Il libro e l’artista. Un ragionamento, in Il libro d’artista negli anni ’60 e ’70, catalogo, Rocca Sforzesca, Soncino, 19 giugno – 11 luglio 2004

Nulla più resta da dire sulla congeneità storica dell’atto artistico alla forma/libro. L’idea stessa di pagina, di testo, che da superficie concreta si metamorfizza in filigrana teorica,  accompagna i secoli.

E’ ciò che viene riaffermato, in modi anche paradossali e concettualmente radicali, dalle avanguardie storiche: le quali contaminano l’idea di libro, forti d’una carica provocatoria e dissolvente allora necessaria, ma allo stesso tempo attuando una riappropriazione, dopo che l’accademizzazione dell’arte del libro, pur nobile, aveva rastremato le possibilità di rapporto alla cultura nobile, ma purtuttavia minore, dell’illustrazione.

Luogo di transiti e reinvenzioni, zona franca e d’irradiazione rispetto al disciplinare, il libro testimonia, anche, della complicità statutaria, nei primi decenni del Novecento, tra letteratura e ricerca artistica, la quale giunge al punto massimo d’identificazione nel clima surrealista. Ma il tarlo, il tarlo profondo, non può che agire ancora, contraddittorio all’avanguardia stessa, a ogni riformulazione di senso che possa implicare norma futura; e non può essere che il tarlo Dada.

E’ un tarlo laborioso e sottile, la cui azione affiora esplosiva nella stagione seconda del secolo, quella che non casualmente si è indicata, al di là di declinazioni più circostanziate, come Neodada.

Villa, Brunt H, 1968

Villa, Brunt H, 1968

L’antica cultura delle riviste, dei volantini, dei manifesti, insomma della pubblicistica militante, diviene essa stessa territorio dell’esperienza possibile. Del libro, entra nel gioco problematico il valore di stabilizzazione certificata del senso, di accredito con responsabilità di documentazione e di asseverazione, ma allo stesso tempo matura l’autonomia linguistica dell’oggetto d’arte: la cosa a stampa è insieme cosa artistica, e moltiplicazione paratestuale verso il sistema delle certificazioni culturali dell’artistico, tra omologazione e trasgressione.

Tanto più importante, e, nell’indeterminazione territoriale, tipica è l’importanza del libro, quanto più si fa evidente la questione della ratifica di eventi che per progetto si sottraggono alle categorie definitorie stabilite dell’artistico: ciò che nasce per dissolvere, o porre in contraddizione, il sistema di codifiche correnti dell’arte, attraverso tali strumenti recupera quell’identità e quell’appartenenza che permettono all’atto stesso di essere percepito come interno al dibattito sull’artistico.

Per converso, nello scambio sempre più fitto e complesso tra cultura autoproclamatasi alta, e autorevole, e strati espressivi che si vogliono in commercio con la low culture, ma che danno l’assalto ai cieli dell’accademia, ovvia è l’importanza strategica del coinvolgimento degli strumenti più contigui al massmediale: così come accade, in un altro philum genetico dell’avanguardia, al cinema (il quale proprio negli anni Sessanta rinnova i fasti di Man Ray e compagni), altrettanto avviene ora, in chiave criticamente acuminata come non mai.

Sulle vie del letterario, del modello cólto di tradizione proiettivamente futurista, precedenti cruciali sono personaggi come John Cage, il cui ruolo è oggi talmente riconosciuto da esser lievitato in agiografia, e, in ambito italiano, come Emilio Villa, le cui Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, 1955, sono alla base dell’esperienza successiva della rivista “Ana” di Stocchi e degli Oberto, 1959: perfettamente coeva ad “Azimuth”, giusto per ribadire una convergenza oggettiva d’intenti che pure, a quegli anni, vive ancora di differenze, per poi ritrovarsi solidale nel crogiuolo del decennio successivo. E al modello high, con forti implicazioni scritturali, agenti dunque sul condensato perfetto del codice, si riferiscono operazioni pionieristiche, poi a lungo assunte come modello diretto o indiretto, come la meravigliosa An anthology of chance operations, concept art, anti-art, indeterminacy, improvisation, meaningless works, natural disasters, plans of action, stories, diagrams, music, poetry, essays, dance, constructions, compositions, mathematics di Jackson MacLow e LaMonte Young, 1963: il titolo, in sé, è già opera, e annuncio di quanto verrà sperimentato di lì in poi, riassumendo l’intuizione di opere come quella di Manzoni e annunciando tutto ciò che vivrà in libro e dell’esser libro, dall’opera omnia stranita e maravigliosa di Dieter Roth alle sequenze geometriche di Sol LeWitt agli Statements di Lawrence Wiener.

Young e MacLow, An Anthology, 1970

Young e MacLow, An Anthology, 1970

Sul versante del low, della contaminazione massmediatica forte, il fumetto non è solo area di caccia della pop e del suo profeta, il Warhol che fa opera dei propri stessi lacerti biografici, e del suo simmetrico politico (Gianni Emilio Simonetti, ad esempio), ma specifico editoriale possibile, negli esperimenti di Achille Perilli e soprattutto di Gastone Novelli, i cui Viaggi di Brek, 1967, assumono valore paradigmatico. Monumento di un altro vedere mediatico, congelato in perfetto straniamento, è un ulteriore paradigma da allora in poi sempre citato e, in varie fogge, reinventato, 26 Gasoline Stations di Ed Ruscha, 1962, primo di una serie di operazioni dell’autore dipanantisi nel tempo, e padre anche, per quel narrare rappreso e hopperianamente congelato, di esperienze diaristiche en voyageur come quelle di Hamish Fulton e Richard Long.

Ma è soprattutto l’aspetto documentario ad essere preponderante: come s’è detto, nel doppio valore di ascrizione all’artistico di una matter di per se stessa sottratta alla definizione e all’asserzione disciplinare, e di espansione mediale dell’esperienza.

Non occorre ribadire che il fenomeno più vistosamente transitante tra anni Cinquanta e Sessanta è la riassunzione della centralità anche corporea del soggetto artistico, e la dissoluzione dell’eccezionalità degli atti nel banale biografico, a fronte della radicale destrutturazione retorica dell’espressione. E’ chiaro che, quanto più estrema sia la duchampiana anartisticità, tanto più identitariamente garante debba farsi l’istanza di registrazione, e di omologazione possibile. Cosa, se non una foto e una pagina, può essere per il territorio problematico dell’artistico il Saut dans le vide kleiniano o le Sculture viventi di Manzoni o, all’indietro, le operazioni comportamentali nate intorno a Cage? Ebbene, dal decennio Sessanta la foto e la pagina, dunque il libro e la sorella rivista, si spingono ad essere, come altrettante Fluxus Yearboxes, soggetti specifici ove senso e nonsenso collidono in un ambito autonomo, forte di un’autorevolezza retorica divenuta addirittura simbolo, e allo stesso tempo, perciò, capace di ogni metamorfosi deidentificante.

Voglio fare subito un libro: così recita un titolo memorabile di Mario Merz. Che è, appunto, opera in sé e opera d’opere. Come sempre, laddove l’arte abbia riconquistato quel suo radicale, sorgivo, pensiero antecodice e anticodice, “rayonnant comme l’oursin et l’astérie” secondo Leroi-Gourhan quando parla di logica del pensiero prealfabetico.

Cosa stia accadendo, ora che il web ha espanso con violenza i territori di senso e nonsenso, di vero e non vero, lumeggiando ulteriore artificio possibile, è presto per dire. Resta il fatto che lì, meglio che altrove, si rivela il rischio acuto, quello che l’esperienza del libro d’artista divenga a sua volta genere tra generi.

Make an artist book, titola tra gli altri il sito  http://www.arts.ufl.edu/art/rt_room/sparkers/artist_book/artist_bk.html. Forse era meglio se il postmoderno non veniva.