Simbolismo italiano
La varietà del Simbolismo italiano, in “Corriere del Ticino”, Lugano, 20 ottobre 2011
Al “Salon des Indépendants” di Parigi del 1884 Odilon Redon espone insieme ai protagonisti del pointillisme Seurat e Signac. Redon diviene, con Gustave Moreau e Pierre Puvis de Chavannes, il capofila del simbolismo, l’atteggiamento pittorico dalle forti implicazioni letterarie destinato a contribuire in modo decisivo alla nascita delle avanguardie del ‘900.

Segantini, Le due madri, 1889
In Italia, documenta un’ampia e precisa mostra a Padova (Palazzo Zabarella, sino al 12 febbraio 2012), il fenomeno è immediatamente successivo, e si manifesta con forza alla Triennale di Brera del 1891, quando Giovanni Segantini vi presenta Le due madri e Gaetano Previati la Maternità.
Proprio come in Francia, dove le opere nuove dialogano fittamente con l’universo postimpressionista tutto sino a fecondare la fioritura dei Nabis e a intonare personalità come Gauguin e il primo Picasso, in Italia il rapporto primario si instaura con il divisionismo, che da esperienza fondamentalmente legata alla qualità ottica del vedere si fa suggestione di una realtà altra, dai forti umori poetici, in grado di restituire una sorta di esperienza trascendente, e fortemente psicologica, del mondo.
I modelli primi, per tematiche e atteggiamento espressivo, vengono dalla poesia. Era stato Paul Verlaine a spiegare che “consistendo la poesia nel creare, bisogna prendere nell’anima umana degli stati, dei lucori di una purezza così assoluta che, ben cantati e ben messi in luce, rappresentino le gemme dell’uomo: là c’è simbolo, c’è creazione, e la parola poesia ha un senso”, ed era stato Jean Moréas nel 1886 a pubblicare nel “Figaro” il manifesto letterario del movimento.

Boccioni, Il sogno, 1908-1909
Così, quando nel fatidico 1891 lo scrittore George-Albert Aurier pubblica nella rivista “Mercure de France” una definizione del simbolismo per cui “l’opera d’arte sarà in primo luogo ideista, perchè il suo unico ideale sarà l’espressione dell’idea, in secondo luogo simbolista perchè esprimerà questa idea in forma, in terzo luogo sintetica perchè traccerà le sue forme, i suoi segni, secondo un modo di comprensione generale, in quarto luogo soggettiva perchè l’oggetto non vi sarà mai considerato in quanto oggetto ma in quanto segno percepito dal soggetto, in quinto luogo l’opera d’arte dovrà essere decorativa”, non fa che ratificare il mutamento avvenuto di clima.
In Italia, mentre i fratelli Grubicy fanno riferimento prevalente all’ambiente parigino, tanto da organizzare nella capitale francese, nel 1907, il “Salon des peintres divisionnistes italiens” (e va ricordato che Marinetti, nume del futurismo, si dedica alla letteratura avendo proprio Moréas tra i propri idoli), nutrimenti altrettanto fondamentali vengono all’ambiente italiano dall’area mitteleuropea e nordica, a cominciare da Böcklin, nomade tra la Germania, la Svizzera, Roma e Firenze, dalla Secessione di Monaco intonata da von Stuck e poi da quella viennese di Klimt, così come dal piccolo tenace mito dei Nazareni operanti a Roma nei primi decenni dell’‘800.
Dunque il simbolismo italiano si volge tanto al progetto di rinnovare il paesaggio come specchio poetico di uno stato d’animo, quanto a quello di edificare un’iconografia che esalti i temi fondanti dell’umano. In gioco non è solo, beninteso, una questione di stile, e neppure una moda di derivazione letteraria: anche se l’incombere della figura di D’Annunzio, letterato di riferimento di molti a cominciare da De Carolis, a ciò potrebbe far pensare. Il progetto è, per i migliori, di far tornare l’arte a essere la grande coscienza culturale di un popolo, che sia in grado di esprimerne i valori che ne costituiscono l’identità: e non è un caso che autori come Pellizza da Volpedo e Morbelli s’inoltrino in temi di dichiarata implicazione sociale.

Previati, Notturno, 1909
Variegatissimo nelle personalità, nei modi, nei risultati, il simbolismo italiano allinea così Sartorio e Chini, Bistolfi e Alberto Martini, Previati e il suo seguace Boccioni, Cambellotti e Balla, Longoni e Casorati, svariando dal paesaggismo trepido all’allegoria, dal fasto decorativo che darà il liberty a nuove purezze d’arte sacra, dall’illustrazione del mito alle prime, caute incursioni nella sfera del sogno e della visionarietà.
È notevole osservare come il movimento, con le sue anime diverse, faccia da filtro e da reagente potente al passaggio complessivo dell’arte italiana dall’‘800 al ‘900, diventando per taluni la giustificazione all’asserragliarsi entro i codici pittorici della tradizione e per altri l’abbrivio verso esperienze dirompenti come sarà il futurismo; per taluni l’alibi di una fuga lirica dalla realtà e per altri un modo di restituire alla pittura quel ruolo storico, sociale, che già pareva perduto.