Andrea Mariconti. Silenzi, catalogo, L’Ariete Arte Contemporanea, Bologna, 5 maggio – 10 giugno 2006

Uno dei motivi cruciali della pittura d’oggi – ma, a ben vedere, iterativamente da molti decenni – è la ragione narrativa: con il corollario non meno fondante della sua autonomia e identità rispetto alle arti giovani, cinema in testa, le quali parrebbero averle, da questo punto di vista, sottratto l’antica delega sacrale.

Andrea Mariconti ragiona di tutto ciò con acribia lucida, e soprattutto centrando il fuoco della propria esperienza sul valore stesso di narrabilità, dopo la conflagrazione dei significati, dopo il collasso dello sguardo, dopo la deriva del tempo saputo.

Ne scaturisce questa sua pittura bituminosa, di qualità fredda e sapiente, emotivamente sospesa e come straniata. Bigi petrosi, bianchi agri, rare accensioni di lumi taglienti: come se l’innesco sensibile e il valore situazionale passino un vaglio che li esaurisca allo sfinimento, e li induca a una figurazione sdrucita, disseccata in mera tensione emotiva, architettura minima del silenzio.

Mariconti, Silenzi 03, 2006

Mariconti, Silenzi 03, 2006

Soggetti banali, alle soglie dell’anonimato indifferente. Costrutti formali rastremati in architettura forte e di scabra elementarietà, a serrare lo spazio della visione in una sorta di sottile, appena avvertibile, iperdeterminazione di presenza: le figure stanno lì, non distanziate dall’interpretazione, impastate di materie dense e inamene: figure che ti guardano, come dubitanti, chiedendoti per la prima volta di pensarle fuor di retorica.

Certo, questo processo di concussione affettiva del visibile per via di levare, prosciugandone la presenza ambigua tra fisiologia e rappresentazione sino a farlo veronica e sedimento cinereo, si nutre di molte matrici. Il retaggio non banale di certa letteratura – da Michel Butor a Georges Perec, da Raymond Carver a Don DeLillo, per intenderci – e quello del cinema che ne è scaturito; il taglio serrato, a infrangere proporzioni ed equilibri, della fotografia anticlassica e, su tutto, la pittura lucida e desolata discendente da Bacon e dalla sua stremata école du regard.

Ciò che si coagula nelle visioni di Mariconti non è tuttavia un carattere di visione, una questione che ancora attenga al rappresentare, men che meno a un figurare possibile. E’, piuttosto, la salvaguardia della frequenza emotiva, dello stream introverso, come d’ansia cautelata, che determina il suo approccio al narrare. L’artista non accorcia la distanza tra sé e il soggetto; piuttosto, dilata la misura del proprio sguardo straniato, facendosi spettatore slontanato anche quando più emotivamente implicato. E’ questa delibata alterità che gli consente di chiudere bruscamente il campo visivo per via di restringimenti aggressivi, assediandolo spazialmente, risentendone la densità e la sostanza situazionale, decidendo per tratti essenziali il suo carattere.

Tale doppio registro visivo si dispiega quasi programmaticamente identico tanto nel figurare elaborante di corpi e interni, quanto nella misura di genere del paesaggio, ove più vincolante si fa la questione del campo visivo e la retorica della distanza ottica: segno, questo, d’un modo di intendere la pittura radicato in lucido criticismo, non acquattato dietro l’alibi d’una sempre più dilavante postmodernità.

Sguardo forte e consapevole, e centralità della ragione pittorica del narrare. Questi i pilastri del tempo primo del lavoro di Mariconti: e già s’intravvede la maturità potente.