Sangregorio
Giancarlo Sangregorio, catalogo, Palazzo Sertoli, Sondrio, 13 maggio – 28 giugno 1997
“Questa che ti torna, che non sai, che tace, / questa che a volte è il metodo e a volte l’intervallo, / l’ombra, l’impronta, il taglio nella roccia / e il muschio come idea, / pensiero sensuoso che riaffiora. / Ma come si comporta il labirinto / quando lo affronti intercettando il logos / dentro l’albero, o il tempo, che è lo stesso / se pensi al suo disegno, all’acqua chiara / che lo corrode senza pentimento. / Questa e altre cose fra serpente e luna / poi si vedranno, dentro e fuori, al modo / che si riscrive il vecchio manoscritto”.
Così recita Questa e altre cose (a Giancarlo Sangregorio) di Roberto Sanesi (1), compagno di via importante d’una generazione tutta della “scuola milanese” che, tra anni Sessanta e Settanta, soprattutto in scultura ha dato corso a picchi di qualità e di dibattito che figurano tra le cose più importanti del dopoguerra europeo.

Sangregorio, Boomerang blu, 1994
Di quella “scuola”, di quel clima, Sangregorio è stato insieme personalità eminente e affatto appartata, nel senso d’una contemporanea centralità nella partecipazione all’elaborazione della nuova lingua plastica, e d’un orgoglioso, ostinato, comunque istintivo individualismo di ricerca, poco propenso ad acquattarsi nel teatro cultural-mondano dei compounds, dei proclami stilistici, delle pasticcerie formali.
Milanese di nascita, ma montanaro roccioso per carattere divenuto scelta, Sangregorio deve questa sua propria fisionomia alla protostoria della sua maturazione artistica, la stagione che si svolge dagli anni Cinquanta sino alla metà dei Sessanta.
Le aule di Brera, il magistero carismatico oltre che stilistico di Marino, i continui e reiterati frissons della polemica tra realismo e formalismo innestata su un sostrato di cultura ufficiale con nostalgie d’accademismo ottocentesco (2)… è in seno a tale ambito che le prime prove di Sangregorio, fondate su un antropomorfismo eccitato e scavato sino alle soglie della lacerazione formale, si annunciano come prove d’un talento inquieto, poco incline a sottomettere le ragioni nude dell’espressivo a conclamati valori eteronomi. Talento e qualità, s’intende, da subito riconosciuti, visto che le tappe prime del suo cursus honorum toccano gallerie cruciali in Italia, dalle milanesi Colonna, Sole, Pater, Ariete, Levi, Blu, alla torinese Bussola, e in Europa, da Smith, Bruxelles, al Kunstverein di Colonia; ma che ancora attendono di distillare definitivamente i propri più specifici caratteri, come la seconda metà dei Sessanta si incarica di esplicitare.
Sangregorio sin dagli inizi ha scelto di confrontarsi parimenti con il dibattito intellettuale e con le ragioni oscure e fascinose del mestiere della scultura: che non sono, naturalmente, la retorica dello scalpello e della fatica, e la letteratura michelangiolesca della bellezza in sé flagrante dei materiali e della virtù demiurgica dell’autore – letteratura che pure ha molto credito, in quel tempo; bensì un senso come antropologico di identificazione sorgiva di quel fare, e delle sue ragioni.
Cave e scalpellini non rappresentano, al suo approccio umile e schietto, l’esotismo un po’ eroico del quale sovente ci si fa scudo, ma i topoi, che occorre distillare, d’un approccio diretto, di virile affettività, alla ragione primigenia del formare, e del prender forma; d’una organicità che si sappia prima ancora di pretendersi e proclamarsi, perché congenita senza infingimenti al sentirsi essere della natura, e nella natura: la montagna, l’albero, la casa…
Meno confidente con la ceramica, nonostante una non superficiale consuetudine, Sangregorio ritrova la sua ragione della scultura nelle pietre meno nobili, siano l’arenaria o la pietra ollare, e nel legno: materie che appartengono alla storia del fare dell’uomo più che a quella codificata dell’arte; materie nei confronti delle quali il gesto è costretto a interrogarsi, al termine del viaggio della docta ignorantia.
Che è ragione antropologica perché primariamente ragione mitica, come ben avverte Giuseppe Marchiori in una lettura fondamentale, intuendo che lo schema del rozzo menhir possa portare l’artista, alle soglie della maturità, verso modalità non preventivamente estetiche, quindi di più turgida immediatezza espressiva (3).
Ciò che in Sangregorio era già “trattamento diretto della materia, dura e serrata”, come indica una precoce interpretazione di Raffaele Monti (4), diventa intento di amplificare l’espressività fisiologica dei comportamenti e degli stati delle materie sino a conferire loro una sorta di duplice e connaturata intensità, d’esistenza propria e simbolica.
I gangli scabri di legni forti – noce, cedro del Libano, rovere – e le superfici ora aspre ora polite dei graniti segnano, alla fine dei Sessanta, il raggiungimento di questa maturità. La struttura si fa immagine come riverberando le modalità elementari del costruire (i “rozzi menhir” s’impossessano della sapienza antica del costruire: quella, per intenderci, che ancora si legge nelle case e nei manufatti Walser), per aggregazioni forti e montate sul bilanciamento di squilibri non virtuosistici, quasi eccitando valori claustrofobici di massa sino a designare una sorta di introversa monumentalità: Et elucet natura profundi, Dal di dentro, titolano programmaticamente due opere di quel tempo.
Annota Robert Stoll, nella lettura più circostanziata del lavoro di Sangregorio: “Sangregorio figures with such names as Marino Marini, whose concatenation of rider with animal are the firm answers to the question how bodies become tense in space. Or Lorenzo Guerrini, with his primitive stone images. Or Mario Negri, who is also a part of the new school of Milanese artists, with his large figures that are reminiscent of Menhir groups; and the younger Francesco Somaini, who is working in iron. They have left behind figurative shapes and turned to a deep enrichement of the archtypes of myths and symbols” . Dal canto suo, più avanti nel tempo, Marco Rosci dirà di “una sorta di elementare, preistorica sacralità” (5), variamente declinantesi nelle stagioni di Sangregorio.
E’ un senso genetico della forma, e dell’organico, che certo più d’un riferimento dichiara verso il dibattito coevo sulla naturalità necessaria, e sulla figurabilità possibile; così come nei confronti del corso lungo del primitivismo riguadagnato dal nostro secolo. Ma, ciò è assai importante, da una posizione che rifugge la logica dell’aggregazione, e di quelle che Arcangeli indicava “opposte barricate”.
Così come la formazione in seno all’area del realismo ha valore solo propedeutico, altrettanto la condizione espressiva maturata è frutto di una identificazione d’autonome vocazioni, in seno a un dibattito del quale Sangregorio rimugina con nitore gli elementi, ma non è disposto ad assumere anche i limiti contingenti di milieu. I grandi legni, un po’ totem di scabra asserzione un po’ scene d’un narrare fratto e congelato, come nel fissarsi silenzioso del grido di tragedia greca (e gli inserti di vetro a pressare la materia grave sono l’elemento di suggestione che innesca la lettura prima, oltre che uno degli esperimenti di collisione materiale più lucidi dell’artista), conducono Sangregorio sulla via della reinvenzione d’una sorta di nuovo romanico. Il fissarsi duro della concitazione emotiva nell’agglomerato chiuso della forma, che par quasi distillare il racconto in puro schema simbolico; lo scambio tra la sostanza quasi fossilizzata dei legni, la superficie brusca delle masse di pietra, la politezza e il colore/calore dei marmi; l’evidenza monumentale che scandisce i suoi pieni e vuoti verso un intorno naturale del quale vuol parere un accidente geologico: e insieme, la sensualità pudica e orgogliosa delle stesse materie, e delle forme, che lascia trapela le una non dismessa voglia d’estetico… così, gli anni Settanta di Sangregorio. Sono, queste opere, lavori di forte identità, ma insieme, appunto, accidenti topologici del paesaggio: “ci capiterà di incontrarla proprio in luoghi inattesi”, la scultura, scrive l’artista (6): e luogo inatteso è la scultura stessa, sia il grande perno spazioso di Longobarda, 1980-1988, vero e proprio opus d’una stagione tutta, sia quello cadenzato da lesene e appoggi sottili d’una verticalità scoscesa, come in Figure-misure, 1989.
Nel corso del decenni Ottanta, e poi sino a oggi, Sangregorio pare seguire la via d’un rasserenamento espressivo, più attento al lavorìo degli squilibri continuamente bilanciati degli inneschi, al comportamento spaziale della forma, che alla capacità autonoma d’emanazione della materia e delle sue trattazioni superficiali. Più meditativo, asciutto: ancor più antiretorico, definitivamente antiletterario (7).
Lo schema di base è ancora quello dei luoghi fondamentali della struttura, dell’arte povera nella declinazione prima brancusiana, anni luce lontana dall’uso definitorio che poi se n’è fatto. Elementare, primaria: umile e potente, verrebbe da citare. Come affascinata, soprattutto, dall’immettere nel corso dell’esistenza forme diversamente necessarie, deviazioni che l’intelligenza e la meditazione provocano nel corso imperscrutabile dell’èra. Sentimento d’un tempo e d’un esistere decantato, infine, dei riverberi spurii d’una soggettività dubitante, disincantata della contingenza.
Sono, le sculture di Sangregorio, impronte, sempre, a segnare un passaggio, una ragione d’esistenza.
Né è casuale che proprio al tema dell’impronta degli abbia dedicato, dagli anni Settanta, una attenzione non banale, adottando la cellulosa a farsi veronica d’un segno, d’una identità plastica, intesa a sua volta come matrix: è generazione, ancora, è formatività naturale ragionata e purificata in evento. Le impronte sono uno dei modi plurimi del disegno di Sangregorio. Che è pratica fondamentale del suo atelier. La scultura di Sangregorio non si progetta: si coagula, per approssimazioni, fatte di ricerche critiche e contraddittorie d’assetti, di nervature genetiche di segni, di avvertimenti e assaporamenti quantitativi. Il disegno è il laboratorio di tale maturazione espressiva, che vale a ritrovamento graduale, progressivo, deliberatamente non sistematico e impreventivo, della condizione plastica fondamentale dal quale la scultura può originarsi, ritrovata la propria radice fondativa. Un disegno che è già scultura. Come la scultura è accidente consapevole della natura.
Note. 1. In R. Sanesi – E. Baj, Giancarlo Sangregorio, L’Agrifoglio, Milano, s.d. (ma 1993). Di Sanesi cfr. anche Il rovere e il granito (a Giancarlo Sangregorio), in L’improvviso di Milano, Guanda, Parma, 1969. 2. Cfr. F. Gualdoni con E. Longari, Milano, anni Cinquanta. Storie di figura, e in generale tutta la sezione L’officina milanese degli anni ‘50, in La città di Brera. Due secoli di scultura, cat., Fabbri, Milano, 1995. 3. G.Marchiori, Sculture di Sangregorio, Milione, Milano, 1967. 4. R. Monti, Sangregorio, Salto, Milano, 1959. 5. R.Th. Stoll, Sangregorio. Skulpturen, Raeber, Luzern, 1979; M. Rosci, Sangregorio, cat., Arpitesca, Casalbeltrame, 1991. 6. In Sangregorio. Sculture – disegni, cat., Pieter Coray, Lugano, 1979. 7. Sul decennio Ottanta, cfr. in particolare S. Crespi, Sangregorio. Sculture, cat., Casa Morandi e Il Chiostro, Saronno, 1990.