Ferrazzi e gli Ottolenghi, in Le capitali d’Italia. Torino – Roma 1911 – 1946, Palazzo Bricherasio, Torino e Palazzina di caccia, Stupinigi (Electa, Milano), 4 dicembre – 22 marzo 1998

Herta Wedekind Ottolenghi incontra l’opera di Ferruccio Ferrazzi nel 1923 alla seconda Biennale romana, dove l’artista espone in una sala personale venticinque dipinti e due sculture che proclamano il raggiungimento di una piena, autorevole maturità.

L’artista è reduce da esperienze diverse e importanti, che s’intersecano con le vicende della cultura nuova in Italia ma a partire da una ritrosia fondamentale a ogni appartenenza: la cultura sapienziale – e orgogliosamente altoartigianale – del cenacolo delle Mura Aureliane, gli incontri con lo spirito futurista, la folgorazione cézanniana, il ripensamento continuo dell’antico condotto sin dagli esordi secondo un’attitudine che nel 1920 Ardengo Soffici formulerà come motto d’ordine di una generazione intera: “Amare gli antichi è bene, studiarli per appropriarsene virtù fondamentali è meglio”…  La sala “prismatica” agli Amatori e Cultori, nella Roma del 1916, dice della sua tensione precoce a un Gesamtkunstwerk che medii le suggestioni di Marinetti e compagni con l’idea rinascimentale, che sempre coltiverà in futuro, del pictor philosophus, che sia insieme, in perfetta congruenza, faber.

Dapprima l’Adolescente, poi Visione primatica e l’Idolo del prisma (opere ispiratrici anche del Ritratto di Herta Ottolenghi con il figlio Astolfo, 1924), entrano nella collezione di Herta e Arturo Ottolenghi. La loro ambizione plastica e compositiva rilancia l’antica idea di Ferrazzi di totalità dell’opera d’arte, architettonica e pittorica, scultorea e filosofica, portatrice nella propria dignità alta di valori e simboli capaci della “commossa e solenne visione umana” che l’artista sente di poter inverare.

Ferrazzi, Adolescente, 1922

Ferrazzi, Adolescente, 1922

Nasce l’idea del Mausoleo, ambiente esemplare di quel trasognamento rinascimentale che è la villa Ottolenghi di Acqui, di cui l’artista sia ideologo e caput magister, come un Giotto, come un Piero della Francesca: e che l’artista intende realizzare, come annuncerà presentandosi alla Quadriennale del 1931, “a buon fresco e a tessere musive”.

Questo lavoro, che procede come di consueto da un’elaborazione progressiva e multipla di idee e frammenti, in un corso disegnativo di proporzioni inconsuete – e va sottolineato che Ferrazzi accentua ulteriormente il proprio costume di esporre in occasioni ufficiali studi e cartoni in pari dignità con le opere compiute – che lo vede oltretutto riprendere con ancora maggior determinazione le esplorazioni grafiche d’après, conta per lui più dei numerosi riconoscimenti mondani, di cui il secondo lustro degli anni Venti è fitto.

Nel 1925 è nominato Accademico di San Luca. L’anno successivo, che lo vede rifiutare l’adesione alla mostra milanese del Novecento, gli porta il premio Carnegie a Pittsburgh, conferitogli significativamente da una giuria presieduta da Pierre Bonnard. Ancora, è membro di pressoché tutte le giurie importanti, e ottiene insegnamenti prestigiosi all’Accademia di Napoli, al Museo Artistico Industriale di Roma, e infine, nel 1929, all’Accademia di Roma.

E’ certo in funzione del progetto Ottolenghi che Ferrazzi moltiplica le proprie riflessioni su Giotto, su Piero, sui cicli pittorici pompeiani e medievali e la loro scansione narrativa, sulle grandi partiture musive di Venezia, Ravenna, Roma. Ed è nella medesima logica che la sua attenzione ossessiva alla tecnica, intrisa di ritualità e sperimentalismi, si spiana in un esercizio metodico, d’ancor più cruciale motivazione: nascono i primi tentativi a encausto, alla ricerca della materia e della luce senza tinture, di asciutta evidenza, dell’affresco, e i “quaderni della tecnica”.

Ferrazzi, Idolo del prisma, 1925

Ferrazzi, Idolo del prisma, 1925

La situazione di committenza è d’altronde ideale. Gli Ottolenghi concepiscono il rapporto con l’artista come atto di tipico mecenatismo, che sposa due sogni simmetrici di grandezza non mondana, in proiezione di astratta storicità. Gli scambi epistolari per l’identificazione del progetto e dell’iconografia, i soggiorni periodici dell’artista ad Acqui a partire dall’estate 1926, la comune consapevolezza preventiva che il Mausoleo sarà un “lavoro della vita”, cantiere anche e soprattutto intellettuale non legato a scadenze, sorta di antico/modernissimo work in progress: se Ferrazzi vive tutto ciò immedesimandosi nei panni del maestro “italianissimo”, gli Ottolenghi proiettano nella loro operazione di maggior impegno un sogno collezionistico non diversamente fondato. Altre opere importanti, certo, hanno commissionato e acquistato, con grande attenzione al meglio della cultura italiana sorretta da una naturale filigrana cosmopolita, scevra da provincialismi di sorta. Ma il Mausoleo rappresenta, nel clima del tempo che il dibattito culturale tutto instrada verso rinascenti destinazioni civili, pubbliche, e verso una non banale integrazione delle arti (in altra occasione mi è accaduto di indicare in questo tema l’elemento di maggior omogeneità e tipicità dell’arte italiana recente, in una sorta di continuum carsico che congiunge Camillo Boito e gli anni Cinquanta del Novecento), una rara e precoce declinazione “signorile”, del privato come exemplum aristocratico – d’aristocrazia intellettuale, s’intende – e sperimentale di ciò che la cultura collettiva possa assumere sul piano del gusto condiviso: a ben vedere, è ciò che alcune delle Triennali dei Trenta affronteranno problematicamente con qualche costrutto.

Ferrazzi, beninteso, non è estraneo al generale clima di ripensamento del classico che, soprattutto in Italia, innerva il dibattito degli anni Venti. Gli incontri e gli scambi intellettuali con i Carrà e gli Oppi, e con lo stesso Prampolini per altro verso, ne sono conferma eloquente: così come il suo amore da musicofilo per il progetto ambizioso di Strawinskij.

Tuttavia, egli ha il coraggio estremo della astoricità, di una conclamata inattualità, che non solo lo fa rifuggire dal rischio di farsi mero “imbalsamatore di corpi morti”, come indica con disprezzo i classicisti ortopedici, ma anche da quello della mediazione citatoria parodica, indiretta, intellettualmente distaccata, in cui gli sembra di veder dibattersi gran parte dei compagni di via.

Consapevole dell’aristocrazia esclusiva dell’arte, egli si vuol far carico di riviverne anche il mito della dedizione assoluta, della qualità assoluta e impervia, della perfezione artigianale unita all’altezza nitida del pensiero: questa, egli sa, è la vera sacralità, la vera incoercibile alterità dell’arte: l’unica in grado di farne sopravvivere l’identità stessa, egli pensa, fuori dal teatro delle nominazioni storiche.

Ferrazzi, Diavoleria, 1929

Ferrazzi, Diavoleria, 1929

Il primo biennio intenso di lavoro è dedicato da Ferrazzi all’elaborazione della vasta Apocalisse della cripta, perno iconografico dell’intero complesso. Il grande Cristo centrale solca un cielo estraneo e inquieto. A destra si dispongono scene di vita di struggente semplicità, figlie per più aspetti delle invenzioni tematiche degli anni precedenti, e antenate del ciclo i I Giorni e le Opere con cui, dopo un lunghissimo lasso di tempo, 1953, morti i committenti e superato il dramma bellico, l’artista riprenderà e ripenserà il lavoro al Mausoleo. A sinistra è il controcanto corrusco e livido della tragedia, un Dies irae fatto di concitazioni plastiche, di pose raggelate e tremende, dalle accelerazioni prospettiche e dalle non gigionesche deformazioni che s’incernierano al complesso della composizione per via di una sorta di tramatura lineare nervosa, inquieta strutturalmente più che tematicamente, drammatica per forme e colori ancor più che per temi.

La scommessa ardua e fondamentale di Ferrazzi è fare del Mausoleo un luogo di effettiva meditazione religiosa, in virtù di un clima spaziale e visivo che avvinca il riguardante emotivamente tanto quanto intellettualmente, senza empiti parenetici o didascalici: vuole, in altri termini, fare della sua arte una meditazione religiosa che altre ne renda attive, fuor da ogni retorica di genere: argomento, come ben sappiamo, assai scabroso, vista la generale mediocrità dell’arte di destinazione ecclesiastica del nostro secolo, fatte salve rare, geniali eccezioni.

Entro il 1940 il ciclo di affreschi del Mausoleo è vicino alla conclusione. Del 1945 è peraltro La caduta di Icaro, per la parete con camino della villa.

Più faticoso è l’iter del mosaico della cripta. Iniziati i lavori nel 1933 per le cure della scuola del mosaico del Vaticano, essi verranno compiuti, dopo più d’un rimaneggiamento, nel 1954, ad opera della scuola del mosaico di Ravenna. Taluni  mutamenti sono dovuti alle cause oggettive – soprattutto infilitrazioni d’acqua, oltre al naturale logorio di un cantiere così laborioso – che inducono Ferrazzi e rimettere mano all’opera del Mausoleo nel 1952-53. Altri si devono al complessivo ripensamento della partitura iconografica che l’artista, in questo secondo tempo, sente di dover attuare, e che coinvolgono in modo radicale le pareti dipinte.

E’ un ripensamento inevitabile, non scaturente da valutazioni contingenti ma dallo stesso serrato e inflessibile interrogarsi di Ferrazzi intorno alla necessità stessa dell’arte.

Nel corso dei Trenta, egli vive con disagio non tanto il lavoro d’atelier, che per lui diventa un ininterrotto interrogarsi tecnico e formale intorno a un’arte che si pensi destinata alle vastità congeneri dell’architettura, quanto l’idea stessa di mostra: celebre e autorevole, usa dell’esporre per saggiare in pubblico l’esito delle prove a encausto, del lavorio grafico che precede i cartoni per i lavori maggiori, d’un dipingere che, anche quando concertato entro i bordi rigidi del quadro, respira il passo fabrile e visivo dell’affresco. In quel decennio, fervido è piuttosto il suo non equivoco rapporto intellettuale con Marcello Piacentini: il suo impegno maggiore è profuso, in questi anni, in occasioni come i sette arazzi per il Palazzo del Ministero delle Corporazioni, progettato da Piacentini e inaugurato nel 1932, oppure come la facciata musiva della chiesa della SS. Annunziata di Sabaudia, compiuta due anni più tardi; oppure ancora come gli encausti Daniele nella fossa dei leoni  e La clemenza di Traiano, sempre per Piacentini, per il Palazzo di Giustizia di Milano, compiuti nel 1939. In seguito sono il grande mosaico romano in piazza Augusto Imperatore e i lavori per l’Università di Padova ad assorbire le sue energie migliori.

La ripresa post-bellica lo vede concentrato definitivamente, negli spessori d’un misticismo religioso e insieme di religione dell’arte, in opere come gli affreschi e i mosaici per San Benedetto a Roma, per il Suantuario di Santa Rita a Cascia, per Sant’Eugenio a Roma, per l’Assunta ad Amatrice, svolti tutti tra il 1949 e il 1953. Sono, questi lavori, i frutti della riflessione prima sul Mausoleo Ottolenghi, e gli inneschi dell’intervento definitivo.

I Giorni e le Opere, che si dispiega sulle pareti del Mausoleo in luogo dei dipinti scrostati, occupa l’ultima maturità di Ferrazzi, tra il 1953 e il 1961. Ancora, come sempre, egli ritorna sulle iconografie, sulle scene, sulle meditazioni che lo hanno accompagnato tutta la vita di pittore, continuamente riprese, continuamente rielaborate. Questa volta, tuttavia, egli sa che si tratta di un bilancio, di una meditazione definitiva: perché il tempo della sua vita volge al tramonto, carico di saggezze, ma soprattutto perché un à rebours così compiuto non può darsi che su questi muri, sotto questa volta, che è quella dell’opera emblematica di tutto il suo percorso.

L’aurora, La morte del pescatore, La festa notturna, Le forze domate, La famiglia, Il saggio, Gli intellettuali, Il viaggio tragico, La nascita… “Quest’opera di Acqui è la sintesi di emozioni provate durante la vita: la guerra, il terremoto di Avezzano, le figure desolate dei negri a Cuba, il lavoro festoso con i cavalli, i cieli turbinosi o sereni”: così, Ferrazzi, a dire d’un operare non solo alieno da preoccupazioni di modo o di intenti, oltre che “senza pesi di ricchezza né sete di successi”, ma che intravvede, soprattutto, al fondo della lunga monacale avventura, le ragioni nude d’una autentica, fondamentale religiosità umana. Ciò che soltanto, infine, gli importa.

 

Nota

Lettura fondamentale per l’intendimento del lavoro di Ferrazzi è C. L. Ragghianti – J. Recupero, Ferruccio Ferrazzi, Officina, Roma, 1974.  Cfr. inoltre B. Mantura – M. Quesada (a cura), Ferruccio Ferrazzi, cat. Palazzo Rosari Spada, Spoleto, De Luca, Roma, 1989; V. Rivosecchi (a cura), I miti di Ferrazzi, cat. Netta Vespignani, Roma, 1992; F. Gualdoni, Ferruccio Ferrazzi, in AA. VV., Nove maestri della Scuola Romana, Seat, Torino, 1992;  F. D’Amico – W. Guadagnini (a cura), Ferruccio Ferrazzi. Il disegno, cat. Galleria Civica, Modena, Nuova Alfa, Bologna, 1993; F.  Gualdoni, La lunga rincorsa al “sacro”. Ferruccio Ferrazzi fra tradizione e modernità, in Ferrazzi, Chiesa di San Francesco d’Assisi, Cascia, 1995.