De Dominicis in 632 numeri, in “Il Giornale dell’Arte”, 311, Torino, luglio-agosto 2011

“Io non ho mai esposto un mongoloide. Ho creato invece un’opera dal titolo Seconda soluzione di immortalità: l’universo è immobile composto da alcune opere che erano poste davanti al sig. Paolo Rosa”. Così, nel settembre 1995, sul “Giornale dell’Arte” Gino De Dominicis (1947-1998) consegnava a Franco Fanelli un saggio dell’atteggiamento che ne ha fatto una delle figure più complesse e controverse del dopoguerra italiano.

De Dominicis, Zodiaco, 1970

De Dominicis, Zodiaco, 1970

Il caso è noto. Alla Biennale del 1972 la sua installazione creò uno scalpore mediatico senza pari, provocando l’intervento delle autorità e facendo improvvisamente dell’artista, son malgré, una figura di sulfurea notorietà.

Eppure De Dominicis non era uno che giocava a stupire. Il suo lavoro, piacesse o no, non ambiva al riconoscimento mondano e mediatico. Aveva in orrore il sistema dell’arte, il far mercato delle opere, le classificazioni critiche. Anzi, una delle componenti del suo agire in seno all’arte contemporanea riguardava proprio il porsi in contraddizione con i protocolli del compound artistico, dei suoi vezzi e vizi, colpevoli di immiserire l’arte distogliendola dall’unica sua ragione, il tentativo di calarsi al fondo autentico delle grandi questioni, l’assoluto, l’invisibile, il tempo, il senso, il vuoto.

Teneva deliberatamente in tensione critica il rapporto tra atto artistico e dimensione biografica, così come quello tra l’opera e la sua riproduzione fotografica, e rifiutava sistematicamente che foto delle sue opere fossero oggetto di pubblicazione. Due soli cataloghi hanno accompagnato, lui vivente, le sue personali: nel 1970 all’Attico di Fabio Sargentini, su iniziativa del gallerista, e nel 1998 alla mostra modenese da Mazzoli. In quest’ultimo caso si trattava di una serie di foto dello studio abitato dalle opere, e l’artista comunque si impegnò assiduamente a ridurre al minimo la circolazione della pubblicazione, distruggendone il maggior numero possibile di copie.

Lavorava su un tema declinandolo anche ossessivamente, senza che ciò, d’altronde, minasse per lui l’unicità potente, sapienziale, dell’opera, di ogni opera.

Ora Italo Tomassoni, sodale d’una vita e custode critico del complesso lascito dell’artista, ne pubblica il catalogo ragionato, edito da Skira. Che è impresa, va detto subito, tanto doverosa sul piano storico quanto estranea – e il curatore ne è ben consapevole – allo spirito che animava l’artista. Ma restituire una dimensione documentaria e di conoscenza a De Dominicis era doveroso, raccogliere e ordinare – per quanto sia possibile allineare con raziocinio una congerie di materiali intellettuali e operativi indifferenti a questioni di cronologia e di evoluzione – le opere che ne hanno segnato la vicenda, era ormai necessario.

De Dominicis, Senza titolo, 1985

De Dominicis, Senza titolo, 1985

Dunque, i 632 numeri di catalogo mettono in fila tutta quella che può esser definita a pieno titolo l’opera di De Dominicis, dai disegni del 1962 che ne vedono gli esordi ancor incerti sino alle opere della mostra del 1998, passando per capisaldi come il Cubo invisibile e Asta in bilico del 1967, il Tentativo di volo, 1969, Il tempo lo sbaglio lo spazio, 1969, scheletro umano che annuncia quello, gigantesco e disumano, della Calamita cosmica, 1988-1989, la serie legata alla sorgiva mitologia sumera.

De Dominicis procede per scacchi continui al senso, per ellissi e spostamenti che deliberatamente sottraggono l’opera alle abitudini e alle aspettative e costringono, primariamente, lo spettatore a guardare. Guardare, cioè attivare meccanismi critici di sguardo, e una catena di pensieri che ordinari non possono essere intorno alla visione, all’immagine, alla corporeità, a ciò che essa invera irrompendo nella catena dei saputi.

In un tempo in cui il meccanismo primario dell’artistico è il riconoscimento, con il corollario del protagonismo autoriale e dell’amministrabilità del lavoro, De Dominicis si fa figura indefinibile e sfuggente, ma mette ben al centro la qualità di ognuna delle sue opere, ogni volta straniante e straniata.