Pianezzola
Pompeo Pianezzola. Opere dal 1963 al 1990, catalogo della mostra, Sale degli Archivi Napoleonici, Vicenza, Electa, Milano 27 aprile – 3 giugno 1990
Nel 1963, Pompeo Pianezzola si trova a un bivio importante della propria vicenda. A Nove, una delle capitali storiche della ceramica, la sua fisionomia si staglia non come quella di un prosecutore – seppur abilissimo e talentoso – della tradizione nostrana, e invece come portatrice di un atteggiamento inventivamente complesso, e soprattutto riflessivo nei confronti dei fondamenti disciplinari stessi della tecnica ereditata.
Gli anni Cinquanta, d’altronde, rappresentano un momento di svolta cruciale, in quest’area. Da un lato, infatti, il milieu di ricerca cresciuto a fianco delle nuove generazioni dell’architettura, che hanno nella Triennale milanese il loro luogo canonico di confronto e dibattito, si è maturato fino a instaurare in modo fervido e non sperimentale il rapporto di complicità, nel rispetto delle reciproche identità, con la ricerca artistica alta.

Pianezzola, Libro nero, 1988
Lucio Fontana, Fausto Melotti, Fancello, Leoncillo, il clima albisolese gravitante intorno a Tullio Mazzotti, non sono che casi esemplari, testimonianti che l’antico progetto, venato d’utopia ancora, di futurismo e Bauhaus, può organicamente incarnarsi in ipotesi operative svincolate dall’ipoteca della gerarchia delle arti, e soprattutto dal diaframma persistente, ma ormai sclerotizzato in retoriche teoricistiche, tra arte pura e arte applicata. A cominciare dagli esempi precoci di Figini e Pollini, per proseguire con figure come Ettore Sottsass jr., Marco Zanuso, Ico Paisi, Luigi Massoni, non una configurata corrente architettonica, ma certo un arcipelago di personalità forti e propositive, produce nel volgere di pochi anni una serie di esempi, svarianti dall’architettura costruita al design, in transizione tra piccola e grande serie, di elaborazione paritetica e complementare così puntuale e problematicamente ricca da far da humus, per decenni, allo stesso evolversi della tentazione di una “artisticità” propria della cultura del progettare.
Gio Ponti, al timone della già storica rivista “Domus” e nel suo stesso lavoro inventivo, è in qualche modo il teorico e il gran regista di questa evoluzione concettuale e operativa. Negli anni in cui il design prende a pensare se stesso come disciplina fondata, e da subito intravede il pericolo, implicito nella nozione di produzione seriale, di un’omologazione qualitativa verso il basso, di una dismissione della tipicità fabrile stessa dei lavori, Ponti intuisce l’inalienabilità del patrimonio della cultura artigianale, d’atelier-bottega, che fa forte ancora, da secoli, la struttura produttiva italiana: nella ceramica, come nell’arte del vetro, nella tessitura, nei mille ambiti di cui il policentrismo italiano vive. E di tale patrimonio, sollecita la capacità di trasformarsi da tempio della ripetizione acritica e indifferente a nervatura viva del produrre moderno, flessibile e inventiva come si richiede a un campo dalle mutazioni tumultuose, condizionato dagli orientamenti del gusto, e soprattutto ricca di un know-how di radicata e straordinaria ricchezza.
È anche questo un “il faut être modernes”, ottimista e progressivo, ma non distruttivo e discriminante il senso di una storia tutta, connaturata ormai al codice genetico della mano che fa, del suo intendimento complice delle materie, della carezza che fa lievitare gli atti, altrimenti ciechi, del processo. D’altro canto, e per ovvia conseguenza, ecco affacciarsi sulla scena della ricerca una generazione di artefici che sommano, alla naturale spinta innovativa, proprio una disamina feroce, essa sì polemica, del dover essere della disciplina, serrato entro il confine di un rituale orgoglioso della sua stessa ghettizzazione artigianale, in favore di più ampi orizzonti di riferimento.
Fontana, soprattutto, incarna per loro, nell’attitudine ancor più che nelle azioni, la dimostrazione che, trasgredendo il codice non la sostanza dell’approccio concettuale al fare, è possibile schiudere un ambito di indefinita corresponsabilità tra puro ricercare e produrre, anch’esso di fondata responsabilità storica ma, dopo gli eccessi di “genialismo” romantici o avanguardistici, da decenni trascurato. Con Fontana è ancora una volta Picasso, di cui proprio nei Cinquanta si scopre in Italia tutta la ricchezza, compresa l’attività ceramica negli atelier provenzali che vale, da sé, più di mille convegni programmatici. Sprovincializzarsi, uscire dalle pastoie di un regionalismo che troppo sovente assume le forme ambigue del rispetto ossequiente della tradizione autoctona, vuol dire anche questo: misurare una cultura congenita, profondamente e amorevolmente risentita, con questi esempi: criticamente, in vista d’un nuovo di spessore e tensione non contingenti.

Pianezzola, Porta, 1986
Pianezzola è di questa partita, da subito, insieme ad altri esponenti del ricambio generazionale, nati nel Bassanese come a Faenza, e Pesaro, e l’Umbria, ovvero negli epicentri storici della ceramica. Sono Nanni Valentini, Carlo Zauli, Federico Bonaldi, Franco Meneguzzo, Nino Caruso, molti altri. Agiscono per vie diverse, spesso divergenti, ma dando tutti dello sperimentalismo, della progressività del proprio ricercare, una declinazione non genericamente modernizzante, e piuttosto implicata in una compiuta rifondazione, in senso moderno, del proprio atavico orgoglio fabrile.
Nel 1963, dunque, Pianezzola si trova ad aver compiuto tutti i passaggi che, come in un cursus honorum prescritto, ne fanno uno dei riferimenti eminenti di tale innovazione. La formazione accademica, affidata a rare e curiose prove di disegno e pittura; la padronanza del mestiere, da subito rilassata, non venata di esibizionismi virtuosistici, di solida e confidente fondazione; il curriculum dei premi, dei riconoscimenti, Triennali milanesi e Faenza in testa, accreditanti una maturità professionale già di rilievo internazionale… Solo Valentini, forse, nei medesimi tempi può vantare un consenso d’ambiente così vasto e unanime: né è un caso che proprio da loro venga una reazione di disagio, un rifiuto netto e incontrattabile ad acquietarsi entro la dimensione professionale, peraltro nobilissima, cui vengono omologati.
Pianezzola chiude, quasi da un giorno all’altro, con la produzione, con le realizzazioni pur bellissime che l’hanno già reso celebre. Non soffre di complessi nei confronti della disciplina che l’ha visto nascere: non a caso, mai manifesterà il complesso opposto, quel voler essere riconosciuto scultore che, per il medesimo perverso meccanismo di pensiero, rappresenterebbe un accreditamento nobilitante.
A ben vedere, del suo stesso patrimonio di bottega non tende neppure a farsi scudo per proporsi, secondo gli slogan degli anni, come “operatore sperimentale”. La sua curiosità, la sua ansia tecnica è circoscritta e mirata, da subito, rispetto alla ben chiara intensità dei risultati che si propone. La cottura intorno ai 1000 gradi, l’ingobbio, lo smalto; nelle forme, un repertorio mai deliberatamente “maraviglioso”: antico semmai, d’una nobiltà ben intesa e auscultata. Nulla a che fare con i tecnicismi sofisticati, con le acrobazie d’atelier, con un antitradizionalismo che suona, da subito, maniera, e che pure affascina molti colleghi.
L’artisticità di cui Pianezzola è in cerca, di cui si sente responsabile e padrone, è tutta implicita in ciò che le sue mani conoscono, per codice genetico ormai. Altra è la frontiera incognita che vuole raggiungere, l’espressività naturale della terra, delle terre, dei minerali, in una sorta di essenziale, e per questo primaria, e anti-intellettuale, formatività.
Certo, le prime fasi di questa maturazione – che sarebbe fuorviante e scorretto indicare come un nuovo corso: è semmai purificazione, concentrazione – passano inevitabilmente attraverso una serie progressiva di aperture, consolidamenti problematici, esperimenti anche, che si potrebbe esser tentati di leggere in chiave evolutiva, secondo l’ormai usurato ma prevalente schema avanguardistico. In realtà, nelle realizzazioni che Pianezzola va allineando nei Sessanta e nei primi Settanta si avverte, piuttosto, il senso di uno stacco, la vertigine della fuoriuscita dalla serra confortevole di un ambito operativo protettivo verso il mare vasto del possibile, dell’artisticità non garantita da un altro, alternativo codice disciplinare. Più profondi e circostanziati si fanno i rapporti con certe esperienze estetiche, l’arte programmata, esatta in particolare, ma non in vista di una scelta di campo, e tantomeno nell’intento di garantire una autorevolezza eteronoma al proprio fare. Diversa è la sua attenzione.

Pianezzola, Contrappunto, 1987
Come già nelle “griglie”, nelle “torri” (così possono indicarsi, con buon grado d’improprietà, due tra le maggiori serie operative degli anni precedenti), era in gioco una nozione di struttura elementare, tendente alla nudità formale, ancora avvinta però a valori di stilizzazione, di residuo referenziale diretto o indiretto: così nelle piastre scandite da ritmi modulari, e nelle realizzazioni parallele in plexiglas, serrate in cromie anestetiche, appena irritate in un sottile scrutinio del punto limite tra lettura bidimensionale e tridimensionale, tra cattura e risonanza luminosa e dura introversione plastica, ciò che Pianezzola persegue è una minimalizzazione radicale, di sublimata e impreventiva bellezza, del tradizionale approccio sensibilistico, ricco fino al turgore, alla terra e alle sue formazioni.
Vuole esorcizzare, Pianezzola, la complicità consolatoria, l’acritica abitudine ad accogliere la ceramica come materia e forma umana per eccellenza, in qualsiasi manifestazione essa ci si offra: in favore di un rapporto ancor più profondo e generatore di senso, ma dopo l’inflessibile vaglio della consapevolezza, del pensiero.
È, tra l’altro, il tentativo di dirsi la terra come materia dalle distanziate vocazioni formative, il cui carattere specifico non sia la risoluzione del problema plastico affrontato, ma il problema plastico stesso: materia delle Urformen, ma solo per ritrovamento necessitato, forte, nitido, delle sue originarie qualità specifiche, al di là della sedimentazione storica delle sue consuetudini suadenti.
A fianco delle piastre abitate da modulazioni iterative, ecco infatti Pianezzola affrontare la forma canonica per eccellenza, il piatto, in cui storia funzionale e repertorio decorativo s’identificano al grado massimo di connotazione, e con il portato tradizionale più autorevole e condizionante.
È, il piatto, il luogo cui l’artista tornerà ripetutamente, negli anni, quasi a cercarvi ogni volta la conferma, la certezza provata, della non arbitrarietà dei suoi raggiungimenti. Il tondo, schema formale di contaminazione, anche, tra cultura del plasticare e cultura pittorica, è assunto come forma in sé, la cui stessa solidità di codice si espande fino a implicare, criticamente, i nodi cruciali del far ceramica: forma piana e rilievo, colore materiale e colore additivo, partitura decorativa ed evidenza propria, esteticamente implicita nel processo.
Proprio la renitenza di Pianezzola al bel gesto tecnico, all’iperdeterminazione artificiosa del procedimento, lo induce a scavare spessori di senso negli interstizi del codice dato, con semplicità d’approccio, e autorevolezza immediata di risultati: le variazioni intorno al rapporto tra bordo e centro, o intorno al motivo della circolarità, alla politezza e all’opacità pastosa della superficie, addirittura – in anni recenti – alla finitezza stessa della struttura, sottoposta deliberatamente a fratture e ricomposizioni, sono altrettanti momenti di specchiamento riflessivo, in cui i ricercari misurano la propria distanza, e contemporaneamente la legittimità d’appartenenza, alla storia ceramica.
Sono queste esperienze a indicare a Pianezzola l’indirizzo primario, che segnerà tutti i suoi corsi successivi fino allo splendido presente. Non l’esprimere d’ascendenza narrativa, ma quello d’astratta e distillata filigrana decorativa, ovvero quel punto di trascendenza del decorare, riguadagnato dal nostro secolo, dall’appagamento percettivo all’emissione autonoma di senso. Non l’assertività dura, di fisiologia tridimensionale, a occupare e attivare lo spazio d’esperienza, ma la rimeditazione della martiniana “disinvolta sostanza” in seno a un valore pellicolare, di tegumento artificioso e insieme d’esperienza propria della bidimensione plastica, e delle ascendenze storiche e simboliche implicate. Non l’intendimento del colore come superfetazione apparente, effetto immateriale, ma condizione specifica del nostro rapporto stesso con la materia, con la sua capacità di presenza e significazione complessa: colore della materia, per la materia, tattile, corporeo, e insieme scorrente a una, condizione inoggettiva di percezione ed eccitazione intellettuale.
La piastra, la formella, diviene per lui l’ambito dell’identità specifica della sua esplorazione. Tiene della piastrella, della lastra di origine architettonica, e insieme del quadro, del topos della finzione spaziale e fantasticante: è dunque, per eccellenza, corpo plastico e superficie, senza soluzioni di continuità concettuale.
Il quadrato, il rettangolo, orizzontale e più spesso verticale (che rimonta al menhir, alla stele, allo schema stesso dello stare eretto, con tutto il suo valore d’archetipo, netto ma non esibito letterariamente), è la forma canonica su cui Pianezzola si concentra, in cui fa confluire il patrimonio delle nuove ipotesi e certezze.
Con asistematica regolarità, ne mette a nudo le ragioni strutturali, di condizione in forma ordinata, e quelle del colore, del suo essere a un tempo mozione costitutiva della forma, e evidenza autonoma.
L’iterazione modulare dei monemi iniziali si fa più ampia, variabile, si serra in tramatura fitta e uniforme oppure si distende in scansioni più vaste, dalle soluzioni coloristiche fondate su rapporti forti. In altri casi, non c’è intervento sul foglio di materiale, ma pura animazione della sua situazione planare, che si irrita, assume movenze che tendono, senza ansie di circolarità, al guadagno tridimensionale.
È, in queste esperienze, il nero il colore cui Pianezzola attribuisce la responsabilità di conferire presenza propria, introversa autonomia alla piastra. È un nero che si rialza lucido, orgoglioso d’una bellezza fisiologica, a eccitare ed esorcizzare a un tempo la luce; oppure opaco, di granulosa intimità materiale, a sottrarre ogni possibilità d’identificazione retorica della terra, a inferirne un intendimento come di materialità indifferente, astratta, ma di tale accertata specificazione da poter dialogare con altri colori-materia, per contrasto, per complicità, per simpatia.
Nero, e naturalmente bianco, a imprimere alle serie tematiche su cui l’artista lavora il passo d’una esclusiva fondazione plastica, al punto limite in cui la captazione sensibile che l’oggetto esercita è forte e precisa, ma insieme non affidata alle astuzie della gratificazione. Con il bianco, Pianezzola ha un rapporto più cauto, a tratti si direbbe sospettoso. È, in fondo, a differenza del più pregnante ma insieme neutro nero, anch’esso un colore di storia, per la ceramica, conosce le grazie della porcellana, la confidenza umile delle terraglie…
Oltretutto, in modo sempre più lucido, Pianezzola, che negli anni approfondisce un’attenzione più esotica per la ceramica orientale, dalla quale distilla non il repertorio infinito delle sottigliezze fabrili e piuttosto lo stacco silenzioso, intensivo, della sapienza antica della materia e del fare, avverte che la condizione pellicolare che ha designato alla base del proprio lavoro chiama inevitabilmente al confronto con la levità e la minimale abitazione spaziale della carta, del foglio. Pagine, prendono a essere le sue piastre. Ma non bianco, non teoricistico o preventivamente candido com’è nella tradizione nostrana, è il foglio che nasce nelle sue mani: se una metamorfosi concettuale e materiale sta lievitando, essa riguarda il grado di concretezza, la soglia di corporeità che l’esperienza mette in gioco: con le conseguenze, sul piano dei riferimenti operativi e culturali, più dirette.
Cartigli, rotoli, libri addirittura, intrisi di colori deidentificati e spossati, dimora di segni che abbozzano la gestualità primaria, il primario segnare alfabetico, prendono a crescere nel lavoro di Pianezzola. Sarebbe sin troppo facile accogliere la tentazione di un uso allusivo, letterariamente esplicito, di questa scelta. Ma il redoublement letterario, l’enigmistica intellettuale non appartengono alle corde dell’artista. Come per naturale emergenza, figlia della purezza antropologica che ha riguardato nei suoi coltissimi rimuginii, nella catena degli atti egli risente il punto germinale d’una vicenda storica tutta, se ne identifica per pura condizione espressiva: nei suoi gesti, si ridanno quelli dello scriba egizio, mediterraneo, la certezza aurorale del segno che fa essere la differenza, il senso.
Non è tuttavia un corso d’esperienza esclusivo, questo. Per contiguità, ad altre opere Pianezzola affida il compito di innescare il corso d’una plasticità sensibilmente forte, ma non invischiata in ragioni quantitative; d’autonoma forza di generazione, e d’evidenza, del colore, del colore materiato. Terre bianche, sottilissime, e rosse aspre, d’ispido carattere: e gradazioni infinite di bruno: e nero, oro addirittura, a sospingere la scala dei rapporti verso una più marcata artificiosità, un coinvolgimento più esplicito di filigrane colte.
Come già la figura del tondo nei piatti – che si fanno disco, scudo, e luogo d’offerta – nelle piastre è il canone stesso del quadrato, il suo possibile formale, il punto d’innesco della ricerca. Renitente allo schema facile della croce, delle diagonali, Pianezzola trova, nello scandirsi delle zone colorate, condizioni d’assetto di rarefatto, puntuale equilibrio: l’appoggio ottico alto, la collisione di rettangoli inscritti, e, più ancora che l’interna geometria strutturale, un concentrato lampo cromatico, una brusca variazione percettiva, come un bagliore tettonico.
Oro e rosso, oppure, in certe realizzazioni recentissime, un aggetto qualitativo, come la testa d’un chiodo dagli opachi lucori. La partitura cromatica tutta ne esce eccitata, posta in risonanza forte, rialzata alla condizione cruciale d’una lettura indisgiungibilmente superficiale, di clausola pittorica, e contemporaneamente d’accertata, e pulsante, fisicità.
La fattura vi è, come in passato, brusca, d’apparente risoluta corsività, affidata a un armamentario tecnico che rifiuta, sempre più consapevole, le superfetazioni della grazia, del decoro compiacente. Un’esteticità forte, però, se ne sprigiona come in forza propria: non obiettivo perseguito, non conseguenza eventuale, ma certificazione d’un pensiero del fare che si conosce purificato, terso, scrutinante e insieme affascinato: è valore connaturato, bellezza implicita alla generazione della forma, che trova la via legittima dell’avvenire al mondo.
Negli ultimi anni, il versante di più stringente tensione analitica, di verifica dei momenti costitutivi la disciplina e di determinazione come sistematica di un’area di operatività e d’invenzione di preciso fondamento di senso, si è progressivamente riassorbito in scommesse di maggior ardimento formale e concettuale, e soprattutto di più distesa, proliferante plenitudine formale. Sono stele, lastre ancora ma di risoluta verticalità, e assertività spaziale cospicua, che prendono a ergersi tentando una dismisura sconosciuta all’ordinario della ceramica, per condizioni tecniche al limite del praticabile, benché come sempre non enfatizzate in evidenza, ma soprattutto per quel distanziarsi dallo spettatore, sottraendogli il compiacimento dell’assaporamento ravvicinato della materia, della ricchezza d’effetti sensibili che guadagnano loro una appagante tattilità. Sono, questi individui plastici d’autorevole presenza, per usare un’antica felice distinzione tutt’altro che impertinente, della natura del totem anziché di quella dell’amuleto, corrispondenze non complici, non mentalmente possedibili e padroneggiabili dal riguardante. L’occhio non ne corre, pascolando, la superficie, con la rilassatezza che coglie le variazioni minime di colore, di pastosità della superficie, gli involvimenti sottili della luce. Ne misura, invece, l’impatto profondo, la demarcazione tra lo stare al suolo e l’impennarsi verso il cielo, con brusco carattere, per primarietà d’architettura.
A fianco, nascono per fitta seriazione altre lastre, congruenti al palmo della mano, come antiche tavole scrittorie, la cui vocazione alla verticalità è meno dichiarata ma non meno netta: il colore vi si impregna marezzandosi, alitando tracce, irritandosi di sabbie e accidenti, serrato tutto intorno a un nucleo equilibrante, d’espansiva forza strutturale.
Sono, queste, le opere in corso di Pianezzola, i motivi tematicamente distanziati ma problematicamente centrali attorno ai quali esercita la propria notomia inventiva, la propria ricerca d’una bellezza naturale, connaturata alle forme. Lontana dalla disciplina, dalle definizioni, dalle preoccupazioni nominali. Essenziale, fertile, libera.