“L’ora dell’Italia”, in “La rivista bianca FMR”, 4, 2008

“Lo scopo è uno solo, e su di esso sono tutti d’accordo oggi in Italia: far sì che l’arte italiana torni ad essere un valore internazionale quale oggi non è… Se vogliamo primeggiare in arte, bisogna che il nostro gusto sia più avanzato di quello delle altre nazioni, più moderno perché più vivente; bisogna che i nostri artisti cresciuti nel gusto più avanzato ne siano padroni con il loro genio, lo rendano italiano, e lo impongano come italiano nel mondo”. E’ Lionello Venturi che scrive, e il tempo è il 1927: questo suo Problemi d’arte, uscito nella rivista fiorentina “Leonardo”, sta a indicare quanto, ben al di là delle più prosaiche rivendicazioni di nazionalità esacerbate dal fascismo, la questione di un’identità italiana moderna sia avvertita anche in ambiti ben lontani dalla retorica ideologica.

Oppi, Tre bagnanti, 1927

Oppi, Tre bagnanti, 1927

Il clima europeo, è ben noto, è contraddistinto dal rappel à l’ordre che segna la fine dell’avanguardismo oltranzista d’anteguerra e dalla ricerca di un ordine formale ulteriore, che taluno s’azzarda a indicare come classico ma molti, e da posizioni ben differenti, tentano di ascrivere non a protocolli passatisti, bensì a una sorta di ultimativa, delucidata consapevolezza moderna. Su tale clima molto s’è scritto ed esposto, dalla memorabile “Les Réalismes” al Centre Pompidou, 1981, a “On Classic Ground” alla Tate, 1990. L’importanza dei modelli di Cézanne, della metafisica dechirichiana, del Picasso “italiano”, ribadita sino a farne luogo comune. Su ciò non occorre tornare.

Ma sulla questione identitaria, sul progetto di un’italianità possibile, si è in genere largamente glissato, troppo incombente su quel tempo essendo l’ipoteca della politica del regime perché si potesse sceverarne altri motivi che non fossero quelli tout court nazionalistici.

Eppure il Boccioni ultimo, il Severini pitagorico degli ultimi anni Dieci, il Carrà del passaggio cruciale a “Valori Plastici”, ben al di fuori di quell’ipoteca hanno offerto e offrono, a uno sguardo smagato, più d’una ragione per immaginare il pensiero e il grumo di progetto di un’arte che, sottratta al cosmopolitismo generico delle avanguardie storiche, trovi la propria ragion d’essere in una operazione intellettuale che non preveda il rinchiudersi nelle calde serre dell’auctoritas della tradizione, ma il fondare ben salde radici in un “essere italiana” che la necessiti: moderna perché viva e pulsante, e perché orgogliosamente erede nell’oggi dello spirito, della tensione, dell’altezza, dell’antica.

Dudreville, Studio di carattere, 1921

Dudreville, Studio di carattere, 1921

Quando Mario Sironi, Achille Funi, Luigi Russolo e Leonardo Dudreville firmano nel gennaio 1920 Contro tutti i ritorni in pittura. Manifesto futurista, è appunto in ambito futurista,  non solo per rivendicazione dei propri precedenti artistici ma anche e piuttosto di prosecuzione in senso evolutivo dell’esperienza d’avanguardia, e dell’esperienza per eccellenza che ha stabilito un primato italiano nel contemporaneo, che intendono collocare le proprie affermazioni. “In nessun momento della storia della pittura italiana si trova un vero e proprio ritorno all’imitazione di epoche precedenti. Tutti i grandi pittori italiani furono assolutamente originali e novatori”. Dunque, il loro percorso non è il richiamo all’antico, l’elogio dell’imitazione come appare nell’esperienza di De Chirico e di Picasso (Marinetti in quegli anni sbeffeggia la “vigliaccheria di Picasso che torna a Ingres”), ma qualcosa di diverso, un superamento per sintesi e differenza: ciò che proprio l’Italia ha reso storicamente possibile e donato al mondo già una volta, facendo dell’antico la nourriture dell’autonoma perfezione e del sublime moderno del Rinascimento.

Quando, nel manifesto di Sironi, Funi, Russolo e Dudreville si legge di “costruzionismo fermo e sicuro”, quando vi si dichiara che la via maestra è quella della sintesi, non vi si smentisce il precedente del sintetismo futurista, ma si afferma che da esso, e solo da esso, si può muovere verso certezze definitive non debitrici del passato: “Il futurismo, avendo superato il periodo della rivelazione della sensibilità moderna formidabilmente vitale, vasta e profonda, si pone il problema di definire lo stile, concretarne le forme, crearne le ideali sintesi definitive. Per tale opera, il genio italiano appare il più potentemente dotato”. In altri termini, scrive altrove Dudreville, “si vuol riassumere, cogliere, cioè, l’essenza spirituale emotiva delle cose”, e ciò “per effetto di plastica diretto ed immediato”, ovvero operando sul visibile e decifrandone la ratio costituitiva proprio come era avvenuto nella grande stagione rinascimentale, e come oggi è nuovamente possibile che sia.

In altro momento, probabilmente, queste affermazioni potrebbero intrecciare utili scambi problematici con le affini esperienze dei Jeanneret e degli Ozenfant, i quali vogliono “tout recommencer à zéro” rispetto all’“art trouble” del cubismo, occorrendo ora “retenir et exprimer l’invariant”, come si legge in Après le cubisme, 1918. Ora non è possibile. Ora, ciò significherebbe ammettere comunque una discendenza da Cézanne, che in questo momento è avvertita come distraente, e soprattutto accettare – e ciò sarebbe addirittura sciocco e antistorico – un ipotetico primato di quella che i colleghi rivendicano come “ligne française”, che da Poussin porta a Seurat attraverso Ingres e Corot e della quale i puristi d’oltralpe dichiarano l’autorità.

Sironi, L'allieva, 1924

Sironi, L'allieva, 1924

“Noi abbiamo Giotto, Masaccio, Raffaello; la Francia ha i Poussin, gl’Ingres e i David”, perché la pittura francese è “più dotata di cerebralità che di potenza plastica”, e perché, nel “suo eccessivo chauvinisme” non annette alcun valore al futurismo. Ciò è imperdonabile, perché storicamente l’arte italiana, essa sola, ha nella sua stessa identità storica la condizione per essere originale e competere con l’antica, mentre quelle delle altre nazioni sono dannate a mere esperienze derivative. In ogni caso è ancora Venturi ad avvertire: “Oggi si chiede che non si imiti nessuno: non Cézanne, ma nemmeno Raffaello. Il fatto che Raffaello sia una gloria italiana e che Cézanne sia una gloria francese, non impedisce questo: che imitare l’uno o l’altro sia negarsi all’arte”.

Va detto che, per alcuni anni, ciò che Margherita Sarfatti variamente teorizzerà come il “Novecento italiano” muove da questo progetto, anche a costo di scontarne la filigrana volontaristica e utopica più di quanto forse sarebbe lecito. Sia il gruppo sorgivo di autori del movimento, ovvero Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, sia la compagine più allargata che dalla metà degli anni Venti affolla le mostre novecentiste, paga rispetto alla misura delle ambizioni una qualità media non adeguata all’alto sentire. Il solo Sironi, oggi sappiamo, avrebbe statura internazionale tale da renderlo un’effettiva alternativa possibile al classicismo di De Chirico, Carrà e compagni: ma la sua franca adesione al fascismo (ancorché venata di fumi anarchici e di un pathos a lungo impercepiti) renderà per molti decenni l’intendimento della sua opera, il valore d’italianità che da essa emana, non valutabile fuori da oggettive e inevitabili clausole ideologiche. Negli altri, il rifiorire di un certo gusto Ottocento, soprattutto nell’affermazione orgogliosa della tecnica e della disciplina, e l’aggallare per mille vie di una nostalgia dell’antico non sempre padroneggiata lucidamente, porta a risultati non confrontabili con le premesse teoriche da cui si generano.

A proposito di classicismo implicito, e di un’auctoritas che anche involontariamente trapela da questo voler essere italiani assolutamente moderni, è proprio Sarfatti a scrivere di Funi, nella sua Storia della pittura moderna, che egli è “pittore della dignità severa e della nobile povertà”, che è quasi parafrasi della “nobile semplicità e quieta grandezza” dell’aborrito Winckelmann. E non è possibile non vedere, proprio nel severo maçonner di Funi, che i propositi di “costruzionimo” sono ben più fabrili che concettuali, in un per altro struggente trasognamento rinascimentale (“Il suo sogno rievoca quasi il platonismo della rinascenza”, scrive di lui nel 1929 l’attento Vincenzo Costantini), così come è un amore sviscerato per l’antico a guidare, ben più di qualsiasi fremito moderno, un Bucci o un Oppi. Tenace, lucida, Sarfatti costruisce una letteratura tra teorica e militante il cui specchio unico sarà, alla fin fine, il solo Sironi. In una Lettre d’Italie pubblicata nel 1930 nella parigina “Formes”, la scrittrice così sintetizza: “La noblesse du style, la haute géométrie de la composition, la recherche de la ligne, de la forme définitive et de la couleur harmonieuse, voilà des notions oubliées ou bafouées qui retrouvent leur ancien prestige. L’heure de l’Italie semble donc venue”. Tali enunciati si ritrovano, in sintesi alta e perfetta, in alcune delle prove più strepitose di Sironi. L’architetto, 1922, L’allieva, 1924, Solitudine, 1926, sono opere di quella che genialmente Aldo Rossi, architetto ammiratore di Sironi, ha indicato per lui come “diversa modernità”: capace di rapprendere la misura antica, la sacralità disincantata del sacro artefice, per edificare con ferrea legge compositiva e concettuale un paesaggio di suburbi e di gasometri, “architetture senza tempo – scrive ancora Rossi – che, a dispetto del programma, solo un futurista ci poteva dare”. Aldo Rossi, cioè uno dei rari autori che, nel tempo ultimo del secolo scorso, di quella “diversa modernità” siano stati capaci.

“L’ora dell’Italia”, invece, passò per Sironi e per tutti senza lasciare traccia, affogata nella poltiglia culturale fascista.