle pratiche plastiche maggiori: ma contemporaneamente era ad essa che si riconosceva il massimo grado di vicinanza con l’anima dell’autore, con il grado germinale dell’invenzione, con la luce prima, appunto, dell’intuizione.

Martini, Nena, c. 1930

Martini, Nena, c. 1930

Poi è venuto il ‘900, e l’identificazione in quell’antico mestiere di una sapienza: ché chi pratichi la terra sa d’elementi e materie, sa soprattutto di un formarsi più sensuosamente complice rispetto all’arroganza del formare intenzionato,  nell’avventura oscura e meravigliata della figura.

Ne è ben consapevole il pioniere Duilio Cambellotti quando, ragionando della propria formazione, scrive: “Ho conosciuto per tempo materie e strumenti, e fin da ragazzo ho visto accanto a me gente che operava con quegli strumenti e con quelle materie”: questione, dunque, d’un fare radicato e motivato, da subito complice.

E ben se ne avvede soprattutto la generazione che cresce a ridosso del dramma formale di Martini. Il quale, a una data ben precedente al 1945 di Scultura lingua morta, proprio alla terra affida il proprio disagio innovatore: nel 1926 egli scrive infatti a Francesco Messina che “la materia mi è nemica, forse dovrei riposare, anche la materia forse è stanca di me come succede a certi innamorati che per troppo attaccamento perdono l’oggetto amato. Il nuovo mi eccita, ma il seme che è in me per fiorire ha bisogno forse di più tempo, ma io sono impaziente e ho paura di farlo morire. Sono stanco di statue voglio ascoltare questa ripugnanza per cercare altre vie”, presentandosi l’anno dopo con una serie di strepitose ceramiche alla galleria Pesaro.

È la generazione, quella che s’inoltra nel secondo dopoguerra,  la quale proprio nel rapporto con la terra identifica la possibilità del riscatto di una forma che si dia ancora viva, pulsante, figlia di quello che Henry Moore definiva lo “struggle” generatore dello scultore: non ricerca di bellezza, ma di intensità, d’intrinseca autenticità.

Melandri, Orfeo, 1947

Melandri, Orfeo, 1947

E se è vero che ancora negli anni ’50 uno sconsolato Fausto Melotti sosteneva che “in scultura più nulla da fare, da dire, dopo quello che è già stato detto e fatto. E’ morta, per ora”, era perché i suoi Teatrini e le sue forme nascenti dall’argilla difettavano più di riconoscimento da parte di un milieu artistico in tutt’altre polemiche affaccendato, che di effettiva tensione e qualità espressiva: ch’era, ormai ben sappiamo, straordinaria.

Il dibattito artistico, afflitto da cascami di gerarchia crociana delle arti per cui tutto ciò che emanasse il minimo aroma artigianale non era degno d’ascendere all’empireo delle arti “pure”, nonostante le prediche geniali e l’impegno militante di un Gio Ponti – ed è curioso osservare come, all’opposto, anche i più radicali sostenitori del nuovo dissolvimento disciplinare, del “non fare l’opera”, a conclusioni non diverse giungessero – non riteneva degne d’autentica considerazione le pratiche che nel mondo della ceramica si radicavano. Delle quali pure si dava gran conto, ove si pensi, ad esempio, alla grande mostra “Moderne Italienische Keramik” curata da Adriano Totti in Germania, 1953, e al fervore d’invenzioni documentato puntualmente dalle Triennali milanesi e dal Concorso della Ceramica d’Arte di Faenza, attivo dal 1938.

Dico, per stare agli esempi raccolti in questa mostra dalla competenza rigogliosa di Netta Vespignani, di un Pietro Melandri o di un Salvatore Meli, e poi di coloro che, nati tutti tra la seconda metà degli anni ’20 e i primi ‘30, fedeli alla cultura della bottega, pur con esiti geniali e con invenzioni d’autentica innovazione, permangono: un Pompeo Pianezzola, una Nedda Guidi, un Nino Caruso, un Alessio Tasca, un Pino Castagna, per non dire degli esordi di Carlo Zauli e Nanni Valentini.

Valentini, Volto, 1982

Valentini, Volto, 1982

Pianezzola e Tasca, esponenti di punta del rinnovamento della tradizione veneta di Nove, alternano presenze alle Triennali milanesi, alle Biennali veneziane e ai Concorsi di Faenza, all’ombra del magistero di Ponti e nel mito di Martini e di Fontana: ragionano di forma formata, di geometria, di pelle che la luce fa colore, di contaminazione della ceramica con altri materiali: d’una crea, la creta, che possa essere e sia modernamente antica e anticamente moderna.

E veneto è Castagna, che la ceramica affronta, in intento tutto scultoreo, in virtù del suo potenziale formativo tipico, in cerca d’un’intima sostanza possibile dell’immagine.

Caruso, d’adozione e lavoro romani, per nulla prigioniero della tradizione fabrile, alla ceramica affianca la ricerca su legno e metallo giungendo nel 1964 a realizzare il Monumento alla Resistenza di Pesaro in chiave di spazio agibile, con radicali e per allora pionieristiche proiezioni architettoniche.

Nedda Guidi nasce nella tradizione igubina ma è da subito a Roma, a portarvi l’estro di una riflessione concettuale dolce e agguerrita, svariante d’estri e umori di grande, trepida sottigliezza.

Soprattutto ceramisti, sono per il milieu. Eppure proprio in quei fervidi anni ’50 e ’60 molto si predicava di integrazione delle arti, giusto il filtrare infine di certa lezione protobauhausiana, e una non banale area di creatori sperimentava il trascorrere dalla bottega alla mostra al design in sovrana libertà, in un ambiente reso effervescente proprio dagli incroci di personalità in seno alle Triennali milanesi. E nondimeno si stringevano ragionamenti fertili intorno a un “fare moderno italiano” possibile, quella tipicità per cui l’altoartigiano e l’artista parlano lingue solo epidermicamente diverse, accomunandosi in unità d’intento, di tensione, di ricerca.

Se un Giulio Carlo Argan aveva ben ragione di scrivere che “dell’opera di Zauli non ha proprio senso chiedersi se sia scultura o arte fittile, come se il significato delle forme dipendesse dalle materie e dai procedimenti con cui si realizzano”, svolgendo il filo d’un ragionamento valido per anche molti altri, è altrettanto vero che già nel 1939 Fontana si era sentito in dovere di rivendicare in senso, più che polemico, concettualmente programmatico “io sono uno scultore e non un ceramista”: dunque un artista che fonda con orgoglio il proprio sapere su un bagaglio disciplinare partitamente posseduto, ma per trascenderlo in mozione estrema, effettivamente nuova, pensiero ed esperienza del formarsi che si fanno materia vivente, corpo effettivamente equivalente.

La svolta possibile si verifica in Liguria, ad Albisola,  dove intorno a Fontana negli anni ’50 si raduna, in nome della ceramica agìta, il fior fiore della generazione di artisti nuovi – dico Jorn, Dangelo, Baj, Scanavino, Appel, Corneille, sino ai giovanissimi Fabbri, Cherchi e Garelli – a fianco di maestri di più lungo corso come Tullio d’Albisola, Sassu, Lam, il Sebastian Matta che contribuisce trasferendo in riviera l’esempio dei maestri illustri che avevan fatto grande la ceramica francese, Picasso in testa.

Ontani, San Paolo Folgorato Fortunato d'après Caravaggio, 2008 - 2011

Ontani, San Paolo Folgorato Fortunato d'après Caravaggio, 2008 - 2011

E su questi modelli matura il praticar la terra en artiste che si dipana lungo uno spettro che va da un Nini Santoro a una Giosetta Fioroni alle esperienze a quattro mani di Elisa Montessori e Riccardo Monachesi, su su sino alle generazioni giovani d’oggi.

“Mi piaceva quella materia docile e avevo il gusto di tentare esperimenti difficili”, spiegherà nel 1964 Fontana a Marco Valsecchi, “e mi attraeva quel colore smaltato, incorruttibile, che nessun’altra materia colorata avrebbe potuto darmi”.

Per Albisola passa anche, per realizzarvi il Monumento ai caduti compiuto nel 1957, anche Leoncillo, portatore d’un’altra tradizione non meno alta, l’umbra.

Leoncillo nasce in complicità essenziale con la terra, e dunque è ben consapevole di agire in una zona sorgiva della scultura, nel punto in cui la processualità stessa dell’opera è scambio profondo e senza primazie tra l’intenzione intellettuale e il corso impadroneggiabile dei gesti, delle necessità concrete, delle fisiologie della materia. Nel Piccolo diario, 1957, egli auspica “un nuovo oggetto naturale che divenga con stratificazioni, solchi, strappi che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro. Non più colore quindi […] ma materia che ha un colore che diciamo dopo. Non più volume, ma materia che ha un volume”, a indicare prima ancora che un’opzione di linguaggio una coscienza della materia, e del formare, e del formarsi, dotata di una “intimità” – così Bachelard – tale da travalicare ogni diaframma di alterità, da farsi vera e propria, non traslata non relata, identità corporea dell’autore e dell’individuo plastico che ne nasce.

Sull’esempio diretto di Fontana e sull’indiretto, ma problematicamente quanto vivo, di Leoncillo, matura la congiuntura che porta Valentini e Zauli a farsi le autentiche figure di nuova sintesi, quelle per cui diviene – sia pur con la pigrizia e la cautela tipiche della critica italiana – normale dire di scultura in ceramica.

Valentini, marchigiano per nascita, faentino per formazione e milanese per cultura artistica, legge il lavoro di Fontana, e attraverso questo la lezione drammatica del Martini ultimo. “Trovai un segno che non era separato dalla materia, e questa aveva una densità più plastica. Era un inizio”, scrive. E altrove: “Sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni”.

Ancor più legato, nella sua Faenza, a un’identità disciplinarmente profilata, Zauli annota nel 1980: “Proprio in questo periodo sento la necessità di approfondire le mie ricerche nel puro materiale argilloso. Lasciarlo scoperto e nudo, senza smalto e colori, ma il colore deve essere ‘portante’ in se stesso, fare parte integrante naturale e non naturale dell’impasto argilloso. Sto facendo tante tante prove. Io, che produco con successo quel magnifico smalto bianco-grigio, che vira ai rosa e ai neri e che è stato definito il bianco di Zauli, mi sto introducendo in questo studio di impasti colorati. Ma non intendo tradire  il mio morbido bianco. Anzi, forse, ci sarà l’opportunità di accostarlo alle terre colorate e trovarne dei significativi valori materici e cromatici”.

Bertozzi & Casoni, ComposizioneScomposizione # 556, 2007

Bertozzi & Casoni, ComposizioneScomposizione # 556, 2007

Il sapere la terra e il sapere della terra agiscono, in lui, all’unisono. Non è più, ormai, per Zauli, neppure questione di discorso d’arte, men che meno di dimensione estetica, di gusto. Se una bellezza è alle viste, è l’intima bellezza della terra formata, che offre le proprie superfici fluenti, le proprie cellule generative, a una luce che ne legge la qualità necessaria, irrelata, per certi versi indicibile.

In modi diversi, Valentini e Zauli agiscono, quando operano sul destino della terra, in una sorta di inattualità rivendicata: lontano dalle derive mediatiche del simulacro, ben confitto lo sguardo nel punto in cui l’indistinto si fa forma del senso.

Sono esempi come questi, a ridosso dei quali cresce il fare appartato e potente, in voglia di monumentale, di una Maria Cristina Carlini, a schiudere alle generazioni ulteriori la possibilità di assumere la terra e le arti della ceramica come possibile naturale dell’espressione.

Ora è l’acuta e arguta assunzione da parte di Ontani delle retoriche tecniche e delle ridondanze coloristiche della maiolica che gli mette a disposizione Davide Servadei, ormai storico complice faentino di artisti – da Burri a Paladino, da Arman a Cerone – in un gioco di iconografie in deriva fastosa.

Oppure è il dramma digrignante della forma di Cerone, quella deestetizzazione dell’opera continuamente rinascente nell’amore controverso e drammatico con la materia, nel rifiuto del suo ridursi a plesso sensibile compiacente alla luce e insieme nella scelta di lasciar vivo, palpitante, in vista, il dramma della formazione e della dissoluzione, specchio d’un problematico sentirsi vivere.

In Luccioli, ultimo degli Etruschi, la terra si fa pagina, una sorta di continuum in cui si dipana lo stream indeterminato che è, senza distinzioni possibili, l’opera sua tutta. Un continuo dalle frequenze fisiologicamente consistenti, cospicue: all’opposto esatto del blank algido e neutrale del disegnare classico, questo spazio è già luogo, è un dove, condizione sorgiva del formarsi infine inverata.

La scelta postavanguardistica di Palmieri ha riguardato la ricerca del limite tra l’elementarietà strutturale della scultura, resa in forme algide e distanti, mentalmente astratte, e la sua contaminabilità con l’echeggiare barocco, focoso, mutante, dei colori vividi e delle concrezioni saporosamente organiche della ceramica, intesa nella sua più coinvolta declinazione fabrile, sino al virtuosismo.

Abruzzese di Castelli, del proprio retaggio storico e artigianale Sciannella ha fatto strumento di un à rebours di nitida valenza antropologica, capace di sintesi fervidamente ambigue e di risimbolizzazioni brucianti, in una sorta di narratività rastremata, brusca, ma capace insieme d’incanti.

Bertozzi&Casoni, infine, della maiolica assumono la facoltà di contraffazione artificiosa del mondo, di ridondanza e insieme consumazione iconografica, di dismisura continuamente tentata della scultura nell’oggetto e dell’oggetto nella scultura, dando vita a un’illimite straniata Wunderkammer.

In ogni caso corpi sono, tutti e prima di tutto, queste sculture, corpi motivati, corpi con identità. Essi si offrono alla luce, allo sguardo, forti della propria ragion d’essere, orgogliosi si direbbe della propria alterità definitiva. Corpi estranei, secondo i registri consunti dell’attualità in arte. Ma proprio per ciò ineludibili, per chi voglia ancora cercare senso e rivelazione nella cosa dell’arte, non importa quanto essa si voglia atavica o postmoderna.