Inseguendo la lepre dagli occhi d’ambra, in “Il Giornale dell’Arte”, 311, Torino, luglio-agosto 2011

Edmund de Waal è un grande ceramista, e ora lo si scopre anche grande scrittore. L’“eredità di avorio e ambra” di cui egli narra è una collezione di duecentosessantaquattro netsuke giapponesi appartenente da generazioni alla sua famiglia.  Ninnoli perfetti, i netsuke raffigurano scene ordinarie, con arguta iconografia e una fattura artisticamente sofisticatissima.

Ma la storia che questi netsuke raccontano a De Waal non è fatta di piccoli aneddoti squisiti. È invece la saga stessa della sua famiglia, che l’autore dipana in un à rebours appassionato attraverso le generazioni.

Netsuke, collezione De Waal

Netsuke, collezione De Waal

Le fortune degli Ephrussi, ebrei industriosissimi, hanno inizio a Odessa, dove a metà Ottocento il capostipite si afferma come magnate del commercio internazionale di cereali e banchiere. I suoi figli si stabiliscono a Parigi e Vienna per espanderne le attività economiche. Ed è a Parigi,  per l’aulico palazzo di famiglia nella rue de Monceau abitata dal fior fiore dell’aristocrazia ebraica – dai Camondo ai Rothschild – e da grandi famiglie colte come i Cernuschi e i Caillebotte, che Charles Ephrussi mette insieme la raccolta, nel pieno dell’ondata di japonisme che soffia su Parigi. Charles non ama gli affari, ma si fa grande collezionista e uomo d’arte non banale. Acquista arte antica, fa da mecenate agli impressionisti – è per lui che Manet dipinge il Mazzo di asparagi, ed è lui la figura abbigliata di tutto punto nella Colazione dei canottieri di Renoir – e dirige la “Gazette des Beaux-Arts”, frequentando il mondo dei Proust e dei Montesquiou. Pur integratissimi nella Parigi che conta, gli Ephrussi parigini devono tuttavia sopportare l’ondata antisemita scatenata dall’affaire Dreyfus, avvisaglia di ben altre sventure.

Intanto le mode culturali di cui Charles è un arbitro cambiano, e i netsuke passano, in dono matrimoniale, nell’altro grande palazzo Ephrussi, sulla scenografica Ringstrasse di Vienna. Qui non sono esibiti con orgoglio, ché Viktor Ephrussi, il nuovo proprietario, ha deciso di farsi ricordare dai posteri piuttosto come grande bibliofilo.

Poi la storia precipita arrogante sulle sorti della famiglia. Il nuovo antisemitismo si fa tempesta, il nazismo s’impone e disperde la famiglia e i suoi beni. Sembra tutto finito, ma nel 1945 la figlia di Viktor, Elisabeth, scopre che Anna, la fedele domestica degli anni felici, non potendo salvare altro dai saccheggi e dalle requisizioni ha preservato proprio i piccoli, maneggevoli netsuke. Elisabeth, donna di legge e poetessa passata alla storia per un non banale epistolario con Rilke, li porta con sé nella nuova vita in Inghilterra, per poi affidarli al fratello Ignace, che decide di vivere i propri anni a Tokyo e riporta la raccolta al suo luogo d’origine: ed è lui, infine, a trasmetterla al nipote Edmund, l’autore di questa narrazione straordinaria, che la conduce con sé a Londra.

Ci sono libri che nascono perfetti, per una sorta di congiuntura forse irripetibile. Un’eredità di avorio e ambra è uno di questi. Il fasto dell’arte e del bel mondo culturale parigino e mitteleuropeo tra i due secoli trascolora impercettibilmente, inesorabilmente, nella tragedia: “all’epoca dell’Anschluss, vivevano in Austria 185.000 ebrei. Torneranno solo in 4.500”, annota De Waal.

Sono sopravvissuti i netsuke, e la memoria. Questo libro è un capolavoro.