Per Giuseppe Spagnulo, in Giuseppe Spagnulo. Terra e fuoco, catalogo, Palazzo Pretorio, Cittadella, 1 ottobre – 18 dicembre 2011

La terra e il ferro. Materiali atavici, con implicazioni simboliche di sottile ricchezza. E la forma. Che non è mai ragionamento della forma, ma sempre esperienza totale, ultimativa, estrema: dubitante e viva.

Da sempre Giuseppe Spagnulo ha fondato il proprio lavoro su un rapporto agonistico con il materiale, come avvertendone e penetrandone l’opaca resistenza alla trasformazione artificiosa e da ciò muovendo per violarne l’intimità passiva, sino a farne l’ambito appropriato del dramma del senso, dell’umore probabile d’immagine.

Spagnulo, Labbra, 2001

Spagnulo, Labbra, 2001

Il suo è un approccio vitalistico al fare, come una purificata combustione energetica.

Figlio appropriato della miglior cultura autre, egli assume l’esperienza scultorea come scambio pienamente fisicizzato con la materia, in cui non è luogo per schiarite o estenuate premesse teoriche e precognizioni disciplinari, in cui più non ha spazio la demiurgia arrogante del faber, in cui, soprattutto, non può esercitarsi alcuna logica di progetto e il fare si rastrema a un qui e ora di stupefatta violenza, d’esito impreveduto: ove la scultura sia ancora, martinianamente, “grembo plastico”, ma in quanto atto primigenio di modificazione e di eversione, che travasi tensione intima più che assetti preventivati e imposti.

L’artista sfida il materiale a suscitare da se stesso, e far affiorare in carattere determinante, la propria recondita fisiologia, la propria qualità primaria, la propria vocazione indomabile a non essere altro che, comunque, materia. Si pone in consonanza, in un rapporto di auscultazione e scambio complesso che conosce il brivido di eros e l’ultimatività stremata di thanatos: vita della materia, prima e oltre la vita delle forme.

Spagnulo, Diagonale, 1974

Spagnulo, Diagonale, 1974

La terra, il ferro, sanno – e Spagnulo sa– la propria corporeità incoercibile, e tutta la restituiscono nell’opera: che non è forma ma evento formale, non metamorfosi ma trasformazione, non equivalenza plastica ma manifestazione ancestrale della sostanza.

Il cui respiro premente, ansimante, la cui fastosità impura, non sia la sindone dell’animo dell’artista, un traslato della sua azione, ma carattere proprio, asserzione non impassibile della modificazione che ha generato senso, dopo l’esperienza di plenitudine del processo.

Nella catena bruscamente essenziale di atti forti che in Spagnulo incarna ogni volta, opera dopo opera, la scommessa totalizzante che egli intrattiene con la materia, passa il suo rimuginio complesso sulla questione della forma.

Una forma che è, né altrimenti potrebbe essere, connaturata alla sostanza stessa e ad essa intima. D’umore biologico, con voglie lontane d’aroma originariamente vegetale e antropomorfo, quando sia la terra a dirsi, o l’oscura mistione di sabbie e ossidi che si fa concrezione fluente ma irritata che abita le opere su carta, veri e propri “doppi” sculturali in cui la bidimensionalità si fa concrezione corporea, dramma plastico che viola l’aspettativa convenzionale della forma/quadro per farsi costituzione fisicamente autonoma: anch’essa, a ben vedere, a pieno titolo scultura.

Oppure d’una geometria non astratta, non metafisicamente separata ma vivente di cesure nette e stress tensionali, di volumetrie taglienti e di deformazioni violente, quando il rapporto sia con la gravità e l’intimità non penetrabile e riottosa dell’acciaio.

I decenni delle esperienze prime e della maturazione di consapevolezza identitaria della scultura di Spagnulo sono d’altronde quelli di nuovi sogni di costruttività possibile, bauhausianamente ripensata, dopo l’eteroformalismo autre, e per altri versi dell’objecthood icastica della minimal, in cui lo schema geometrico tende a farsi sostituto del senso, puro meccanismo relazionale tra istanze materiali e spaziali prive programmaticamente di qualità propria.

Spagnulo, Baalbek, progetto, 2006

Spagnulo, Baalbek, progetto, 2006

Ma Spagnulo ha visto Fontana conoscere le vie d’un diverso primum formale e spaziale nelle Nature, ha visto David Smith montare tra fuoco e leggerezza i propri “poetic statements”. Sa da sempre che la scultura è presenza modificante e necessariamente straniata, che convoca lo spazio non lo ordina, che lo aggredisce e, sola, lo rende luogo radiante.

Sa, soprattutto, che la scultura vive della sua stessa tutta interna, irrelata capacità generativa: come la musica degli amati Schönberg, sulle cui Variazioni op. 31 ha ancor di recente fruttosamente riflettuto, e Luigi Nono, sodale d’una vita; come la letteratura che perdendo narrazione ha ritrovato forza mitica; come il teatro che s’è spogliato degli abbigliamenti è s’è fatto evento urticante.

La possibilità della scultura d’esser moderna, di valere ancora nel tempo attuale delle troppe svuotate iconografie, è di rimontare all’inattualità sorgiva del suo commerciare con il mito, con il sacro, con il luogo, con la luce. Questo è ciò che Spagnulo ritiene non solo incontrattabile, ma fondante perché scultura sia.

Ecco dunque la primarietà arcigna e fremente dei suoi corpi plastici irrompere e far essere lo straordinario, il primario. Non farsi immagine ma pronunciare luogo, non esplicitare ma far mito, e attraverso la memoria della forma e la ritualità atavica del fare, senso in odore d’assoluto.