Il dipingere fiero e sensuale di Artemisia Gentileschi, in “Corriere del Ticino”, Lugano, 6 ottobre 2011

È stata Anna Banti, caso rarissimo di grande scrittrice insieme valente storica dell’arte, a edificare il primo mito di Artemisia Gentileschi. Era il 1947 e Banti, che pochi anni prima aveva pubblicato Il coraggio delle donne, fa di Artemisia il manifesto commosso di una vita femminile orgogliosa ed esemplare in tempi difficili: tanto quasi da far scordare che il marito Roberto Longhi aveva dedicato ai Gentileschi un saggio fondamentale già nel 1916.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620-1621

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620-1621

La mostra che oggi la celebra a Milano (Palazzo Reale, sino al 29 gennaio 2011) non può prescindere dalla sua complessa biografia. Figlia di Orazio Gentileschi, gran pittore che passa da uno stanco manierismo alla prima cerchia caravaggesca portandone il nuovo verbo naturalistico e drammaticamente luminoso in giro per corti europee, in specie Parigi e Londra, Artemisia cresce alla bottega del padre, il quale in alcune grandi imprese a fresco, come il Casino delle Muse per il cardinale Scipione Borghese, si affianca Agostino Tassi, valente pittore di prospettive classicheggianti. Artemisia denuncerà il Tassi per stupro, avviando un celebre e controverso processo (tutti gli atti del quale sono stati raccolti e pubblicati da Eva Menzio nel 1981) che per la prima volta vede una donna difendere con forza i propri diritti contro la protervia maschile: è ciò che ne ha fatto, nei decenni vicini a noi, una figura di riferimento del movimento femminile, oltre che una figura romanzesca di altissimo profilo drammatico.

Non può prescindere da tutto ciò, la mostra, ma vuole offrirci soprattutto una lettura di una figura artistica primaria di un tempo, i primi decenni del Seicento, in cui l’arte italiana ancora primeggia in Europa, prima che altre scuole prendano il sopravvento: quasi coetanei le sono sintomaticamente Poussin e Velázquez e Rembrandt, per intenderci.

Il fatto che una donna cresca in una bottega e diventi valente pittrice in realtà non è una gran rarità: Sofonisba Anguissola e Fede Galizia, Barbara Longhi e Lavinia Fontana, per fare qualche esempio, in quegli stessi decenni compiono carriere non banali.

Ma Artemisia è pittrice grande, a tutti gli effetti primaria, sin dai primi anni romani in cui si abbevera direttamente alla fonte di Caravaggio, e in cui il suo si fa, scrive Banti,  un “dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada”.

Di questo tempo è la prima versione di Giuditta e Oloferne, esemplare scena biblica di decapitazione di cui Caravaggio aveva nel 1599 dato un gran modello, cui altre ne seguiranno negli anni, e che alla luce delle sue vicende personali ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, non sempre a proposito.

Artemisia Gentileschi, Maddalena, 1617-1618

Artemisia Gentileschi, Maddalena, 1617-1618

Poi, nel 1613, ecco Firenze e la protezione della corte medicea, per la cui cerchia lavora a commissioni importanti. Nasce un’altra versione della Giuditta, 1920-1921, per cui Longhi scrive di un’artista dall’“impassibilità ferina” che veste una tragedia efferata in una scenografia sontuosa, con Giuditta abbigliata in “un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo, dopo Van Dyck”.

In effetti l’artista comincia progressivamente a mediare il proprio luminismo visionario con un ritrovato classicismo, cui forse non è estranea l’amicizia con il sofisticato e pignolo Cristofano Allori e in genere con un ambiente cortese d’alto livello. Artemisia ha una bottega indipendente, vive quasi sempre adeguatamente delle commesse che riceve, segno che il riconoscimento da parte degli ambienti artistici e del gusto è fatto compiuto.

Vengono in seguito il trasferimento a Roma, e poi ancora nelle altre capitali culturali italiane, Venezia e Napoli, città dalla quale si allontana nel 1638 raggiungendo il padre a Londra, per poi farvi definitivo ritorno.I quadri della sua maturità – in cui gode del rispetto di grandi colleghi, da Simon Vouet che ne dà un celebre ritratto a Massimo Stanzione – sono spesso di bellezza struggente, in perfetto equilibrio tra sensualità dello sguardo e una sorta di ambigua, sottile ritrosia formale.

Artemisia ha un talento naturale di colorista, con punte di virtuosismo talora esibito, e fonda il proprio disegno sulla capacità di mediare le bruschezze caravaggesche con un solido impianto classicheggiante e con una sorta di innato lusso dello sguardo. È una grande artista, ne è perfettamente consapevole, e ritiene normale e doveroso che il mondo dell’arte riconosca il suo valore. In questo, soprattutto, sta il suo contributo pionieristico alla causa femminile.