Enrico Baj. Colloquio. 1955-1999, catalogo, Galleria L’Incontro, Chiari, 27 settembre 2003

“Tutto è mostrazione. Egli indica col dito qualcosa di mostruoso”. Così scriveva Michel Maffesoli a proposito di Enrico Baj, di quel suo aggirarsi fastoso e feroce nel grottesco del mondo, come un Rabelais moderno che scrive e riscrive un’epopea paradossale, facendo dell’arte una lingua che non consola, ma scarnifica il mondo di tutto lo spurio che c’è. Baj “si è sempre divertito a costruire mostri che non poteva amare”: così, in altra lettura, Umberto Eco.

Baj, Montagna, 1958

Baj, Montagna, 1958

Baj debutta all’aprirsi degli anni Cinquanta, guardando al surrealismo e soprattutto a dada – con altri, pochi – mentre da noi si dibatte di figurare o astrarre. “Da allora abbiamo proseguito nella sperimentazione di ogni possibile risorsa tecnica, dall’automatismo tachiste o oggettivo a quello soggettivo, al grafismo, alla Action Painting, al gesto, al calligrafismo, alle emulsioni, Flottages, polimaterialismo, sino alle acque pesanti”, recita il manifesto Contro lo stile, 1957.

Tele di materasso e tappezzerie a far da supporti, le pietre e i vetri di Fontana reinventati come cose del mondo anziché come puri segni pittorici, e una sorta di fantasmagoria degli oggetti, uno smontaggio e rimontaggio del collage e dell’assemblage, che da qui ha inizio e che accompagnerà l’artista, come il tratto distintivo più clamoroso, sino alla fine. La sperimentazione tecnica, estrema e deliberatamente antigraziosa per saturazione di grazie, non vale in quanto annuncio di una supermodernità che tutto ingloba nei propri processi di pensiero e nei metabolismi di forma. È, piuttosto, una sorta di cupio dissolvi del mito stesso del moderno, della fascinazione mediale, della macchina come panacea; della ragione, soprattutto, delle sue arroganze scientistiche e metodologiche che si fanno estetica, e politica.

Con perfetto umore da anarchico borghese, con spirito duchampiano di chi assume il gioco e lo gioca sino al punto in cui le regole si dissolvono, Baj fa dell’arte moderna, ma non per affermarne un repertorio nuovo di rules and regulations, bensì per lacerarne nel modo più caustico e inappellabile il velo di falsa coscienza: il fare come ben fare, l’estetica sotto cui si acquatta il kitsch (e il kitsch rifatto estetica), sono lo specchio delle sorti magnifiche e progressive che fanno la guerra mondiale e la bomba atomica, e che travestono damazze e militari da persone rispettabili.

Baj, Il Tarpillon, 1960

Baj, Il Tarpillon, 1960

I mostriciattoli degli anni Cinquanta sono figli delle sfrenatezze geniali di Jarry e dei “manichini ossobuchivori” di Gadda, e genitori della genealogia tutta di ritratti che compone l’apocalisse rutilante di Baj. Persone che si fanno figure, e poi pupazzi, oggetti, tipi sinteticamente bidimensionali schiantati dalla tabe del ridicolo, la più mortale delle armi. “Tutto è ridotto a oggetto. Baj confeziona personaggi proprio come un sarto confeziona tessuti”: così Emilio Tadini, a dire quanto la captazione sensoriale delle immagini dell’artista, quel suo ricorrere a una sorta di enfiamento ipertrofico dell’estetico, per via di decorazione, di un colorire lussureggiante, di una sensualità d’accatto contrabbandata per bellezza, sia la trappola che egli innesca e i cui meccanismi allo stesso tempo ci addita, pensando ad altre trappole, ad altri meno evidenti lustrini e inganni. Sono, davvero, i suoi, “i segni di un conformismo superpotente trasformati, per grazia della pittura, in segni della sua decomposizione”, come ci ha indicato Jean Baudrillard.

Oggi magari ci siamo un po’ scordati, ma l’engagement e intellighenzia di allora, parlo dei decenni cruciali del dopoguerra, amavano a loro volta travestirsi: da moralismo feroce, da ascetismo, da presa di distanza, da predica, da ideologia, da incazzatura, eccetera. Baj ha preferito la via dell’adesione ridondante, quella di screditare l’avversario a forza di applausi, e celebrazioni, e feste.

Troppi alamari, troppe coccarde, troppe medaglie, troppi cordoni, troppi lustrini. La grande Nixon’s Parade che diventa un po’ passerella di café chantant e un po’ pantomima grandguignolesca, l’Apocalisse che racconta una sorta di Eden precocemente dissoluto, un teatro, come le Folies Bergère del male, i Guermantes che a loro volta diventano una galleria di antenati ridotti in fattezze di maschere senza sguardo e senza anima, buffi fantocci, superciliose facce di niente. E tutte insieme, queste figure, che diventano una sorta di gigantesco ininterrotto colloquio (Colloquio: così una delle opere antiche di Baj), un convegno in cui il frastuono dell’ecolalia si fa, ancora una volta per saturazione, silenzio perfetto, riscatto solitario dell’intelligenza e della singolarità irripetibile di un individuo.

Baj, The Mirrors Lady, 1973

Baj, The Mirrors Lady, 1973

Solo una volta, nei Funerali dell’anarchico Pinelli, il grottesco, l’assurdo, si fa epopea storica: come negli specchi infranti e ricomposti di certe sue opere giovanili, qui basta raccontarle, le cose, non serve l’accelerazione tematica: la discrepanza è la realtà stessa, e il teatro si fa teatro d’ombre.

In arte, sappiamo bene, certe volte la dismisura paga più della misura, e l’eccesso non si fa disvalore in sé, ma se ne fa l’indicatore. Innamorato, umoralmente innamorato della propria intelligenza, Baj si comporta da perfetto illuminista in un mondo che della mitologia della ragione ha fatto un vessillo (o una coccarda, una medaglia, una passamaneria…): lui, la ragione, la usa fino in fondo, non per farti credere in qualcosa, ma per raccontarti continuamente le tue credenze, facendotene finalmente consapevole. Davvero, il suo è un diderottiano “ceci n’est pas un conte”, e le altre sono favole, tra l’altro assai meno divertenti di queste meravigliose finzioni.

In questo, soprattutto per questo, Baj ha incarnato l’anima più limpida dell’avanguardia che è stata storica, è ha potuto a buon diritto guardare a Picasso come a uno zio. La risposta è nel Poèteassassiné di Guillaume Apollinaire. Dice l’Uccello del Benin a Tristouse: “Gli devo scolpire una profonda statua di nulla, come la poesia, come la gloria”.