Calderara. “Polemica del quadrato”, in Calderara. Antologica, Ex Convento della Purificazione, Arona, 8 novembre 1997 – 11 gennaio 1998, Mazzotta, Milano 1997

“Nel 1954 incontro le pitture di Mondrian. La pittura di Mondrian così assoluta nella sua costruzione, così precisa nel suo colore è per me l’apertura a più rigorosa meditazione, a capire un altro aspetto della realtà”. Così Antonio Calderara, nella nota autobiografica che stende nel 1970, a dire dell’avvio della stagione di transizione della propria vicenda pittorica, verso risultati tra i più alti dell’arte europea del dopoguerra.Tre decenni, decenni intensi, tenaci, da “autodidatta ostinato” (Bedoni, 1978), difficili e sofferti ma, va detto, anche non privi di riconoscimenti congrui, precedono questo punto di svolta.

Calderara li percorre evitando, è stato unanimemente osservato, le vie maestre del dibattito artistico nostrano, da una posizione di appartatezza che non è isolamento,  semmai ritegno, pudore di proclamare esiti avvertiti come non pienamente maturi, alimentato da una vena non accessoria d’ironia verso i troppi trombonismi dell’avanguardia professionale. Preferisce tracciare per sé una traiettoria culturale che accolga e viva con pari serenità i punti di eccentricità e quelli di centralità; una traiettoria  alle cui viste sia lo ktema es aiei dell’arte, non la garanzia mondana contingente.

S’è sostenuta la sua tangenza con la tradizione del lombardismo pittorico, e con le  declinazioni nuove di un segmento non banale di novecentismo e del chiarismo.

Calderara, Pittura, 1960

Calderara, Pittura, 1960

Certa è la matrice lombarda, ove con ciò non s’intenda la dominante di gusto delle temperature sincere del visibile, degli affettuosi frissons terragni, dell’onesta visione domestica. Una più inquieta vena esoterica, nutrita d’umori simbolici e soprattutto d’un luminismo a forte componente affettiva, congenito a un clima psicologico come disagiato, venato già di nevrotica eccitazione intellettuale – che è la vena dischiusa dal Piccio più avventuroso e dalla scapigliatura migliore, mutuata dall’accezione più schiarita d’un Morbelli, d’un Longoni: questa è la poggiatura primaria che Calderara sceglie per la propria pittura.

Vuole, questa pittura, essere “pittura di luce”, e attraverso la nozione stessa, non solo sensazionale, di luce, una visione che trascenda la condizione d’esistenza dell’oggetto in favore d’una più alta, metafisica meditazione.

Gli anni sino ai primi Trenta sono di sperimentazione, di operoso e umile apprendistato tecnico, oltre che di identificazione e decantazione della propria vocazione poetica. Man mano la plenitudine e l’irritazione delle paste, i lucori montanti da scale serrate di bruni, lasciano luogo a intonazioni in chiaro, a velature intente e accordate su un grigio lieve eretto a ton moyen: e le immagini si semplificano in schematizzazioni nelle quali una verticale primaria intesta la dominante orizzontale, a reggere la melodia bassa delle curve.

E’ per i lavori del primo lustro dei Trenta che Raffaello Giolli, precoce testimone dell’avventura monacale di Calderara nell’eremo di Vacciago d’Orta, dice dell’ “unanime voce sottile”, di “chiarori impoveriti”, di “gusto delle risonanze contenute” (Giolli, 1935) che si fanno stupefazione emotiva, respirazione venata di fiabesco.

Ben lungi da qualsiasi naïveté, da qualsiasi bamboleggiamento estetico in vena d’astoricità,  avviene tuttavia questa maturazione di Calderara.

Egli è, come l’altro e ben diverso “gran lombardo” Gadda, figlio degli orgogli intellettuali del Politecnico milanese: e soprattutto, ben consapevole delle fervide – ancorché non conclamate – elaborazioni neopitagoriche che l’ambiente milanese va agitando in quel tempo: normale vi è la lettura di Matila Ghycka, fondamentale il profilo culturale di pubblicazioni come “Valori primordiali” di Franco Ciliberti, di eco sostanziosa, anche al di là delle scelte linguistiche fondamentali, la compagine che fa di Kn di Carlo Belli il proprio breviario.

Una non fideistica mistica del numero, e un’ormai acclarata saldatura con la lezione metafisica, presiede a molte delle ricerche milanesi del tempo, come a determinare una variante meno fabrile e pragmatica, e più inquietamente analitica, della figura dell’artista costruttore: a istituire solidarietà non di facciata, forti d’una non scontata matrice simbolista, tra percorsi all’apparenza assai differenti: tra un Casorati e un Soldati, solo ad esempio.

Se si considerano in questa chiave alcune delle scelte successive di Calderara (non solo quelle esplicite, come l’antologia di testi pitagorici premessa da Umberto Eco alla cartella di grafica Misura di luce, 1964, ma anche il più fondante riferimento, tra fine anni Cinquanta e primi Sessanta, a Vordemberge-Gildewart, modello assai fertile proprio in quei Trenta milanesi), se ne deduce con evidenza l’importanza cruciale di quella griglia di riferimenti intellettuali sull’ancora cautelata, a quelle date, cultura artistica del nostro. E’ proprio la sua posizione atipica, che coglie gli umori del cuore del dibattito e subito se ne apparta, per svolgere lente e circostanziate riflessioni, a consentirgli contaminazioni e incroci tra posizioni mondanamente più nette e divaricate.

Una vena casoratiana declinata in chiave antimonumentale, di dolce ossessione domestica (si pensi all’esplicito omaggio rappresentato, ancora nel 1955, dalla deliziosa tavoletta Pomeriggio), echi delle chiarità mentali di un Menzio o di un Chessa, tangenze con esperienze di autori come Guidi o Tozzi… Non è certo un furor mathematicus a orientare tali inclinazioni di Calderara; piuttosto, un intendimento del luminismo che prende spunto dal pierfrancescanesimo ritrovato (che, nella cultura italiana, significa anche altro: Seurat riletto su Braque e sul realismo magico, Vermeer e Chardin su Morandi, ad esempio) e dal clima variante di eccezione al novecentismo paradigmatico, per identificare un tutto soggettivo clima espressivo, insieme intellettuale ed emotivo.

Molte e diverse, sono le prove che Calderara accumula tra la metà dei Trenta e i primi Cinquanta, sostanzialmente svariando tra saldezza plastica dei differenziali di colore/luce, e più baluginanti sdefinizioni della forma in atmosfera colorata: sempre avendo alle viste, scriverà egli stesso, “una luce che non illumina, una luce senza ombra, una luce che è raffigurazione di se stessa”.

L’essenzialità grafica di cui egli è sistematicamente in cerca mira a determinare la congruenza struttiva dell’immagine per via di scansioni verticali/orizzontali di semplice e rasserenata evidenza, cui le movenze curvilinee imprimano soffuse sensuose movenze. Soprattutto lo interessa l’abbreviazione della profondità di campo, il comprimersi dei piani visivi non verso il primo, ma verso la dominante orizzontale: ad affermare insieme una distanza tra riguardante e campo visivo che sia profondità non illusoria, e una spaziosità qualificata non per via d’architetture prospettiche, ma di scambi e raccordi minimi tra toni: cosicché la percezione dello spazio avvenga primariamente attraverso la durata psicologica della lettura del colore, dunque attraverso la misura temporale interiore di una concreta esperienza fisica.

E’ per tale motivo, credo, che Calderara tende a esorcizzare i connotati forti dei soggetti – siano paesaggi e nature morte, ma soprattutto i ritratti casalinghi responsabili di pressoché tutto il suo mondo visivo – attraverso l’escamotage ironico della stilizzazione, ai limiti d’un caricaturismo affettuoso. Certo debitore in ciò della cultura illustrativa di matrice déco (Giubbini, 1995), oltre che d’un clima culturale che affida ai disegnatori ruoli non secondari – si pensi alla dignità riconosciuta a figure come Vellani Marchi e Tabet – egli non mira a istituire un codice stilistico stabile. Al contrario, pare operare per la svalutazione definitiva del soggetto attraverso l’unico modo che gli consenta ancora la confidenza del figurare: la tipizzazione sintomatica, la riduzione della componente descrittiva a sigla grafica accettata a priori come elemento designativo.

E’, questa riduzione della figura a codice grafico stabilizzato, scelta di motif, minima macchina strutturale dell’immagine, e a un tempo “araldica dei suoi sentimenti”, secondo l’intuizione folgorante di Giampiero Giani (1954); ad essa è sotteso, anche, un abbassamento di tono stilistico che cauteli l’artista dall’obbligo di prese di posizione ideologiche, a quegli anni altrimenti ineludibili: come a circonfondere il proprio lavoro di una privatezza che ne salvaguardi le esili fragranze poetiche, in tempi di esibizione di muscolarismi intellettuali.

Si è molto discettato se il passaggio alle stagioni nuove, che il clima degli anni fa dire dalla figurazione all’astrazione, avvenga per evoluzione naturale oppure per soluzione di continuità. A leggere la sequenza delle opere che nascono nello studio nel decennio 1955/65, accompagnate da testimonianze, solidarietà e letture critiche che allineano Agnoldomenico Pica e Carlo Belloli, Murilo Mendes e Francesco Saba Sardi, Giulio Carlo Argan e il musicista Bruno Canino, appare evidente che, dal punto di vista del tracciato iconografico,  Calderara procede per astrazioni successive, mantenendo sino a fine decennio una trama referenziale che appare via via trascolorare (si possono citare esemplari opere come  Contemplazione, 1957, oppure La sposa, 1958, sincrone a prove di più esplicita cadenza geometrica, da Chiesa, 1957, a Colori chiari, 1959)  nello scandirsi minimo delle variazioni tonali intorno a una dominante.

Solo con l’aprirsi dei Sessanta, con gli omaggi al Mondrian americano e ad Albers, concreta, concretissima si fa l’imagerie dell’artista: per il quale, a ben vedere, l’idea stessa di quadrato può valere a monema grafico e strutturale, e motif in sé, così come anni prima erano i sintetici formulari rappresentativi.

Sul piano poetico, è la maturazione della decisione di assumere pienamente la responsabilità pittorica di “luce-colore-numero”, in cui “l’identità tra spazio e immagine” si attua attraverso “il monocromatismo, senza dubbio allo scopo di captare la luce, rivelazione del frammento e del tutto, la luce-madre, la luce-maestra, senza la quale nulla sarebbe manifestato” (Mendes, 1965). Un orientamento, dunque, di impronta metafisica, con sottili implicazioni mistiche, assai più che qualsivoglia strategia stilistica, guida il Calderara di questi anni.

Da tempo ha scelto di lavorare su tavole di piccola dimensione, decidendo per la padronanza della mano e dell’intelletto sull’opera, e più ancora su una misura miniaturistica scevra da tentazioni spettacolari, da assertività sensibilistiche. Negli anni della transizione rimane fedele alla tecnica dell’olio, alla liturgia lenta e scrutinante delle velature plurime, al tempo lungo d’una lavorazione che impregni l’opera di luce, come per lieve persistente coagulo: è scelta etica, innanzitutto, controcorrente rispetto al gusto montante per le campiture piatte e piene dell’acrilico, che gli guadagna presso tutta la critica il riferimento emblematico a Vermeer (Argan, 1969, spende anche il nome di Dürer, proprio in relazione al velare: oltre a dire, del Calderara precedente, che egli “ha sempre sentito l’oggetto come già immedesimato, consustanziato allo spazio”), ma anche legata a una concezione della pittura come distillatissima esperienza fisica, il cui processo di demateriazione non può profittare di scorciatoie illusionistiche. Tutto ciò, benché Calderara non tema affatto la novità tecnica, purché riportabile alla propria incontrattabile frequenza espressiva: negli stessi anni pratica con continuità la serigrafia, alternandola all’acquatinta e alla puntasecca, traendone esiti di matura pienezza qualitativa: rara avis, nel panorama nostrano, a conferire dignità d’arte a una tecnica che i più assimilano a un produttivismo veloce e artisticamente minore.

Le prove che aprono il decennio Sessanta sono, dunque, in questo ordine di lettura, perfettamente omogenee alle precedenti: per rigorosa consequenzialità, per aumento di responsabilità intellettuale e poetica, per ampliamento di spettro espressivo.

Non “passa all’astratto” Calderara. Abbandonata l’umiltà dell’autodidatta, e le difese confidenti delle meditazioni domestiche, egli, che pure per decenni è stato testimone partecipe delle vicende dell’arte non oggettiva (ai tempi del Milione e soprattutto, poi, in quelli del M.a.c., avrebbe potuto profittare del proselitismo e delle strategie di groupage per confezionarsi una posizione di ben maggiore visibilità) ma proprio per questo ne ha visto, anche, i limiti fideistici e i fastidiosi retrogusti stilistici, sa che, indipendentemente da ogni opportunità, per il suo viaggio solitario è giunto il momento di alzare lo sguardo alla cima del cielo, fuori dalle mura confortevoli della stanza. Il suo, infatti, è un concretismo estremo, intellettualmente inflessibile, poeticamente ultimativo, inconfrontabile con ogni altra pittura d’impronta geometrica stia circolando in Italia in quel tempo.

Calderara comprende, in una parola, che lumeggiare l’infinito è possibile, infine; che la domanda ultima si può almeno formulare. Anche Licini aveva attinto il “silenzio chiaro”; anche Fontana: “non mi interessa lo spazio di cui parlate voi. La mia è una dimensione diversa”: e il giovane Klein.

Due serie folgoranti segnano la stagione 1960/63: Misura di quadrato e Spazio-luce: con una sorta di postilla, Lealtà per Josef Albers, 1963, e titoli come Polemica del quadrato  a far quasi da epigrammi programmatici.

Lontano dalle ufficialità dell’avanguardia nostrana nei decenni precedenti, anche con le nuove opere Calderara risulta incodificabile e non omologabile. E’, intellettualmente e poeticamente, in tutto e per tutto pittore nordico: è, non ha scelto di essere.

“Dipingere rettangoli, quadrati, righe, che non ambiscono essere pittura geometrica, ma che vogliono invece essere rappresentazione della misura umana in uno spazio di luce, è un impegno, una risoluzione che, particolarmente in Italia, offre la più grande incomprensione”: così, semplicemente, registra la nota autobiografica. “Dipingo, dipingo e le mie pitture maturano nel colore luminoso e nella struttura sempre più semplice. Non più la natura, non più l’uomo, ma la natura e l’uomo dimensionati nel bisogno della più assoluta sintesi, portati a quell’estremo limite di essenzialità, nel quale finisce il ricordo per avere principio l’idea”.

La misura. Dunque, nuovamente, una prospettiva di rifondazione di classicità ideale, di concrezione e di visibilizzazione del valore sovrasensibile precedente gli accidenti del contingente. Il quadrato come forma perfetta (perché la perfezione è un possibile, ancora), e icona sapienziale, in polemica generatrice con la relatività plastica del rettangolo.

La riflessione di Calderara su Mondrian, la scelta di Mondrian come referente intellettuale primo, non ammette il ridursi della scrittura geometrica a rideclinazione per shapes ordinate del possibile sensoriale, e punta all’epifania della realtà altra attraverso la pittura, codice unico in grado di pronunciare ai sensi verità che ai sensi non appartengano.

D’altronde, fuori da ogni percettivismo – anche se la giovane generazione dei primi Sessanta fa da subito di Calderara un padre nobile delle nuove avventure della visività essenziale – il quadrato stesso non si scrive, non si traccia come sostanza plastica della visione, ma si qualifica per mere gradazioni di densità luminosa, variante prima e ultima di differenziali d’un unico colore/luce: colore/luce inteso come valore stesso fondamentale, come matrix che invera al mondo la realtà metafisica.

Calderara coglie, come il Newman dei grandi collassi cromatici della visione, ma senza i suoi eroismi rinascimentali, il valore pieno dell’immagine pittorica come icona: quasi che le sue tavolette laboriose e sospese fossero altrettante “non dipinta da mano umana”.

Nel clima del decennio, tale adesione di Calderara alla linea neoplastico-albersiana è fonte di letture limitative, che tendono a rivendicarne la maestria in chiave di polemica d’arte. Tanto ha nuociuto al Calderara degli anni Trenta e soprattutto Quaranta la poggiatura al figurare (d’altronde, ben maggiori affini equivoci hanno accompagnato l’opera di Giorgio Morandi), altrettanto, per paradosso, gli nuoce ora  la scelta geometrica: perché il dibattito italiano non sa districarsi da una polarizzazione polemica (a tutt’oggi capace di soprassalti sorprendenti di mediocrità intellettuale) figurare-astrarre del tutto priva di senso, ridotta a mere interpretazioni modali e formalistiche: e, per cattiva coscienza formalistica, ideologiche; perché ancora per un decennio anche il dibattito internazionale faticherà a comprendere che ciò che è in gioco in molti lavori del tempo non è il vedere/far vedere (ben diversi sono questi spazi-luce da quelli di un Lo Savio…) ma un altro spazio, un’altra immagine, un’altra luce, un’altra verità.

Se Jesus Rafael Soto (1965) ne fa il maestro della “struttura allo stato di relazioni pure” – ed è comunque notevole osservare come sia la generazione meno compromessa con il concretismo storico, quella dei gruppi come Zero, Azimuth, Nul, Enne, Miriorama, eccetera, a scegliersi Calderara come vessillo; se Friedrich Heckmanns (1981) sottolineerà l’ “ordine attinente non tanto alla rappresentazione di contenuti atmosferici, quanto alla preparazione delle attività percettive dell’osservatore, predeterminandone la reazione”, è però pur vero che talune intuizioni amorevoli e nitide accompagnano il viaggio maturo di Calderara.

Nel cuore degli anni Sessanta a tener campo sono tensioni e attrazioni, ovvero una sottrazione ulteriore della misura del piano visivo portante a favore di una condizione come di lontananza e di ritrosia percettiva, a dilatare temporalmente e interiorizzare ulteriormente l’esperienza mentale ed affettiva del vedere rispetto all’innesco sensibile: definitivamente, ormai, con valore di rivelazione.

Insieme, egli dà avvio a sequenze in seriazione fitta, che non sottraggono all’opera il carattere di individuo vivente in plenitudine di senso, moltiplicando invece il lavorio sottrattivo e di scorrimento visivo dei differenziali cromatici. Non si tratta, anche in questo caso, di una scelta programmatica, di valore ideologico. Le modalità cui Calderara fa ricorso sono sempre altrimenti motivate e necessitate: non è un caso che nello stesso tempo, 1968, egli dia avvio con Sequenzen alla realizzazione di edizioni grafiche basate su serie di variazioni cromatiche, e concepisca con Jean-Cristophe Ammann Orizzonti, a sua volta prima di una piccola genealogia di cartelle dal medesimo titolo.

Di diverso peso è la sempre maggior responsabilità attribuita al giallo, colore di storicamente connotate implicazioni metafisiche, colore di per sé inteso congenito alla luce. “Ambizione di una realtà di immagine, che non è più la realtà, ma la più alta, la più pura, la più astratta espressione di quella realtà. In questo ordine il tempo perde il senso della sua misura per annullarsi nello spazio senza limite, nella luce senza sorgenti e l’orizzontalità e la verticalità, ordinate nella perfezione dell’angolo retto, si chiariscono statica immagine di un punto in movimento e si definiscono nel costruirsi quadrato e rettangolo, misura organizzata di luce nello spazio di luce”. Così annota Calderara, che vive ormai serenamente la condizione mistica implicita nel proprio tentare l’infinito.

E ancora: “La mia pittura si è aperta a problemi di sintesi, di rarefazione, di vuoto, di monocromia per giungere fino a quel più niente che si riassume in vorrei dipingere il niente”.

Si è detto di intuizioni critiche amorevoli e nitide, che prendono a sgombrare il campo dagli equivoci contingenti. Scrive proprio nel 1969 Heinz Gappmayr che “i quadri di Antonio Calderara non sono né astrazioni né simboli o mediazioni”, bensì “identità di concetto e materia”. E l’anno successivo Vincenzo Agnetti: “Un concetto non è soltanto un concetto, non è soltanto una operazione mentale; ma storicamente è anche l’aggiunta emozionale di tutto il nostro deporsi”: “così è per questi oggetti, queste opere che il suo autore ha allontanato e consumato; ridotti a niente, dopo averli premessi con una trasparenza che preclude ogni veduta. E’ il messaggio che torna nel completo e anonimo sfondo”.

Lettere di un convalescente, Epigrammi. E’ non solo l’esperimento disincantato – mai disperato – dell’intangibilità del senso fondamentale. E’ anche, per la prima volta, la coscienza dell’infinito e della morte come unica, indivisibile esperienza.

Trova, Calderara, nel brivido del minimo accidente diagonale, la compiutezza dell’identità e della differenza, il suo proprio luogo buono. Ancora, la luce.

    

 Nota. La nota autobiografica, redatta dall’artista nel 1970, appare in F. W. Heckmanns, Antonio Calderara, Köln, 1981, ed è stata ripubblicata in diverse occasioni. Per le citazioni su Calderara, si rimanda alla bibliografia riportata in altra parte del volume. Sul milieu neopitagorico milanese in particolare cfr.  Z. Birolli (a cura), Letteratura-arte. Miti del ‘900, cat., Idea Books, Milano, 1979, oltre a E. Pontiggia (a cura), Il Milione e l’astrattismo 1932-1938, cat., Electa, Milano, 1988. Sull’importanza del pierfrancescanesimo in quel clima cfr. M. M. Lamberti -M. Fagiolo dell’Arco (a cura), Piero della Francesca e il Novecento, cat., Marsilio, Padova, 1991.