Tavernari
Vittorio Tavernari, Castello di Masnago e Sala Veratti, Varese, 1 novembre 1997 – 1 febbraio 1998, Electa, Milano 1997
Da molti anni manca una ricostruzione accurata dell’opera di Vittorio Tavernari: e una riflessione che non solo ne lumeggi le qualità singolari, ma anche il ruolo centrale svolto in seno al dibattito scultoreo del secondo dopoguerra.
E’ infatti dal 1973, data della grande retrospettiva parigina al Musée Rodin, passata poi ai Musei varesini, che si attende una sistemazione critica, alla luce delle consapevolezze d’oggi, della fisionomia di Tavernari: la quale, pure, in occasioni recenti – penso a mostre come “La città di Brera. Due secoli di scultura” alla Permanente di Milano, 1995, e “Milano 1950-1959” al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, 1997 – si è confermata come tra le più cospicue degli ultimi decenni.
Ebbene, la mostra progettata dai Musei Civici al Castello di Masnago vuole ripartire proprio da quell’occasione così lontana nel tempo e saldare una cesura culturale ormai non più accettabile.
Tavernari è figlio della grande scuola scultorea della Brera novecentesca, e soprattutto del clima fervido dell’aula in cui si avvicendano Adolfo e Francesco Wildt: l’aula in cui, negli anni, si incrociano allievi come Lucio Fontana e Fausto Melotti, Luigi Broggini ed Eros Pellini, e molti altri. Tavernari ne deriva un saldo piglio tecnico, innanzitutto; un senso della disciplina plastica fatto di atelier quanto d’invenzione, di artigianato quanto di maestria. Il suo intendimento primario della scultura, che mai verrà meno, è di mestiere: il che non significa una posizione riduttiva o cautelata rispetto alle derive che gli intendimenti nuovi imprimono alla nozione d’arte, ma la capacità di assorbire e metabolizzare il nuovo in una identità artistica salda, professionale e a un tempo, e senza distonie, intrisa di scommessa espressiva azzardata.

Tavernari, Torso femminile, 1954-1955
E’, in altri termini, il “fare con le mani” per il quale lo scultore moderno – che si sa, si sente, si vuole moderno – mantiene integro e saldo il proprio statuto creativo, potendolo così aprire alle tempeste intellettuali dell’avanguardia senza che ciò comporti dissolvimenti disciplinari irrevocabili: anzi, sottoponendo al vaglio rigoroso della pratica le avventure dell’intelletto, così da mettersi al riparo dalle plurime suggestioni d’eteronomia che i tempi agitano.
Del resto, il Tavernari che rifà il Tobiolo martiniano, e che trova una sua propria vocazione sorgiva tra classicismi rivissuti nevroticamente e asperità plastiche echeggianti la riscoperta del Romanico, dall’immediato dopoguerra figura piuttosto tra coloro che assumono su di sé i turbamenti del dibattito, spesso feroce, sul destino dell’arte italiana, che tra coloro i quali ne assumono le posizioni meno estreme, da romitaggi che evitano accuratamente ogni engagement.
E’, nel 1945, in “Numero”, rivista che come “Corrente” vuol farsi gruppo. E’ tra i firmatari di “Oltre Guernica”, il manifesto che nel 1946 segna il primo dei molti spartiacque che indirizzano i destini di questa complessa generazione, spinta da una moralità eccezionale, nell’urgere dei tempi, ma non unanimemente disposta a devolverla al puro impegno politico, anziché linguistico e formale. E’ tra i fondatori della milanese Galleria di Pittura, nel 1949, a difendere lo spessore intellettuale, prima ancora che stilistico, della scelta neocubista.

Tavernari, Due nudi, 1960
E’ tra coloro che più appropriatamente, soprattutto, si pongono la questione d’una scultura che non sia debitrice, a un tempo, né di soluzioni e stilemi imposti dal prevalere del dibattito pittorico, né dei retaggi neoaccademici che il mestiere di scultore tende a far continuamente riemergere: ed è posizione assai isolata, ove si pensi che pochi sono gli interlocutori possibili, un Mirko, un Leoncillo, un Umberto Milani…
In questa stagione ciò che importa a Tavernari è identificare una propria collocazione etica e di solidarietà intellettuale; assai meno, va detto, identificarsi in un programma formale. Le sue poggiature cubiste, per questo, da subito si contaminano con attenzioni assai diverse: non condivide il mito, pure diffuso, di Archipenko e di Zadkine: guarda, piuttosto, alle eccezioni plastiche di Laurens, alla sensuosità lineare che si fa respirazione organica delle forme, delle materie, com’è per Arp, com’è per Moore.
La scultura che emblematicamente schiude il decennio Cinquanta, presentata nel 1951 alla IX Triennale milanese nel medesimo programma decorativo, ideato da Luciano Baldessari, da cui nasce la leggendaria voluta di neon di Fontana (e proprio nel vecchio studio milanese di Fontana, in corso Monforte, è stato scoperto di recente uno dei bozzetti preparatori, che viene presentato in questa mostra), vive di tarsie curvilinee che si fanno corpo, il quale pare struggersi alla luce e insieme nulla perdere della propria saldezza volumetrica.
E’, questo, il segno certo della piena maturità raggiunta da Tavernari. L’opera indica senza dubbi, tra l’altro, la consapevolezza ormai raggiunta d’una attenzione tutta particolare che lo scultore rivolga alla luce, al suo incidere e riverberarsi sulla superficie plastica, sino a farla franare in fremiti che siano, anche, colore.
Tematicamente, è il nudo femminile il pretesto formale prevalente, incrociandosi con la più ampia riflessione sullo schema antropologico del totem e dell’idolo antropomorfo (e un grande Totem ligneo di Tavernari è quasi il simbolo, sin dall’inaugurazione, del Castello di Masnago…). Tuttavia, il processo di essenzializzazione volumetrica, di superamento della meccanica degli incastri di masse curvilinee, che segna il corso dei Cinquanta, nel prevalere sempre più accentuato dell’esplorazione di materie come il legno, il cemento, la pietra, indica che Tavernari mira a immagini di forte consistenza atmosferica, in grado di solcare lo spazio attraverso l’irritazione superficiale su cui si rapprende la luce, anziché attraverso la purezza dello schema plastico. “Les fibres de l’arbre ou les grains de la pâte modelée ont autant d’importance, sont aussi émouvants, que le sillage de l’outil qui a causé la blessure”, scrive Raymond Coignat nel 1973.

Tavernari, Totem, 1970
La fine del decennio e l’avvio del nuovo sono segnate da un’accelerazione ulteriore di questo corso espressivo. Una nuova brusca semplificazione dell’assetto formale, al limite del trascolorare della descrittività, induce il motivo antropomorfo a vivere ancor più esplicitamente del raggrumarsi come centripeto delle consistenza plastica, e dell’instaurarsi nello spazio per via, indica Carlo L. Ragghianti nel 1966, di “abrupti profili liminari, veri e propri margini interrotti dell’aprirsi e del frammentarsi vivente della plastica”.
Si è detto che questo momento apre la stagione di massima tangenza di Tavernari con il dibattito della scultura informale internazionale, scuola inglese in testa, e, in virtù dei rapporti biografici intensi con Ennio Morlotti e Francesco Arcangeli, con il naturalismo autre padano. E’ vero, quel fare partecipativo della formatività della materia, la drammaticità muta di quell’assistere a una condizione altra d’esistenza, nascita e morte, della forma (“come un dolore e una gioia inestricabili, ma tutti interni, quasi da stanza privata” scrive Arcangeli nel 1957 a proposito dell’esprimere pudico dell’artista), sono una delle testimonianze qualitativamente più illustri della plausibilità d’una scultura informale nel decennio Cinquanta.
Tuttavia, per la storia personale di Tavernari è la serie strepitosa dei Torsi e dei Cieli degli anni Sessanta il punto di massima tensione espressiva. La slogatura della circolarità spaziale delle opere penultime si fa aperta, coraggiosa frontalità, e la consistenza volumetrica dell’opera si dà come per citazione convenzionale, plesso di spazio abitato e agitato da una sorta di tempesta esistenziale della luce e della superficie, ora – è il legno – incalzata da forzature agoniche che vi incidono e tramano cieche testure, ora – nel gesso – cadenzata da cellule globulari di materia, da lacerti di superfici che montano stratificati gli uni sugli altri, come per un’organicità immemore di regola, di sismografia.
Conta, di questo tempo, soprattutto l’attenzione tutta personale di Tavernari per il primitivismo scultoreo, che riflette e si decanta sino a ritrovarsi in primarietà: e, attraverso questa, in nuovamente raggiunta sacralità dell’immagine, dell’opera.
E’, questo, il punto più alto del percorso di Tavernari. Che negli anni Settanta si sceglie un altro pretesto tematico, la coppia di amanti, per condurre innanzi senza sosta, con operosa concentrazione emotiva, la sua propria declinazione d’una scultura che, giunta a tali soglie di saggezza, può permettersi di non chiedersi più di essere moderna, in serena inattualità.
A fianco delle opere esposte, si è scelto di documentare nel catalogo la copiosa attività di scultore “pubblico” di Tavernari, a conferma della sua non banale riflessione intorno alla sopravvivenza dell’idea stessa di monumento nel tempo nostro. Una sopravvivenza affidata alla capacità dell’artista di ripensare lo spazio collettivo, i suoi valori simbolici e, antropologicamente, religiosi, qualificandoli con un’articolazione di segni plastici che agiscano da accidenti emotivi rispetto all’esperienza ordinaria, in nitida assenza di retorica: com’è nella meditazione struggente della tomba Berger in Comerio, o nel progetto, purtroppo rimasto tale, del monumento alla Resistenza in Varese.
La mostra presenta inoltre, nella sede espositiva della Sala Veratti, la fitta produzione disegnativa di Tavernari, che fedelmente accompagna l’artista nei decenni laboriosi. Vi si legge, ancor più esplicitamente che nelle sculture, l’intendimento che Tavernari ha dell’immagine come crescita fisiologica della forma alla luce, anziché come flagrante evidenza, come rivelazione: e, più ancora, quel suo procedere minuzioso per serie concatenate, ancorandosi a un motivo tematico e svolgendolo per approcci reiterati, ogni volta illuminanti una non appariscente, ma cruciale diversità.
Alieno, per moralità più ancora che per scelta stilistica, da ogni “intelligenza dell’effetto”, ogni volta Tavernari intona il percorso grafico in minore (come il prediletto Schubert di Der Tod und das Mädchen, ispirazione d’una serie di opere d’inquieta tensione), cadenzando la respirazione e le movenze della mano a uno scrutinio lento e paziente, che conosce eccitazioni e abbandoni ma sceglie di scriverli in intensità, anziché in seduzioni.
Antiretorico, anche in questo caso, si dimostra Tavernari. Engagé non per scelta ideologica ma per inflessibile serietà di lavoro.