Giulio Camillo Delminio, L’Idea del Theatro, 1579

E come credete voi, che ‘l perfetto autor, che ci debbiamo proppor­re, sia giunto alla perfezzione? Certo del suo non vi ha posto se non la natura e quel poco di bene che da un solo aspettar si può, e la fatica delle cose osservate e gentilmente insieme tessute nella com­posizione. Adunque le cose che per il detto autor furono osser­vate, erano di altrui: ché quel di buono, che venne a caso detto da que’ primi, fu osservato da chi ebbe giudicio; né avanti che tanti bei modi detti a caso fussero osservati, si trovarono tutti in un solo. Ma dapoi quelli che si dilettarono dell’artificio, andarono di secolo in secolo osservando; sì che trovandosi in mille rozi antichi mille bellezze disperse in modo che per aventura una sola in ciascun sola­mente fra molte tenebre risplendea, quella età finalmente venne, nella quale con l’aiuto di coloro che osservato aveano si poterono veder infinite osservazioni, cioè infinite perfezzioni insieme, le quai ad alcun perfetto ingegno furon norme tali che le perfezzioni, che prima erano disperse in molti autori, furon vedute tutte rilucer in uno solo. Adunque colui che imita un perfetto, imita la perfezzion di mille raunata in uno, e tanto meglio quanto in quell’uno essa perfezzione appar continuata, non in una sola parte della composi­zion composta, sì come in alcun di que’ primi autori veder si potea. Debbiamo ancor pensar che, non imitando noi alcun perfetto, ma noi medesimi, in noi medesimi non possa esser se non quel poco di bello che la natura e ‘l caso può dar ad uno. Et in questa buona openion ci dee confermar la nobilissima arte del disegno, sotto la qual cade la pittura e la scoltura, imperoché nissuna di queste giunse alla sua sommità, perché alcun pittore o scultore del solo suo ingegno si contentasse, o perché volendo lasciar alcuna opera perfetta, esso pigliasse la similitudine solamente di alcuna particolar persona; perché i cieli non diedero mai ad alcuno individuo tutte le perfezzioni, anzi il giudicio di Zeusi fu di più vergini coglier le parti più belle, e quelle accompagnò alla bellezza che egli si aveva formato nella mente, perfettissima disegnatrice di quei secreti, a’ quali né la natura né l’arte può pervenire. Né dal giudicio di Zeusi debbiamo noi divenir presontuosi nel levar da molti le parti più belle, sì come fece Cicerone, o alcuno altro perfetto, perché questa fatica in tutte le generazioni dello stilo esso di avercela adom­brata promette, che Zeusi non fece se non in quella che una bel­lissima giovane rappresentar potea […]

E se li scultori e pittori del presente secolo avessero non pur l’imagine di Zeusi, nella quale si vedeva quel che conveniva ad una giovane, ma tutte le perfezzioni de’ simulacri, da’ quali potes­sero coglier tutte quelle parti le qual convenissero a finger non pur l’uomo, ma tutti gli altri animali, sì come abbiamo noi tutte le parole accommodate come mollissima cera a cader sotto qualunque sigillo di tre maniere di dir divinamente trattata da Cicerone e da ciascun altro perfetto, sarebbono di quella fatica liberi, della qual siamo noi. E se questi medesimi scultori e pittori, mentre voglion far una figura, più tosto si contentano di pigliar la imitazion da una statua antica fatta da alcun grande artefice, che da molti individui fatti dalla natura, ne’ quai le bellezze non sono unite, e non è poco quando in ciascun se ne ritrovi una, percioché nella figura antica del perito artefice si veggon già tutte le belle cose unite; perché debbiamo noi, potendo levar la imitazion da un perfetto in tutto quel che l’uomo far può, o di nostro capo voler ritornar a que’ principii, ne’ quali ha fatta già la fatica quel perfetto autore o levar ancor le parole di coloro che nell’imperfetto secolo scrissero, o so­lamente rappresentar quella picciola bellezza che la particolar no­stra natura avesse avuta dal cielo? Certo in tanto error non può cader se non colui che non ha giudicio di bellezza né di bontà e piglia confusamente ogni cosa per bella e buona. Questo tale, così come non vuole il giudicio de’ presenti né de’ passati, così ancor poco pensa a quelli che seguiranno, i quali saranno forse più fa­stidiosi nel volersi contentar, che non sono i presenti  […]

Credo a bastanza aver dimostrato l’imitazion d’un perfetto dover esser tenuta, e la openione di quelli esser vana, che la negano: imperoché non posson metter parole insieme del tutto equabili, né del tutto belle. E perché in questo negocio dell’imitar costor si van­no implicando, or dicendo esser cosa impossibile, or non esser fa­tica da prendere, ma che da tutti si dee pigliar quel che si ci mette davanti, et alcune altre vanità, nelle quai confondono le parti della eloquenzia; le quai cose mi fanno credere che siano state da loro inviluppatamente dette, perché non hanno voluto filosofar intorno a questo fatto, né cercar diligentemente qual cosa negli altrui scritti imitar non si possa, e perché, e di quelle che possiamo imitar, quali si deono da un solo e perfetto autor ricercare, e quali da più ancor di diversi secoli e di diverse lingue ricercar et imitar si potrebbono. Il perché io non come ardito, o perché io mi stimi sofficiente, ma come desideroso che questa verità si trovasse, con l’aiuto d’Iddio mi darò fatica di aprir, secondo l’aviso mio, quali e quante siano le parti della eloquenzia, e di queste qual sia quella, di cui solamente l’effetto e non la cagione imitar possiamo, e perché e quali e quante siano quelle che ci possiamo nell’altrui scritti pro­porre, e come. E per incominciar, dico quel che un’altra fiata in questa orazione dissi, che io non credo che la natura dell’autore possa esser imitata giamai, ma solamente que’ consigli che da lei procedono; e per grazia di esempio, un nuovo architetto non potrà mai rappresentar la natura d’un antico, che avesse fatto un tempio ad Ercole o a Diana, sì che quella istessa potesse esser giudicata; ma quel consiglio che l’antico ebbe di far al tempio d’Ercole le colonne robuste, a quel di Diana le sottili, e di volger la porta del tempio o verso il fiume, perché fusse rivolta al dio che l’antichità credea fusse nel fiume, o verso la strada, perché fusse accommo­data alle salutazioni de’ viandanti. Et invero questi consigli sono di tanta virtù, perché soli danno la strada e lo indirizzo a tutti i sensi, li quali potessero esser trattati dalla eloquenzia; che di loro in loco della natura a bastanza contentar ci possiamo. Ma perché i consigli d’inviar 1’eloquenzia a quel camino, nel qual era al più felice secolo, sono stati tanto lontani dalla cognizion di questi, che hanno sì strana openione nella composizione della lingua, quanto essa lingua è stata lontana da loro; mi sforzerò con alcuno esempio di far quelli non pur vicini all’intelletto, ma ancora al senso. Ma non vi posso dar l’esempio, ch’egli non sia sì grande, che abbracci il tutto. Et essendo diviso in sette parti, la sesta solamente sarà accommodata a quel ch’io prometto.

Poniamo che la nobilissima arte del disegno fusse per esser in­segnata dai più periti scultori e pittori, talmente che nessuna parte dell’opera che volessero comporre avesse difetto alcuno, anzi com­prendesse tutto quel che potesse mai far un scultore o un pittore nell’opera delle figure. Siate contenti, eccellenti scultori e pittori, di porgere un poco l’orecchio a uno che né scolpir né dipinger sa: e se vi parrà che nella maravigliosa arte vostra sappia disporre i vostri secreti a perfetto numero, sopra il qual non si può ascen­der e sotto il qual scender non si dee, potrete pigliar indicio che io meglio sapessi o potessi far ciò in quella facultà, negli ordini della quale ho collocato già tanti anni. Certo, per quel che io mi creda, dovreste far sette gradi principali, per i quali salendo potreste giugnere per virtù della imitazione alla eccellenzia degli antichi vostri. Adunque, nel primo grado devreste aver ordinati tanti lochi, che potessero alloggiar non solamente l’uomo, ma tutti gli altri animali che sotto il disegno potessero cadere, accioché colui che volesse pigliar le norme di disegnare alcuno sapesse andar là, dove a man salva trovar lo potesse. Nel secondo, per mio aviso, devrebbe esser collocata la differenzia di essi animali per il sesso: perché altra considerazion si dee aver volendo disegnar un maschio, altra vo­lendo fingere una femina. Nel terzo la differenzia per l’età, perché altrimenti si finge un uomo maschio e fanciullo, altrimenti un gio­vane, altrimenti un vecchio. E perché la infermità o la stanchezza, la sanità o la robustezza hanno gran somiglianza con l’età, tutte potrebbono in questo terzo ordine capere. Nel quarto devrebbono es­ser posti gli offici degli animali: percioché altrimenti sarebbe da esser finto un uomo religioso, altramente un soldato, quello umile, questo altero; così in altra vivacità un cavallo indomito, in altra uno avezzo alla guerra, altrimenti un dato alle vil fatiche. Nel quinto sarebbon da esser richiamati non pur i scorticamenti di tutti gli animali, le fattezze per fino ai nervi e le magrezze vicine a quelle, e poi le quan­tità e le qualità delle carni, che in quelle entrar potessero per dar co­gnizione di poter far di così fatte vote o empiute di carne, e per la pittura potrebbono essere aggiunti i colori e le loro misture et anco l’uso di quelli, e finalmente i lumi e l’ombre et appresso tutte le cose che potessero andar sopra la carne ignuda, che alli scultori e pittori sono communi, cioé tutti gli abiti e gli ornamenti che a gli animali spettano. Imperoché le pieghe de’ panni vogliono esser nei luoghi voti della figura, ma i luoghi dove sono i rilevi del corpo apparenti, come le spale, il petto, le ginocchia, i bracci, deono esser netti di pieghe, accioché quella parte del corpo che spunta, si vegga dar la sua forma al panno. E poche pieghe deono esser date intorno alla figura, per non cadere in confusione, e quelle pur, che deono esser mostrate, vogliono porger ornamento et esser in buon luogo. Nel sesto deono esser ordinate tutte le posizioni o movimenti del corpo che dir vogliamo. Questo sarebbe per aventura quello, nel qual l’artefice potrebbe mostrare più che in altro lo stile suo. E benché paiono infinite così fatte posizioni, imperoché ciascuna con una picciola alterazione potrebbe esser divisa in molte; nondimeno poche sarebbono le principali, e pur quando ancor sotto le princi­pali volesse ordinar le sotto divise, verrebbon senza dubbio a nu­mero che averebbe certo fine. Questo ordine adunque mostrerebbe non solamente quante posizioni possa far un corpo umano o di altro animale, ma la misura di ciascuna, percioché, ripigliando tutti gli ordini di sopra, un medesimo corpo maschio, giovane, soldato, vestito potrà esser collocato in molte posizioni; e mentre avrà com­poste le membra in una, darà una misura da un lato in un modo, che in un’altra la variarebbe per cagion di qualche scemo che fusse fatto da alcuna contrazzione, o di qualche aumento prodotto da alcuna cosa che facesse stender quella parte. Nel settimo, senza il qual tutti gli altri sarebbon vani, avrebbe luogo il giudicio di eleg­ger più tosto di finger in quel nicchio un uomo che un leone, più tosto un maschio che una femina, più tosto un giovane robusto che un fanciullo tenero, più tosto un soldato che un religioso, più tosto un vestito che uno ignudo, e più tosto questo uomo maschio giovane, soldato e vestito, in tal posizione, che avesse il destro piede, che è il più forte, avanti che ‘l sinistro, in atto di andante, non di uno che si riposi, avendo riguardo alla natura dell’animale e del luogo, alla vicinità et alla lontananza. E se per i sette ordini vi par che uno scultor o pittore potesse venire alla imitazion di ciascuna figura fatta dai perfettissimi antichi vostri, viviate sicuri che per il medesimo settenario numero di gradi, quando fusse ripie­no di tutte quelle cose che degno d’imitazione alcun eloquente antico facessero, a quella istessa eccellenzia che giunse l’antico, potrebbe, colui che imitasse, in alcun modo pervenire. Et il primo grado, che avesse a corrispondere al vostro, il quale è di tutti gli animali ornato, sarebbe con un dottissimo ordine di tutte te materie che potessero esser trattate da un eloquente. E gran bellezza sareb­be di veder un dopo l’altra tutte l’openioni di Aristotile, di Pla­tone e degli altri filosofi per fin da’ nostri cristiani teologi, et ap­presso tutte le istorie che a così fatta materia appartenessero. Né così fatte materie doverebbono, si come al suo luogo ho mostro, esser senza le sue passioni, né senza i luoghi dai quali le dette pas­sioni tirar si possono. In questo finalmente tutte non pur le liberali arti, ma ancor le altre, e degne e men degne, devrebbono tutte le lor pompe spiegare. Il secondo grado nostro da esser adeguato al vostro, dei sessi degli animali, devrebbe mostrarci le differenzie delle trattazioni per il verso e per le prose, perché una medesima materia può esser trattata dal poeta e dall’oratore, ma altrimenti dall’’uno et altrimenti dall’altro. Il terzo grado ci farebbe ascender alla età, per così dire, delle materie; imperoché, sì come nei vostri animali considerate la fanciullezza piena di semplicità, la giova­nezza tutta dilettevole, la virilità grave, la vecchiezza severa; così abbiamo noi nelle materie l’ordine de’ sensi, de’ quali alcuni sono semplici, alcuni dilettevoli, alcuni gravi, altri severi, per fino al numero di nove mostrati di sopra. Il quarto tien gli offici delle ma­terie: percioché quantunque e semplicità e dilettazione, e gravità e severità aver possano, nondimeno, sì come nel vostro si devrebbe veder altra semplicità in un fanciullo, altra in un uomo rozo, altra forza in un soldato, altra in un che porta a prezzo; così il nostro ordine ci mette avanti altrimenti la semplicità d’una materia che parla d’un fanciullo, altrimenti di quella che tratta d’un pastore o d’un rustico, altrimenti la gravità di quella materia che tratta dell’anima, altrimenti quella che parla del cielo, degli elementi o della repubblica, ancor che tutte quelle caggiano sotto la semplicità e queste sotto la gravità. Il quinto grado comprende le locuzioni proprie, traslate, topiche. E le proprie sono quelle che a guisa di carne deono esser messe ai lochi che la natura dimanda pel corpo dell’eloquenzia, il qual senza le parole, ma già apparecchiato a ricever quelle, non altrimenti che la materia già fatta vicina alla eloquenzia e che già fosse dall’artificio acconcia e disposta, e la qual, sì come un corpo organizzato ma sec[c]o, desiderasse la carne che lo vestisse e tutte le sue parti vote riempisse, e spesso ancor volesse mostrar non la carne, ma i vestimenti, e questi sono i tra­slati; de’ quali traslati quelli che sonsi adoperati da tutti gli autori, che non fanno vista di esser traslati, sotto la penna di tutti i buoni corsero a guisa di quella parte de’ vestimenti che assetta bene ai pieni del corpo, e paiono esser nati con esso loro, ove senza va­ghezza di falde si uniscono coi rilevi; ma dove, per le parti che scaggiono, non può andar così fatto assettamento, han luogo le falde delle parole, cioè lo traslato dell’artificio dell’autor solo. E perché il vostro sesto grado insegnava quante positure potessero esser collocate in un corpo, il nostro, che gli corrisponde, parimente potrebbe dimostrare in quante posizioni sia stato collocato il senso d’una materia dal perfetto antico con le misure sue; percioché un medesimo senso d’una istessa materia è stato posto or in posizion diritta, or in obliqua, or in quella che porta ammirazione, or in quella che dimanda. Le quai posizioni, benché molte siano, pur hanno il numero finito. Il settimo mio et ultimo grado, per il qual possiamo finalmente giungere a quello che si può et al qual asceso possiamo dir di aver nel tutto imitato, è il dar giudicio del­la elezzione, il qual dee correr per tutti gli altri sei ordini. Con­ciosiacosa che, avuto riguardo a chi si scrive et alla facultà nella qual si scrive, et alla cosa di che si scrive per il giudicio di colui che vorremo imitare, potremo saper pigliar più tosto delle materie quella che ministrerà Platone, che quella che darà Aristotele; più tosto quella che sarà trattata da Basilio o da Crisostomo, che quella di Tomaso o di Scotto; e più tosto la grave che la severa, e più tosto la grave della materia dell’anima che la grave della republica; più tosto la locuzion propria che la traslata; più tosto la posizione ammirativa che la diritta. E tanto di questi sette gradi voglio aver detto, accioché io vi abbia solamente aperto quanti e quali al parer mio siano quelli, per i quali alla imitazione ascender pos­siamo.

Non è adunque la eloquenzia da esser solamente considerata nelle parole, sì come neanche un edificio nelle pietre sole. E non altrimenti che le pietre fan sensibile quel modello che prima stava occulto nella mente dell’architetto, così le parole fan sentir la for­ma dell’eloquenzia, la qual prima, senza cadere sotto l’altrui senso nell’animo dell’eloquente stava riposta; e di nuovo, sì come quel medesimo modello potrebbe esser fatto sensibile da pietre cotte, da marmo bianco o da porfido, così in un medesimo modello di eloquenzia può esser vestito di parole galliche, romane o greche. Adunque è da considerare che, prima che ‘l modello venga alla cognizion del senso per mezo delle parole, sia dall’intelletto alla imitazion di alcun perfetto ben formato introdotto e disposto. Percioché non altrimenti che molti edifici si veggon fabricati di marmi nobilissimi senza disegno alcuno, così ho veduto spesso molte composizioni di bellissime parole senza alcuna forma lau­dabile, per contrario molti bei modelli d’indignissime pietre fatti. Ricordami già in Bologna, che uno eccellente anatomista chiuse un corpo umano in una cassa tutta pertugiata, e poi la espose ad un corrente d’un fiume, il qual per que’ pertugì nello spazio di pochi giorni consumò e portò via tutta la carne di quel corpo, che poi di sé mostrava meravigliosi secreti della natura negli ossi soli et i nervi rimasi. Così fatto corpo dalle ossa sostenuto io assomiglio al modello della eloquenzia dalla materia e dal disegno solo soste­nuto. E così, come quel corpo potrebbe essere stato ripieno di carne d’un giovane o d’un vecchio, così il modello della eloquenzia può esser vestito di parole che nel buon secolo fiorirono, o che già nel caduto languide erano. E così come all’occhio dispiacerebbe veder che ‘1 capo d’un tal corpo fusse vestito di carne e di pelle di giovane, ma il collo di carne e di pelle di vecchio tutta piena di rughe, e più ancor se in una parte fusse di carne e di pelle di ma­schio tutta virile, in un’altra di femina tutta molle, e maggiormente se avesse il braccio di carne pertinente all’uomo, et il petto di quella che si richiede al bue overo al leone, e non fusse tutta equa­bile e qual doverebbe esser nella sua più fiorita età, cosi sarebbe ingrato all’orecchio et all’intelletto l’udire e l’intendere una orazion che non avesse tutte le parti vestite d’una lingua e non fusse tutta a sé medesima conforme, e che non potesse esser richiamata ad un secolo. E quando sarà richiamata a quello, nel quale ella più che in altro avesse mostro il valor, il vigor e la bellezza sua, tanto più sarà degna di laude, e quanto meno in lei si vedrà lingua di altra generazione, tanto meno dispiacerà. E nel vero, se la favola di Pelope fusse istoria, credo che strana cosa sarebbe stata a veder la spalla sua di avorio et il resto del carpo altrimenti; tal vista fareb­be per aventura, e più spiacevole, un satiro, un centauro, un mo­stro.

Per le quai ragioni si conclude, nella perfetta composizion tre cose principalissime esser da osservare: l’età perfetta, quello che è quasi sesso, e la specie. La eloquenzia adunque ha due faccie: l’una che riguarda il modello, l’altra le parole; et il modello dalla sua parte ha molte cose, come i consigli, le materie, le passioni, le vie da introdur le materie, i trovati, gli assonti, gli argomenti. Ma le parole, oltre che vanno in tre parti divise, tirano alcune figure di collocazione, i membri, le legature, la testura, l’estremità, i nu­meri e l’armonia: le quai tutte cose, con alcune altre che di dir mi riservo perfino che alla Regia Maestà piacerà, e non sono di minor peso che quelle che io ho narrate, o quelle che nel corso dell’orazione presente ho proposto di narrare, ci daran mano, spero, di giugner in alcun modo a quella sommità, dalla qual potremo guardar in giù tutti coloro che senza la imitazion d’un perfetto alla composizione vengono. Duolmi che non mi sia lecito dimostrare di tutte le dette cose la facilità e prestezza, ma per fino a qui vi basti aver inteso che io abbia l’arma cinta, con la qual, se mi fusse lecito con piacer del Re e che la legge di Cristo me lo promet­tesse, mi potrei difender contra quei che a torto mi vanno laceran­do. Questa arma, Erasmo mio, in difesa mia e della tua mente, la qual so ben che dalli scritti tuoi discorda, quando non mi sarà vietato metterla a mano, non già per offendere altrui, ma perché io non mi lassi offendere, spero contra gli altrui morsi mostrar col favor di tutti i buoni ignuda.