Nino Longobardi. Gran teatro della morte e del corpo, in Nino Longobardi. Physis, catalogo, Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 9 maggio – 18 giugno 2001, Prearo, Milano 2001

La testa, la testa straniata alla vitalità dell’organismo/corpo, è riportata a una sorta di combusta, feroce filigrana di classico. Ove senti il retaggio del gesso accademico, di quella capacità sua di essere insieme manichino e teschio – per stare al secolo: da Casorati a Funi ai giovani Morlotti e Peverelli, maestri d’occhiaie vuole e allarmate; ma anche il Gentiluomo ubriaco e l’Idolo ermafrodito di Carrà, e la Totentanz mafaiana delle Fantasie, sorella di Ensor… –  d’altri nevrotici memento mori. Ove, parimenti, lievita l’eco deviante di Zumbo e Messerschmidt, autori d’un plus que réel ossessivo sino a che l’organico, il mimetico si faccia discrepanza estrema. Ove, infine, avverti quasi il disincanto smagato della perdita di verità del paradigma, della commensuratio, d’un canone che valga a nominare il mondo con senso.

Longobardi, Physis, 2001

Longobardi, Physis, 2001

Così Longobardi, negli atti recenti d’una storia che da subito, dai suoi inizi, dichiarava ossessione di corpo, e insieme l’ansia dubbiosa della deriva, della perdita, quasi il desiderio feroce d’un vero non transitorio che s’agita, non si placa, nel teatro delle parvenze e dei modelli.

Più ancora che per il motif antropomorfo, pressoché esclusivo, tale tensione si dichiara e si agita nella pratica febbrile, nella fatica agonica, nel figurare iterato sino allo stordimento che caratterizza il lavoro d’atelier di Nino. Il quale disegna, e dipinge – dipinge en sculpteur, già m’era accaduto d’indicare – e plastica, contaminando strati significativi e di codice come aggredendo, per cupio dissolvi in odore d’erotico (ove avverti l’impronta dei cadaveri pompeiani sul sentore di carni viventi, toccate), la sensorialità delle materie dell’arte e riportandole, attraverso il suo tutto tipico, scarnificato combine painting, a statuti che si vorrebbero di corporeità autentica.

Non la sprezzatura stilistica egli cerca – anzi, negli anni egli va distillando una sorta di interna rule formativa, per le vie dell’essenziale, d’un less is more coloristico e di materie e di sagome, ha ben notato Trione – e men che meno l’artificioso d’un apparato tipico di modalità. Agendo sulle convenzioni, egli assume i modi stessi del rappresentare, del far vero, come materia problematica dell’operare: l’operare essendo un’azione rastremata, concentrata a un essenziale primario – primario, ben più che primitivo, direi –  impreventivo e forte, il quale ragiona le ragioni fondative dell’avvertimento del corpo che anima l’autore.

Longobardi, Senza titolo, 1983

Longobardi, Senza titolo, 1983

E’ il processo formativo, nutrito di codici ma snudato e criticissimo negli atti, il punto cruciale del lavoro di Longobardi. Che per questo suo criticismo inflessibile, tanto quanto solo conosciuto negli strati oscuri del fare, ridiviene infine anche cosa mentale, a testimoniare l’originaria e mai smentita mozione postconcettuale che stava all’inizio di questa esperienza. Lo scegliere materie secche in pittura, tanto quanto l’umore dimesso dell’argilla cruda nelle opere plastiche, tanto quanto l’assertività brusca ma adespota della lastra metallica a far shape d’ombre – ombre schlemhiliane, concrete doublures corporee, ancora – è in fondo un modo per riportare il ragionamento sul carnale, e sul canone organico, a pensiero ripensato e restituito in cosa, ai limiti pericolanti dell’icona: come la “perfetta proportione” animata dell’ermetismo, ben evocata da Guadagnini, ridicente il gesto biblico del faber massimo che pronuncia il verbo nell’argilla (“io sono l’argilla”, si legge nel Libro).

Da ciò, anche, la misura intima di sacro che anima queste opere. “Figlio non spurio di Beuys, Longobardi il suo Secret Block lo fa diventare teatro grande e inquieto, ombroso e metafisico, pagano e alitante vertigini religiose: connaturato ai muri vecchi di Napoli, al silenzio sensuale delle chiese, alla cecità della luce alta e atavica”: così, altrove, avevo annotato. Colpiva, allora, e ancor oggi persiste, in forme più scarnite di ritualizzazione, la visività alta e struggente dell’operazione di Nino, quel suo esplicitarsi e coraggiosamente sottrarsi al pudore dell’esprimere, avvinto piuttosto a ben altre castità intellettuali. Colpisce il dràma, e quel suo assumere a scena uno spazio che è lo stesso dell’esperienza ordinaria e della memoria: oppure, come in questo caso, ancor più sontuosamente è l’ambito della memoria notificata, altrimenti sacrata: all’ombra, l’ombra, d’un Eracle che è forma e mito, e soprattutto gran teatro della morte e del corpo.

“Gli devo scolpire una profonda statua di nulla, come la poesia, come la gloria”, dice l’Uccello del Benin a Tristouse nel Poète assassiné di Apollinaire. Queste, di Longobardi, sono statue, eidola, di quel nulla; o meglio, non sono neppure statue, ma concrezioni probabili e già in dissoluzione d’un corpo che può essere, ma forse mai sapersi: un corpo senza sangue, una forma disperata.