Pizzi Cannella
Pizzi Cannella. Campi di forme, in Pizzi Cannella. Almanacco 3, catalogo, Galleria Carlina, Torino, 18 novembre 2011 – 21 gennaio 2012
Il lavoro di Piero Pizzi Cannella può essere letto, nel quadro della vicenda postconcettuale tutta, come un percorso di indagine ispido e criticamente lucido sull’inquietudine dell’immagine. Ovvero, mentre andava definitivamente prevalendo la retorica del cinismo visivo, della sommersione in una sorta di iconografismo gleaming in deriva di senso, Pizzi Cannella sceglieva di assumere il territorio di libertà nuove garantito dalla sconfitta della “burocrazia delle emozioni” – cito Carl Einstein – ancora bisognosa di parametri di bellezza, e dalla ormai evidente simmetrica crisi dell’ideologizzazione del discorso d’arte: per interrogarsi piuttosto sulla sostanza, sulla necessità, sulla ragione dell’immagine.

Pizzi Cannella, Per una camera d'artista, 2009
Fare pittura, è stata la sua scelta, non per predicare esemplarmente, ma in vista di un dire, ancora, possibile; di un senso non affermato, ma cercato e forse trovato nello spazio topico del suo avvenire, nel “campo di forme” (ancora Einstein) del quadro.
Pizzi Cannella assume, in primo luogo, una tutta specifica ragione di spazio. Che è campo, appunto, d’avvenimenti appropriati in quanto non intende innescare il disagio di codice della forma/pittura (dipingere è dipingere, un quadro è un quadro: nessuna citazione virgolettata, nessuna facezia intellettualistica, nessuna parodia, qui) ma ragionare assai più in profondità, e certo proficuamente, sull’identità di ciò che essa rende possibile, e visibile.
È ambito d’assoluta concretezza, e insieme spazio mentale/affettivo indimensionato e ametrico, che non rappresenta, che non vive di proiezioni e costruzioni, e a ben vedere neppure d’autonome formazioni in odore d’organismo. Si misura per relazioni che s’instaurano tra forme, segni, materie, colori. Per sostanze ed evocazioni sensibili continuamente trovate e perse, mai certe di se stesse ma ogni volta orgogliose del proprio esistere, lì, in quel luogo in quella circostanza. Immagini il cui statuto primo s’identifica con il rimuginante stream espressivo che Pizzi Cannella accoglie e lascia si svolga di quadro in quadro, e in pari tensione e dignità di foglio in foglio: ciascuna portante entro se stessa trame non scrutabili di suggestione memoriale e culturale, filigrane d’autobiografismo e umori simbolici, sino ad aromi d’emblematico, in misura ogni volta diversa che l’autore ausculta e pone in essere.
Come warburghianamente, ma in realtà con impreventiva docta ignorantia che inghiotte e rideclina umori letterari e filosofici, di vissuto e di frequenza visionaria, in lui ogni elemento iconografico ne convoca altri, in una trama proliferante e non rettilinea di riferimenti intellettuali, umorali, affettivi, poetici.
Ciò rende ragione del procedere tipico dell’autore per seriazioni cicliche. Questa sua spaziosità irrelata ma fisicamente consistente implica in se stessa, nel valore intimo di flusso da cui discende, un non meno fondante rapporto con il tempo. È un tempo non scandito dalle liturgie del pittorico, ché alla concentrazione assoluta, e smemorante, in cui Pizzi Cannella si cala nell’operare non s’addicono sospetti di rituale e men che meno di liturgia. Piuttosto, è una sorta di ostinata partita a scacchi con quello che Andrea Zanzotto diceva “tempo usuraio”, perché coaguli entro ogni singola opera una diversa temporalità interna, come intessuta d’energetismo fluttuante, di sospensioni e picchi, di derive e concentrazioni.

Pizzi Cannella, I vasi dei pesci dell'isola, 2009
Ogni opera un tempo, ogni ciclo un tempo di diverso respiro ma che a sua volta non fa cronologia, bensì densità psicologica. Ogni opera, ogni ciclo, umori e frammenti che morenicamente si riportano ai successivi, in una sorta d’ininterrotto e incoercibile dialogo interno che si fa alla fine vita tutta di pittore.
Giunto nel tempo della maturità piena, quando dunque il patrimonio stesso dell’esperienza sua complessiva di pittore si è fatto a propria volta un saputo che va ricombinandosi, nella riflessione e nell’umore inventivo, con l’introverso vivere pittura di Pizzi Cannella, pare affacciarsi dalla congerie dei segni, delle forme, delle immagini una dimensione d’ancor più sospesa intensità, quella della remitizzazione.
Nell’opera la forma, orbata d’ogni residuo capitale idolatrico, vive il proprio disagio vitale: ed è in esso stesso che constata come meravigliata il perdurare del proprio esistere, una condizione di necessità altrimenti fondata.
Si afferma, in un processo in seno al quale l’autore ha da sempre rinunciato alla padronanza del progetto significativo, come figura consistente – non stabile, non univoca: ma sì sostanziata e identificabile – della coscienza. Dunque in sentore d’esser portatrice d’un potere di senso che ha i tratti di fondazione del prelogico, e che in ogni caso contribuisce a edificare il riconoscersi al mondo dell’artista, il sapersi per riscontri espressi.
Si misura qui la distanza incolmabile tra la pittura di Pizzi Cannella, sin dai suoi inizi, e il tout possible della condizione postmoderna, dell’arbitrarietà dei dispositivi iconografici, del farsi baudrillardianamente “segno verso l’assenza”, della visibilità inutile.
Perché in lui è ben vivo in senso della necessità interiore della pittura, del sapersi nel tempo altro dell’immagine. I suoi quadri non chiedono infatti ammirazione, interpretazione, decodificazione. Chiedono consonanza, correspondance. Non chiedono di essere creduti o giudicati. Nascono solo per lui, offrendo a noi per exempla schegge di pienezza d’esperienza.